Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione V

sentenza 27 marzo 2015, n. 1614

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO
IN SEDE GIURISDIZIONALE
SEZIONE QUINTA
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7923 del 2014, proposto da:
Ro.Va., rappresentato e difeso dall’avvocato An.Br., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Via (…);
contro
Dottoressa Ca.Pa., rappresentata e difesa dall’avvocato Ma.Sa., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale (…);
nei confronti di
Roma Capitale, in persona del sindaco in carica, rappresentata e difesa dall’avvocato Ca.Sp. dell’avvocatura comunale, con domicilio eletto in Roma, Via (…); dottoressa Fr.Ca. ed altri;
per la riforma della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE II n. 06611/2014, resa tra le parti, concernente l’approvazione in via definitiva della graduatoria selettiva pubblica per il conferimento di n.14 posti – profilo professionale di curatore archeologo
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Roma Capitale, di Ca.Pa. e di Fr.Ca.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 marzo 2015 il Consigliere Carlo Schilardi e uditi per le parti gli avvocati An.Br. ed altri;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
 

FATTO

 
1.- Il comune di Roma Capitale bandiva un concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di n. 14 posti di “curatore archeologo”, categoria D, posizione economica D1.
All’esito della selezione, la dottoressa Ca.Pa., collocatasi al diciannovesimo posto della graduatoria definitiva con il punteggio complessivo di 26,20, impugnava, innanzi il T.A.R. per il Lazio (RG. n. 8634/2013), la determinazione dirigenziale n. 2189 del 9 agosto 2013 di approvazione di detta graduatoria, l’art. 7 del bando di concorso e il regolamento di disciplina in materia di accesso agli impieghi del comune di Roma Capitale per il personale non dirigente, approvato con delibera di Giunta comunale n. 424 del 22 dicembre 2009.
La ricorrente lamentava la violazione degli artt. 7 e 8 del D.P.R. n. 487/1994 e degli artt. 35 e 70 del D.Lgs. n. 165/2001, assumendo che l’amministrazione, per la formazione della graduatoria, aveva erroneamente utilizzato il criterio della somma aritmetica dei singoli punteggi ottenuti dai candidati nelle varie prove previste dal bando con il punteggio relativo ai titoli posseduti, anziché il diverso criterio della somma tra la media dei punteggi ottenuti nelle prove scritte, il punteggio relativo alla prova orale e il punteggio relativo ai titoli posseduti, criterio quest’ultimo che l’avrebbe collocata al dodicesimo posto in graduatoria e dunque in posizione utile per l’assunzione.
Si costituiva in giudizio il dottor Ro.Va., collocatosi al tredicesimo posto nella graduatoria finale approvata dal Comune, che spiegava contestuale ricorso incidentale per l’impugnazione dei medesimi provvedimenti di cui al ricorso principale nonché distinti articoli del bando di concorso e del regolamento comunale per l’accesso all’impiego.
Il dottor Va. deduceva che, col combinato disposto degli articoli 7 e 8 del D.P.R. n. 487/1994, il punteggio delle prove scritte, delle prove orali e dei titoli sarebbe dovuto essere espresso in trentesimi, salva la possibilità di ricorso a formule equivalenti e che il superamento delle prove si sarebbe avuto con il conseguimento del punteggio minimo di ventuno/trentesimi.
Il dottor Va. assumeva, inoltre, che il punteggio attribuibile ai titoli non può essere superiore ai 10/30 e che agli stessi titoli non potrebbe attribuirsi un “peso” superiore ad 1/7 del punteggio complessivo ottenuto dai candidati.
Sul punto il dottor Va. lamentava l’illegittimità del bando atteso che aveva previsto un punteggio assegnabile ai titoli pari (al massimo) ad 1/3 del punteggio complessivo e, quindi notevolmente superiore all’indicato 1/7 previsto dalla normativa in materia.
