Consiglio di Stato
sezione V
sentenza 20 febbraio 2014, n. 818
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO
IN SEDE GIURISDIZIONALE
SEZIONE QUINTA
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1313 del 2013, proposto da:
Di.Qu.Te. e La. S.n.c., rappresentata e difesa dall’avv. Gu.Pi., con domicilio eletto presso l’avv. Gi.Gr. in Roma;
contro
Provincia di Ancona, rappresentata e difesa dall’avv. Cl.Do., con domicilio eletto presso l’avv. Gi.Bo. in Roma;
Provincia di Ancona – Dip.III – Sett. I – Tutela e Valorizzazione Ambiente;
nei confronti di
Comune di Mo.Ro.;
Er.Sa. Spa;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. MARCHE – ANCONA: SEZIONE I n. 00737/2012, resa tra le parti, concernente diffida ad avviare al recupero o allo smaltimento i rifiuti derivanti dalle lavorazioni dello zuccherificio Sa.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Provincia di Ancona;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 12 novembre 2013 il Cons. Paolo Giovanni Nicolo’ Lotti e uditi per le parti gli avvocati Pi. e Do.;
FATTO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche, Sez. I, con la sentenza n. 737 del 21 novembre 2011, ha respinto il ricorso proposto dall’attuale appellante per l’annullamento del provvedimento 11.1.2011, prot. 1461, con cui il Dirigente della Provincia di Ancona – Dipartimento III – Settore I “Tutela e valorizzazione dell’ambiente” – Area ecologica – diffidava la Di.Qu.Te. e La. Snc ad avviare al recupero, o allo smaltimento, i rifiuti costituiti dalle calci di defecazione derivanti dalle lavorazioni dello zuccherificio Sa. utilizzate, per il recupero ambientale (R10), nel sito in localita’ Ponte Pio – Comune di Mo.Ro., dalla quota di 3 metri fino a quella di 4,7 metri dal p.c.
Il TAR fondava la sua decisione rilevando, sinteticamente, che la duplice circostanza che i lavori di recupero ambientale si fossero conclusi nell’anno 2007 e che tale recupero fosse avvenuto nell’ambito di una ex cava, risultava irrilevante per escludere l’applicabilita’ della disciplina concernente lo smaltimento e il recupero dei rifiuti, poiche’ l’ordinamento non contempla alcuna norma decadenziale che sottrae, all’autorita’ amministrativa, una volta ultimati i lavori di recupero, i poteri di controllo e di verifica (e i consequenziali poteri sanzionatori o ripristinatori di diffida) sul rispetto delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione.
Per il TAR, all’opposto, doveva essere applicato prioritariamente il principio in base al quale, autorizzata una determinata operazione non pericolosa (come il recupero di cui al caso in esame), alla conclusione della stessa vengano effettuate le opportune e conclusive verifiche per accertare il rispetto delle prescrizioni e per eventualmente applicare le corrispondenti misure (sanzionatorie o ripristinatorie).
Quanto sopra, sempre secondo il TAR, esclude anche la rilevanza delle contestuali operazioni di collaudo della cava ai sensi della L.R. n. 71-1997 che, solo occasionalmente, si sono sovrapposte alle operazioni di verifica sui lavori di recupero ambientale (R10) in questione, mantenendo quindi la propria autonomia.
Ha osservato il TAR che il rispetto dei valori di cui al DM 5.2.1998 costituiva un presupposto di entrambe le autorizzazioni, compresa, pertanto, quella a trasformare il deposito (R13) delle calci di defecazione, realizzato in attuazione del progetto autorizzato con delibera di GP 3.8.2004 n. 326, in deposito permanente (R10), secondo il progetto successivamente approvato con determinazione dirigenziale 18.4.2006, n. 365: tale presupposto non poteva che riguardare anche l’ulteriore materiale da abbancarsi per completare l’operazione di recupero.