Il dottor Va. evidenziava che la commissione avrebbe utilizzato due diversi coefficienti di valutazione per i titoli e per le prove scritte, falsando l’incidenza dei titoli rispetto alle prove concorsuali.
Il dottor Va. soggiungeva che se la commissione giudicatrice avesse rispettato il limite massimo del punteggio attribuibile ai titoli, la dottoressa Ca.Pa. si sarebbe posizionata al trentesimo posto della graduatoria definitiva e, quindi, in posizione ancora meno utile rispetto a quella ricoperta, con la conseguenza che il ricorso avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile per carenza di interesse.
Il dottor Va. assumeva, infine, che la corretta applicazione dei criteri di attribuzione del punteggio, previsti nei richiamati articoli 7 e 8 del D.P.R. n. 487/1994, avrebbe determinato la sua collocazione all’undicesimo posto della graduatoria finale e, dunque, in posizione migliore a quella conseguita (13°).
Con ordinanza n. 10975/2013 il T.A.R. disponeva l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei controinteressati (signori El.Ca. ed altri) che però non si costituivano in giudizio.
1b.- Il T.A.R. per il Lazio con sentenza n. 6611, depositata il 23 giugno 2014, ha respinto il ricorso incidentale ed ha accolto il ricorso principale, annullando i provvedimenti impugnati.
2.- Avverso la sentenza il signor Ro.Va. ha proposto appello con unico motivo di censura e riproponendo, altresì, le doglianze già avanzate in primo grado.
Si è costituita, in giudizio la dottoressa Fr.Ca., che ha aderito all’appello principale e, contestualmente, ha spiegato appello incidentale.
Si è costituita in giudizio la dottoressa Ca.Pa. che ha chiesto di rigettare gli appelli così come proposti e confermare, per l’effetto, la sentenza del T.A.R. n. 6611/2014.
Si è costituito in giudizio il comune di Roma Capitale chiedendo il rigetto del ricorso, in quanto inammissibile, improponibile, infondato in fatto e in diritto e comunque non provato.
All’udienza pubblica del 3 marzo 2015 la causa è stata assunta per la decisione.
 

DIRITTO

 
3.- In ordine ai motivi di censura avanzati dal sig. Ro.Va. con il ricorso incidentale e riproposti in questa sede, questo Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria, 3 giugno 2011, n. 10), ha già avuto modo di chiarire che la mera riproposizione dei motivi di primo grado può essere giustificata solo quando manchi un’espressa ponderazione degli stessi da parte del TAR e non quando una valutazione vi sia stata.
Nel sistema di giustizia amministrativa il giudizio di primo grado non è, difatti, un passaggio obbligato che il soggetto è costretto suo malgrado a percorrere pur di giungere dinanzi al giudice d’appello e ottenere da questi la decisione finale sulla fondatezza della pretesa, ma una fase essenziale del processo amministrativo, nel corso della quale il giudice adito confronta le opposte tesi e dichiara quale va ritenuta fondata (Consiglio di Stato, Sez. V, 17 ottobre 2008, n. 5065).
L’appello dinanzi al Consiglio di Stato avverso la decisione di primo grado, ai sensi dell’art. 101 c.p.a. non può, quindi, consistere nel richiamare censure prospettate con il ricorso di primo grado, né può limitarsi ad una pedissequa riproposizione delle questioni e delle eccezioni articolate in quel grado, mentre possono essere meramente riproposti i soli motivi non esaminati o dichiarati assorbiti in primo grado.
Pertanto, la valutazione di questo Collegio non può che avere ad oggetto l’unica doglianza specifica contenuta nell’atto di gravame, con cui il signor Ro.Va. lamenta “error in judicando (violazione di legge in relazione agli artt. 7 e 8 D.P.R. 9 maggio 1994 n. 487) – erroneità, incongruità e contraddittorietà della motivazione – travisamento – error in judicando (violazione del principio di imparzialità della P.A. art. 97 Cost.”
4.- L’appellante sostiene che il T.A.R. avrebbe erroneamente interpretato l’articolo 8, comma 2, del D.P.R. n. 487/1994, avendo il Tribunale ritenuto che “nei concorsi per titoli ed esami non possa essere assegnato ai titoli un punteggio superiore ad un terzo del punteggio complessivo disponibile”.
In particolare, l’appellante osserva che il citato articolo dispone espressamente che “per i titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo superiore a 10/30 o equivalente” e che per “punteggio complessivo” il legislatore ha voluto intendere esclusivamente il valore riferito ai titoli , conseguentemente lo stesso non verrebbe posto in relazione con il punteggio complessivo finale.
L’appello è infondato e va respinto.
Il dottor Ro.Va. richiama il dettato dell’art. 8 del D.P.R. n. 487/1994 e s.m.i. (“concorso per titoli ed esami”), il quale dispone che “per i titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo superiore a 10/30 o equivalente”, ed il dettato del precedente art. 7 che, in ordine alla valutazione delle prove scritte, stabilisce che “i voti sono espressi, di norma, in trentesimi. Conseguono l’ammissione al colloquio i candidati che abbiano riportato una votazione di almeno 21/30 o equivalente”. Anche per quel che concerne il colloquio questo “si intende superato con una votazione di almeno 21/30 o equivalente”.
L’appellante conviene, poi, nel ritenere che il combinato disposto degli articoli 7 e 8 del D.P.R. n. 487/1994 trova applicazione anche con riferimento alle procedure indette dagli enti locali.
Tanto, peraltro, coerentemente con l’orientamento di questa Sezione, che con sentenza 1° febbraio 2010, n. 397 si è espressa in ordine al rapporto tra potestà regolamentare degli enti locali e normativa statale in materia; nella sentenza sono stati ritenuti superati tutti gli argomenti diretti a dimostrare la cedevolezza della normativa statale a fronte della potestà regolamentare degli enti locali in materia di organizzazione dei propri uffici e servizi e del reclutamento del personale attribuita prima dall’art. 6 della legge n. 127/1997 e poi dal nuovo assetto costituzionale introdotto dalla legge costituzionale n. 2/2001; con la conclusione che detti enti territoriali, nell’esercizio della loro autonomia, “sono tenuti comunque a conformarsi ai meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire, propri di qualsivoglia procedura concorsuale, statale o locale”.
L’appellante sostiene, tuttavia, che il legislatore, con l’art. 8 comma 2, del D.P.R. n. 487/1994, ha determinato solo il valore numerico massimo attribuibile ai titoli posseduti dal candidato (10/30), valore (o punteggio) che non rappresenta, come erroneamente ritenuto dal T.A.R., il “peso” massimo attribuibile ai titoli nel punteggio complessivo.
5.- Così individuato l’oggetto del contendere, occorre allora verificare quale sia effettivamente l’incidenza dei predetti titoli e del relativo punteggio sulla votazione complessiva finale della procedura concorsuale.
Ai fini del decidere, premessa fondamentale è la circostanza che nei concorsi per titoli ed esami, ivi compresi quelli indetti dagli enti locali, l’incidenza dei titoli sul punteggio complessivo finale è quella fissata dall’art. 8 comma 2, del D.P.R. 487/1994, norma che ha stabilito, come si è detto, che per i titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo superiore a 10/30 o equivalente (Consiglio di Stato, Sez. V, 7 ottobre 2013, n. 4922).
Orbene, sul punto il T.A.R. si è preoccupato di chiarire se tale tetto massimo sia da rapportare al punteggio delle altre prove o al punteggio complessivo finale, concludendo, in termini che questo Collegio non può che condividere, che il punteggio massimo di 10/30 o equivalente sia da rapportare non al punteggio delle altre prove ma al punteggio complessivo, e ciò in base a vari indici interpretativi e precedenti giurisprudenziali.