Per il TAR, il rispetto dei parametri di cui All. 3 del DM 5.2.1998 non poteva limitarsi al rifiuto nella forma fisica in cui si prevedeva l’impiego (cd. “tal quale”), in questo caso avvenuto nell’anno 2004 per la messa in riserva (R13), e nell’anno 2006 per il recupero ambientale (R10); infatti, il concetto di rifiuto “tal quale”, su cui insiste la ricorrente in primo grado, compare solo nell’art. 8 del DM 5.2.1998, che disciplina le modalita’ di campionamento al fine della caratterizzazione chimico fisica del rifiuto stesso, mentre non compare nel successivo art. 9 ai fini dell’effettuazione del test di cessione di cui all’Allegato 3 dello stesso DM 5.2.1998.
Riguardo alle concrete modalita’ di campionamento applicate nella fattispecie, ha osservato il TAR che la relazione all’A.R.P.A.M. richiesta nel giudizio di primo grado per chiarire se i campioni, da cui era stato rilevato il superamento della concentrazione di Nichel, riguardavano il rifiuto abbancato “tal quale” era al momento dell’abbancamento, ovvero se il campione era (o poteva essere) il risultato della miscelazione con materiali diversi, gia’ presenti in sito o immessi successivamente ha attestato che tale campionamento e’ stato eseguito alla presenza dei propri tecnici secondo la norma UNI 10802 richiamata nei citati artt. 8 e 9 del DM 5.2.1998 da parte dei rappresentanti della ditta Er.Sa. e relativi consulenti senza alcun riscontro circa l’esistenza di materiali diversi dalle calci di carbonatazione.
Dalle valutazioni tecnico-scientifiche acquisite agli atti, e’ sembrato incontestabile al TAR che la variazione del pH influisca sul rilascio dei metalli nel test di cessione, creando una sorta di relazione inversamente proporzionale tra le due variabili (ossia al diminuire del pH aumenta il rilascio di Nichel e viceversa), ma non e’ stato sufficientemente dimostrato che, nel caso in esame, tale circostanza abbia provocato i valori riscontrati dall’A.R.P.A.M. nei test del 2008 e del 2010 che, interpellata dal TAR medesimo, ha escluso tale fenomeno; ne’ e’ stata fornita la prova che la variazione di pH, riscontrata nel corso del tempo, fosse dipesa dallo strato di coltre superficiale con cui le calci vennero ricoperte.
Relativamente a tali profili, e’ apparso utile al TAR richiamare conclusivamente gli studi effettuati dall’Universita’ Politecnica delle Marche – Facolta’ di Agraria – proprio su incarico di Er.Sa. Spa, la quale non ha riscontrato l’esistenza dei fenomeni allegati da parte ricorrente e che caratterizzerebbero il caso in esame (cfr. relazioni trasmesse da Er.Sa. Spa alla Provincia con note in data 4.2.2009 e 27.4.2009).
L’appellante contestava la sentenza del TAR, deducendo:
– Errore di giudizio e motivazione erronea e contraddittoria sul motivo di ricorso. Violazione e falsa applicazione degli artt. 181 e 208 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Violazione degli artt. 5, 8 e 9 del D.M. 5 febbraio 1998 e degli Allegati 1 e 3. Eccesso di potere per falso supposto di diritto e di fatto e per manifesta illogicita’ e contraddittorieta’.
Con l’appello in esame, si chiedeva l’accoglimento del ricorso di primo grado.
Si costituiva l’Amministrazione appellata chiedendo il rigetto dell’appello.
All’udienza pubblica del 12 novembre 2013 la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Rileva il Collegio che l’odierno appellante ha impugnato il provvedimento 11.1.2011, prot. 1461, con cui il dirigente della Provincia di Ancona – Dipartimento III , Settore I “Tutela e Valorizzazione dell’ambiente” – Area ecologica, ha diffidato la Di.Qu.Te. & La. Snc ad avviare al recupero ovvero allo smaltimento i rifiuti costituiti dalle calci di defecazione derivanti dalle lavorazioni dello zuccherificio Sa. utilizzate per il recupero ambientale (R10), nel sito in localita’ Ponte Pio – Comune di Mo.Ro., dalla quota di 3 metri fino a quella di 4,7 metri dal p.c.
La diffida derivava dalle attivita’ di collaudo della ex cava Qu. entro cui venivano effettuati i suddetti lavori di recupero ambientale; tali attivita’ includevano le analisi effettuate su alcuni campioni di materiale abbancato prelevati negli anni 2008 e 2010, da cui era emersa una concentrazione di Nichel largamente superiore al limite previsto dall’All. 3 al DM 5.2.1998.