Tale interpretazione, contrariamente da quanto assunto dall’appellante, consente di far proprio un metodo di calcolo e di distribuzione dei punteggi che non attribuisce prevalenza determinante, né ai titoli né alle singole prove d’esame e concilia le esigenze e le aspirazioni dei candidati più giovani rispetto a quelli che, in anni di lavoro, hanno accumulato consistenti titoli di servizio.
5b.- L’attività regolamentare dell’ente, come evidenziato dai primi giudici, non può non tener conto che l’unica differenza tra il concorso per titoli ed esami e quello per solo esami è data dall’aggiunta del punteggio per i titoli (rimanendo entrambe le procedure concorsuali strutturate su prove scritte ed orali), con il dovere di evitare una illogica prevalenza dei titoli o delle prove, trasformando il concorso per soli titoli o per soli esami.
Come si è detto, nei concorsi per titoli ed esami, l’incidenza dei titoli sul punteggio complessivo finale è stata graduata direttamente dal legislatore, il quale all’art. 8 comma 2, del d.p.r. 487/94 ha previsto espressamente che per i titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo superiore a 10/30 o equivalente.
Quindi, il problema di graduare l’incidenza dei titoli e del relativo punteggio sulla votazione complessiva finale, è stato risolto a monte direttamente dal legislatore che ha normativamente prefissato il limite invalicabile dell’incidenza dei titoli sulla valutazione complessiva (Consiglio di stato, Sez. V, 7 ottobre 2013, n. 4922).
L’art. 8, dedicato alla diversa tipologia di concorsi per titoli ed esami, prevede, al comma 4, che “La votazione complessiva è determinata sommando il voto conseguito nella valutazione dei titoli al voto complessivo riportato nelle prove d’esame”.
Orbene, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, nei concorsi per titoli ed esami il punteggio complessivo è costituito dalla somma del punteggio conseguito per la valutazione dei titoli, dalla media del punteggio realizzato nelle prove scritte e dal punteggio attribuito alla prova orale (Cons. Stato Sez. V – 7 ottobre 2013 n. 4922).
Ciò in quanto, pur non prevedendo espressamente il comma 4 dell’art. 8 del D.P.R. n. 487 del 1994 il criterio della media dei voti riportati nelle prove scritte – esplicitamente richiamata solo dall’articolo 7 comma 3, per i concorsi per soli esami – tale norma deve essere sottoposta ad una lettura coordinata con il precedente articolo, imponendo ragioni sistematiche di coordinamento normativo che il criterio della media dei voti per le prove scritte si applichi anche ai concorsi per titoli ed esami.
E l’art. 7 comma 3, del D.P.R. n. 487 del 1994 – contenente il regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi – prevede, poi, che nei concorsi per soli esami “Il punteggio finale è dato dalla somma della media dei voti conseguiti nelle prove scritte o pratiche o teorico-pratiche e della votazione conseguita nel colloquio”.
Invero, una eventuale differenziazione del criterio di valutazione delle prove scritte in ragione della tipologia di concorso – per soli esami o per titoli ed esami – sarebbe irrazionale, atteso che l’unica differenza tra il concorso per titoli ed esami e quello per soli esami è data dall’aggiunta del punteggio per i titoli, rimanendo entrambe strutturate su prove scritte ed orali.
Si deve ulteriormente rilevare che le prove scritte, sia nei concorsi per titoli ed esami che in quelli per soli esami, pur essendo formalmente articolate in più elaborati e su più materie, costituiscono una prova unitaria al pari di quella orale, con la conseguenza che appare logico che debbano essere valutate sulla base del loro valore mediato in entrambi i concorsi.