La Provincia, riscontrate tali anomalie, ha ritenuto che la Ditta Qu., titolare dell’autorizzazione per il recupero ambientale (R10), non avesse ottemperato alle prescrizioni di cui alla predetta autorizzazione, con riferimento all’impiego di rifiuti conformi ai limiti di cui al citato All. 3 al DM 5.2.1998, esercitando cosi’ il proprio potere di diffida ai sensi dell’art. 208, comma 13, lett. a) e b), D.Lgs. n. 152-2006.
La Ditta Qu., infatti, dapprima e’ stata autorizzata con D.G.P. n. 152 del 3.8.2004 alla messa in riserva (R13) di rifiuti non pericolosi prodotti dallo zuccherificio Er. Sa., poi al recupero ambientale (R10) di detta area.
Il test di cessione effettuato dalla stessa sui rifiuti ex DM 5.2.1998 all. 3 ai fini di ottenere dette autorizzazioni aveva dimostrato il rispetto dei limiti di legge ed il Comune di Mo.Ro., nel cui ambito insiste l’area in questione, relativamente alla procedura di collaudo della cava ex L.R. n. 71-97 aveva richiesto, come da comunicazione pervenuta alla Provincia in data 2.7.2007, l’acquisizione di dati e monitoraggi relativi alle analisi ambientali delle acque e dei terreni sia in superficie che in falda.
La Provincia di Ancona appellata, al fine di prescrivere alla ditta autorizzata le analisi e/o i sondaggi per concludere l’intervento di recupero ambientale e procedere con il collaudo, si e’ avvalsa delle osservazioni tecniche fornite dall’A.R.P.A.M. che ha ritenuto sufficiente il monitoraggio a cadenza semestrale delle acque sotterranee.
I risultati degli stessi sondaggi, valutati dall’A.R.P.A.M. e riferiti alla Provincia nonche’ al Comune di M.Ro. in data 31.7.2008, si erano rivelati, per un campione denominato “calci superficiali”, al di sopra delle soglie consentite dalla legge e, relativamente ad un secondo campionamento, di poco al di sotto.
La Provincia ha invitato la ditta ad effettuare un nuovo test di cessione delle calci di cui all’oggetto in contraddittorio con il personale A.R.P.A.M. e seguendo le indicazioni dello stesso Servizio.
Dalle valutazioni svolte dall’A.R.P.A.M. circa tale nuovo sondaggio, comunicate alla Provincia in data 1.6.2010, e’ emersa una concentrazione di nichel oltre i limiti previsti dall’allegato 3 al D.M. 186-06, che ha sostituito, nel frattempo, il DM citato 5.2.1998.
2. Ritiene il Collegio che dalla documentazione depositata dalla Provincia in primo grado in ottemperanza all’ordinanza collegiale del TAR n. 226-2012 e considerata la relazione tecnica dell’A.R.P.A.M., prot. n. 28284 del 13.7.2012, prodotta a seguito della medesima ordinanza, emerga l’infondatezza delle rappresentazioni motivazionali dell’appello interposto dalla Di.Qu.Te. e La. Snc.
2.1. Secondo le prospettazioni dell’appellante, infatti ed in sintesi, data la forte influenza del pH sul rilascio dei metalli nel test di cessione e verificato che al diminuire del pH (acidificazione) il rilascio tende ad aumentare, nel sito di Mo.Ro., successivamente all’abbancamento dei rifiuti, il pH si sarebbe nel corso degli anni progressivamente abbassato favorendo l’incremento dei valori dei metalli nel test di cessione, quale il nichel.
Inoltre, per l’appellante, la normativa di settore (citato D.M. 5.2.1998) prevede l’effettuazione del test di cessione sul “rifiuto tal quale”: il campionamento effettuato a distanza di molti mesi dall’abbancamento non sarebbe conforme a tale dettato in quanto nel corso del tempo i rifiuti abbancati sono stati alterati essendo ormai frammisti ad altri materiali, presenti nel sito o immessi successivamente.