6c.- A tale principio non ostano sia le previsioni recate dal bando – il quale prevede che la graduatoria di merito sarà formata “sulla base dei singoli punteggi conseguiti nella valutazione dei titoli di servizio, cultura e vari e nelle prove d’esame” – che dal regolamento di disciplina in materia di accesso agli impieghi presso il Comune, pur trattandosi di disposizioni non chiare, con la conseguenza che deve farsi ricorso alla normativa generale statale in materia di accesso ai pubblici impieghi, la quale delinea il criterio generale della media dei voti delle prove scritte sia con riferimento ai concorsi per esami che ai concorsi per titoli ed esami.
Come si è accennato, peraltro, non ricorre in materia la cedevolezza della normativa statale a fronte della potestà regolamentare nella materia dell’organizzazione dei propri uffici e servizi e del reclutamento del personale attribuita agli enti locali, rappresentando il rinvio, di cui al comma 7 dell’art. 35 D.Lgs. n. 165 del 2001 – specifico per le procedure concorsuali negli enti locali – alla disciplina generale contenuta nel comma terzo dello stesso art. 35, il limite della potestà regolamentare.
6d.- Conseguentemente gli enti locali, nell’esercizio della loro autonomia, sono tenuti, comunque, a conformarsi ai meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire, propri di qualsivoglia procedura concorsuale, statale o locale.
Nel novero di tali meccanismi va ascritto anche il criterio della media dei voti riportati nelle prove scritte o pratiche, e ciò in considerazione del più volte dichiarato carattere di disciplina generale del pubblici concorsi proprio del D.P.R. n. 487 del 1994, e della necessità di ancorare il calcolo del punteggio conseguito dai candidati a parametri uniformi e validi per qualsivoglia concorso e nell’intero territorio nazionale, non potendo la potestà regolamentare essere piegata all’introduzione di criteri disomogenei da comune a comune, suscettibili di produrre risultati diversi a seconda delle modalità seguite.
Se quindi il regolamento dell’ente locale ben si presta a conformare le modalità di assunzione e i requisiti dei concorrenti al diverso assetto dei singoli comuni, così non è per il procedimento concorsuale la cui rigidità, nell’ambito delle diverse tipologie previste dalla legge, è sinonimo di efficienza ed imparzialità, delle quali sono espressione i meccanismi oggettivi e trasparenti che devono presiedere la valutazione delle capacità dei singoli partecipanti secondo l’art. 35 D.Lgs. n. 165/2001 e che proprio per questo sottraggono le modalità di calcolo del punteggio all’autonomia regolamentare degli enti.
7.- In ordine, poi, all’assegnazione del voto in trentesimi, anziché in decimi, il fatto che l’art. 7 comma primo, del d.P.R. n. 487/1994 stabilisce che “i voti sono espressi, di norma, in trentesimi”, ciò non preclude, tuttavia, l’utilizzo del sistema decimale ai fini della valutazione dei candidati, atteso che l’utilizzo del diverso sistema di quantificazione del punteggio non avrebbe condotto a un diverso esito dell’esame (così, Consiglio di Stato, Sez. VI, 17 maggio 2010, n. 3039).
Priva di fondamento, pertanto, è la complicata tesi dell’appellante, che il legislatore, fissando il punteggio massimo attribuibile ai titoli in 10/30 (o 3,3/10 se espresso in decimi), avrebbe indicato in tale misura il limite inderogabile della loro incidenza sulla votazione complessiva finale, per cui l’incidenza del punteggio riservato ai titoli nel punteggio complessivo finale sarebbe di 10/70 (se il voto fosse espresso in trentesimi e cioè 10 per i titoli + 30 per la media prove scritte + 30 per la prova orale) o 3,3/23,3 (se il voto fosse espresso in decimi e cioè 3,3 per i titoli + 10 per la media prove scritte + 10 per la prova orale).
In entrambi i casi l’incidenza dei titoli sul punteggio complessivo, espressa in termini percentuali, corrisponderebbe al 14,30 %.
La tesi risulta in evidente contrasto con l’interpretazione sistemica in questa sede data alle norme statali e regolamentari del Comune, perché verrebbe attribuito ai titoli un valore minimo, con l’effetto che il concorso, per i motivi esposti, subirebbe un grave sbilanciamento, diventando un concorso essenzialmente per esami e non per titoli ed esami.
Come evidenziato, invece, dall’appellato nelle proprie difese “l’evidente finalità di tale tetto massimo è quella di limitare il peso dei titoli e quindi dell’esperienza rispetto alla preparazione culturale attestata dalle prove scritte e orali; ebbene, proprio in funzione di tale finalità, il tetto massimo deve essere interpretato in via generale in rapporto al punteggio complessivo finale”.
Correttamente quindi il T.A.R. ha osservato che il regolamento comunale in materia è, peraltro, sostanzialmente conforme al disposto di cui all’articolo 8 comma 2, del D.P.R. n. 487/1994, sostenendo che “l’amministrazione con le norme del bando della procedura di cui trattasi, dopo avere legittimamente scelto di definire il punteggio con il coefficiente dei decimi invece che dei trentesimi, ha, da un lato, rispettato l’equivalenza, indicando il punteggio minimo per il superamento delle prove di esame in 7/10 e, dall’altro, ha indicato il punteggio massimo attribuibile ai titoli in n. 10 punti che rappresentano, appunto, 1/3 del punteggio massimo complessivo”.
Conclusivamente l’appello è infondato e va respinto.
8.- Nel suo appello incidentale, la dottoressa Fr.Ca., sostiene che l’originario ricorso proposto dalla dottoressa Ca.Pa., fosse improponibile, improcedibile ed inammissibile, per mancata tempestiva impugnazione del provvedimento di indizione del bando di concorso, atto presupposto e autonomamente impugnabile, divenuto, però, inoppugnabile al momento della notifica del ricorso.
Al riguardo il Collegio osserva, alla luce di un oramai consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, che i bandi di gara e di concorso vanno di regola impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione. Infatti, di fronte alla clausola illegittima del bando, il partecipante alla procedura concorsuale non è ancora da ritenersi titolare di un interesse attuale all’impugnazione, dal momento che egli non sa ancora se l’astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in una effettiva lesione della situazione soggettiva (Cons. Stato ad. plen., 29 gennaio 2003, n. 1).
L’onere d’immediata impugnazione del bando di concorso è, invero, circoscritto al caso della contestazione di clausole escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione, che siano ex se ostative all’ammissione dell’interessato, o, al più, impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale. Le rimanenti clausole, invece, vanno ritenute lesive ed impugnate insieme con l’atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva (in termini, Cons. St., sez. V, 27.10.2014, n. 5282).
8c.- Per quanto altro eccepito dalla dottoressa Ca. circa la presunta violazione e falsa interpretazione degli artt. 7 e 8 del D.P.R. n. 487/1994, del D. Lvo n. 165/2011, dell’art. 89 del D. Lvo n. 267/2000 e dell’art. 36 del D. Lvo n. 29/1993, si rimanda a quanto già esposto, sia in ordine al rapporto esistente nella materia de qua, tra normativa statale e regolamentazione degli enti locali, nonché relativamente alla valutazione delle prove in decimi anziché in trentesimi.
Conclusivamente vanno respinti sia l’appello principale del dottor Ro.Va., che l’appello incidentale della dottoressa Fr.Ca.
Tenuto conto della complessità delle questioni trattate e della non univocità degli orientamenti giurisprudenziali, sussistono giusti motivi per disporre tra le parti costituite la compensazione delle spese anche del presente grado giudizio.
 

P.Q.M.

 
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, respinge l’appello principale del dottor Ro.Va. e l’appello incidentale della dottoressa Fr.Ca.
Spese del presente grado di giudizio compensate tra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 marzo 2015 con l’intervento dei magistrati:
Mario Luigi Torsello – Presidente
Antonio Amicuzzi – Consigliere
Doris Durante – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Carlo Schilardi – Consigliere, Estensore
Depositata in Segreteria il 27 marzo 2015

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