2.2. L’A.R.P.A.M., con la citata relazione del 13.7.2012, prot. 28284, ha confutato i predetti assunti, con un percorso tecnico-motivazionale che risulta immune da vizi di logicita’ o da macroscopici errori di fatto.
Infatti, secondo l’A.R.P.A.M., per quanto riguarda la questione relativa al test di cessione, pur condividendo le teorie sull’influenza che il pH ha sul rilascio di metalli, tuttavia, ha appurato che dalle attivita’ di controllo svolte da A.R.P.A.M. stesso presso la cava in loc. Bagnatora del Comune di Jesi, dove la ditta Er.Sa. ha effettuato il recupero ambientale con la medesima tipologia di rifiuti derivanti dal medesimo ciclo produttivo, e’ risultato che i valori del pH tendono ad aumentare, diventando basici, e non acidi.
Da tali controlli risulta, infatti, un lieve abbassamento delle concentrazioni di nichel nel corso degli anni, al contrario e a confutazione di quanto la ditta afferma essere avvenuto nel sito di Mo.Ro.
Inoltre, lo stesso studio dell’Universita’ in atti (Universita’ Politecnica delle Marche – Facolta’ di Agraria – su incarico di Er.Sa. Spa, relazioni trasmesse da Er.Sa. Spa alla Provincia con note in data 4.2.2009 e 27.4.2009) evidenzia che il pH delle calci di defecazione (tab. 3 pag. 6), misurato nel 2009, e’ risultato variabile da 9,32 a 8,31 a dimostrazione che, rispetto alle analisi effettuate nel 2004 e nel 2008, l’ambiente in cui si trovano le calci e’ divenuto maggiormente basico e non acido, contrariamente a quanto il ricorrente ha cercato di dimostrare.
2.3. Peraltro, sotto il profilo giuridico, deve ritenersi che spetta al soggetto che voglia agire il regime di favore rispetto a quello ordinario del rifiuto (come nella specie per l’appellante), fornire la prova della sussistenza di tutte le condizioni per l’applicazione di un regime di favore e differenziato (cfr. Corte di Cassazione, sez. III pen., 1 ottobre 2008, n. 37280), in presenza, ovviamente di una contestazione seria e dettagliata da parte dell’Amministrazione, come avviene nel caso di specie.
Prova della sussistenza di tutte le condizioni per l’applicazione di un regime di favore e differenziato che, nella specie, non si ritiene sussistente e, anzi, appare confutata dagli atti prodotti in causa e segnatamene dalla citata relazione dell’A.R.P.A.M..
2.4. Per giustificare ragionevolmente tale regola di matrice giurisprudenziale occorre analizzare il corpus normativo nel quale il D.M. 5.2.1998, che e’ destinato principalmente alla determinazione delle quantita’ massime di rifiuti non pericolosi da destinare alle attivita’ di recupero in procedura semplificata, si inserisce.
Al riguardo, deve premettersi che la Corte di Giustizia Europea, con sentenza 7 ottobre 2004 (causa C – 103/02), ha condannato l’Italia per non aver previsto nel decreto 5 febbraio 1998, sull’individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli artt. 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, quantita’ massime per tipo di rifiuti, che possano essere oggetto di recupero in regime di dispensa dall’autorizzazione.
Con l’adozione del DM 5 aprile 2006, n. 186 sono stati riscritti gli articoli 6 (Messa in riserva), 7 (Quantita’ impiegabile), 8 (Campionamenti ed analisi) e 9 (Test di cessione) del precedente DM 5 febbraio 1998, ed apportato delle aggiunte al previgente art. 11 (Attivita’ di monitoraggio e controllo alle operazioni di recupero), nonche’ alcune modifiche sostanziali e significative alle diverse voci degli Allegati al testo normativo; i pertinenti artt. 31 e 33 del D.Lgs. n. 22-97 (norme primarie di riferimento) sono stati, inoltre, sostituiti dagli artt. 214 e 216 del Codice dell’Ambiente (D.Lgs. n. 152-2006).
La novita’ normativa introdotta dalle modifiche al D.M. 5 febbraio 1998 ha riguardato l’allargamento delle tipologie di rifiuti che e’ possibile destinare ad operazioni di messa in riserva in regime di procedura semplificata. In precedenza infatti, era possibile stoccare, effettuando la comunicazione di inizio attivita’, solo poche categorie di rifiuti tra cui carta, cartone, plastica, vetro, alcuni metalli, legno, sughero, caucciu’ e gomma, e solo se destinate ad ulteriore operazione di recupero esplicitamente individuata dagli Allegati del decreto.
Ad oggi e’ possibile mettere in riserva in procedura agevolata tutti i tipi di rifiuti elencati nel decreto, e la stessa operazione acquista una propria autonomia rispetto al tipo di operazione di recupero che verra’ successivamente effettuata sul rifiuto.
Il nuovo testo dell’art. 6 del D.M. 5 febbraio 1998, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c) del D.M. n. 186-06, che si occupa della “messa in riserva”, distingue infatti tra:
a) operazioni di messa in riserva effettuate presso l’impianto di produzione del rifiuto;
b) operazioni di messa in riserva effettuate presso impianti che svolgono unicamente tale operazione (e quindi in via esclusiva);
c) operazioni di messa in riserva effettuate presso impianti di recupero (e che pertanto effettuano anche altre attivita’ di recupero sul medesimo rifiuto non pericoloso).
Per l’ipotesi di cui alla lettera a) la norma, prevede quali quantita’ massime di rifiuti impiegabili quelle individuate dall’Allegato 4, espresse in termini assoluti, cosi’ come richiesto dalla Corte di Giustizia Europea.
Tuttavia il Decreto, fissa un ulteriore limite: “la quantita’ di rifiuti non pericolosi sottoposti ad operazioni di messa in riserva presso l’impianto di produzione del rifiuto non puo’ eccedere la quantita’ di rifiuti prodotti in un anno, all’interno del medesimo impianto”. Indipendentemente dal limite massimo applicabile, prosegue la norma: “i rifiuti prodotti devono essere avviati ad operazioni di recupero entro un anno dalla data di produzione”.
Queste previsioni mirano ad evitare che presso il medesimo impianto di produzione vengano stoccati rifiuti in quantita’ eccessive, e al contempo che gli stessi rifiuti vengano effettivamente destinati alle attivita’ di recupero in tempi rapidi, non superiori ad un anno decorrente dalla data della loro produzione.
Coerentemente, il D.Lgs. n. 36-2003 di attuazione della Direttiva 1999/31/CE (Discariche rifiuti), all’art. 2, comma 1, lett. g), definisce “discarica” anche “qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per piu’ di un anno.
Pertanto, sulla base di queste considerazioni di ordine generali, derivanti dal complesso ordito normativo sopra sintetizzato, appare evidente che consentire tempi e quantita’ superiori per la messa in riserva di un rifiuto in regime di procedura semplificata comporta il rischio di creazione di una discarica, facendo insorgere il sospetto di una probabile perdita di controllo del flusso del rifiuto.
E’ evidente, dunque, che impostare un onere probatorio in capo al soggetto che beneficia della procedura semplificata, come nella specie, e’ coerente con i rischi ambientali e di inquinamento che tale procedura potrebbe implicare (creazione di fatto di una discarica) che si vogliono senz’altro prevenire.
Inoltre, ai sensi del nuovo testo del DM 5 febbraio 1998, All. 3) (ora art. 214, comma 8, D.Lgs. n. 152-06) per ciascun impianto o stabilimento di recupero la quantita’ massima di una determinata tipologia di rifiuto contemporaneamente messa in riserva ed avviata ad ulteriore operazione recupero, non puo’ superare il 70% della quantita’ di rifiuti individuata nell’Allegato 4 come limite massimo per le operazioni di recupero effettuate sullo stesso rifiuto. Per i rifiuti combustibili tale limite viene ridotto al 50%, fatta salva la capacita’ effettiva di trattamento dell’impianto, che verra’ preferita solo qualora risultasse inferiore.
Il Legislatore con l’avverbio “contemporaneamente” partendo dal concetto che non e’ consentito stoccare piu’ di quanto si recupera, ha ritenuto che se presso il medesimo impianto, in un anno, le quantita’ di rifiuto destinate alle operazioni di messa in riserva non possono superare quelle indicate dall’Allegato 4 per le operazioni di recupero di quel rifiuto, conseguentemente, non sara’ possibile accumulare istantaneamente una quantita’ di rifiuti superiore al 70% (ridotta al 50% per i rifiuti combustibili) della quantita’ massima di rifiuti stoccabili in un anno.
In ogni momento, pertanto, le quantita’ effettivamente presenti e stoccate nell’impianto non potranno andare oltre tale limite percentuale.
3. Relativamente alla questione del test necessariamente da svolgere sul “rifiuto tal quale”, l’A.R.P.A.M. ha dimostrato con documentazione fotografica che non e’ stato riscontrato alcun materiale estraneo nei campioni di rifiuti posti in analisi ed il campionamento operato e’ stato svolto in modo conforme a quanto dettato dall’allegato 3 al D.M. 5.2.1998.
3.1. Peraltro, sotto il profilo giuridico, occorre osservare che l’art. 239, comma 2, del D.Lgs. n. 152-2006, in caso di avvio a recupero, smaltimento rifiuti abbandonati o deposito in modo incontrollato, subordina l’attivita’ di caratterizzazione dell’area ai fini degli eventuali interventi di bonifica e ripristino ambientale all’avvenuta rimozione del rifiuto.
Cio’ implica, per il Collegio, che il legislatore abbia riconosciuto l’impossibilita’ giuridica di una trasformazione del rifiuto abbancato in “terreno”, non piu’ soggetto a smaltimento.
3.2. Inoltre, la tesi dell’appellante, secondo cui il test di cessione doveva essere effettuato sul “rifiuto tal quale” e non successivamente all’abbancamento dei rifiuti e all’avvenuta ricopertura degli stessi con terreno vegetale, che avrebbe potuto alterarne la proprieta’ di rilasciare i metalli, non e’ fondata anche in relazione alla previsione dello stesso D.M. 5.2.1998, poiche’, come ha correttamente rilevato il TAR, il concetto di rifiuto “tal quale” e’ rilevante soltanto ai sensi dell’art. 8 del DM 5.2.1998, che disciplina le modalita’ di campionamento al fine della caratterizzazione chimico fisica del rifiuto stesso, mentre non compare nel successivo art. 9 ai fini dell’effettuazione del test di cessione di cui all’Allegato 3 dello stesso DM 5.2.1998.
4. Per cio’ che riguarda la differenza tra lo strato di ricopertura della cava loc. Imperatore rispetto a quella di Bagnatora, e’ possibile riferirsi agli studi effettuati dall’Universita’ Politecnica delle Marche – Facolta’ di Agraria – proprio su incarico di Er.Sa. Spa, (cfr. relazioni trasmesse da Er.Sa. Spa alla Provincia con note in data 4.2.2009 e 27.4.2009) in cui si rappresenta un valore di pH per lo strato superficiale di terra da vagliatura pari a 8,5, analogo a quanto ritrovato in loc. Bagnatora.
5. Infine, deve essere evidenziato che la determinazione 18 aprile 2006, n. 365 che autorizzava la trasformazione del progetto di messa in riserva (R13), gia’ autorizzato con delibera di GP 3.8.2004 n. 326, in progetto di recupero ambientale (R10), prescrivevano esplicitamente, oltre a quanto previsto dal progetto, un sondaggio annuale a valle della cava dove erano stati abbancati i rifiuti, per analizzare la composizione chimica del terreno sulla base dei parametri e dei limiti di cui all’All. 3 del cit. D.M 5.2.1998, rendendo quindi infondate le tesi dell’appellante in merito all’inammissibilita’ successiva di controlli da parte dell’Amministrazione, controlli che non potevano non riguardare anche l’ulteriore materiale da abbancarsi per completare l’operazione di recupero.
6. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto, in quanto infondato.
7. Le spese di lite del presente grado di giudizio possono essere compensate, sussistendo giusti motivi.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta),
definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa le spese di lite del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorita’ amministrativa.
Cosi’ deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2013 con l’intervento dei magistrati:
Alessandro Pajno – Presidente
Paolo Giovanni Nicolo’ Lotti – Consigliere, Estensore
Antonio Amicuzzi – Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere
Carlo Schilardi – Consigliere
Depositata in Segreteria il 20 febbraio 2014.
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