Palazzo-Spada

La massima

1. La determinazione conclusiva della conferenza di servizi, anche se di tipo decisorio, ha pur sempre carattere endoprocedimentale e presuppone quindi un successivo provvedimento finale con valenza effettivamente determinativa della fattispecie, con conseguente esclusione di onere di impugnazione immediata. Di conseguenza, qualora nello schema procedimentale alla conferenza di servizi segua un atto monocratico di recepimento da parte di un organo dell’ente al quale spetta la competenza finale a provvedere, quest’ultimo è l’atto conclusivo del procedimento, al quale devono essere imputati gli effetti eventualmente lesivi e che deve essere impugnato da parte di chi si ritenga leso nella propria sfera giuridica.

2. Il provvedimento espresso che reitera gli effetti del provvedimento implicito di assenso non costituisce atto meramente confermativo di quest’ultimo in quanto presuppone, con tutta evidenza, l’esperimento di un’autonoma istruttoria, i cui risultati devono confluire nella motivazione del provvedimento espresso

CONSIGLIO DI STATO

SEZIONE V

SENTENZA 11 settembre 2013, n.4507

SENTENZA

sul ricorso in appello numero di registro generale 6013 del 2010, proposto da:  Comune di Palazzolo sull’Oglio in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avvocato Domenico Bezzi, con domicilio eletto presso l’avvocato Paolo Rolfo in Roma, via Appia Nuova n. 96;

contro

Comune di Castelli Calepio in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Alessio Petretti e Paolo Bonomi, con domicilio eletto presso l’avvocato Alessio Petretti in Roma, via degli Scipioni n. 268/A;

nei confronti di

Regione Lombardia in persona del Presidente della Giunta, rappresentata e difesa dall’avvocato Antonella Forloni, con domicilio eletto presso l’avvocato Emanuela Quici in Roma, via Nicolò Porpora n. 16; Zerbini B&G s.r.l. ed Immobiliare 2 Z s.r.l. in persona dei rispettivi legali rappresentanti, rappresentate e difese dagli avvocati Luigi Manzi, Innocenzo Gorlani, Mario Gorlani e Marco Sica, con domicilio eletto presso l’avvocato Luigi Manzi in Roma, via Federico Confalonieri n. 5; Provincia di Brescia, Provincia di Bergamo, Comune di Capriolo, Comitato contro il Megacentro Commerciale, Confesercenti di Bergamo, Confesercenti di Brescia, Adiconsum, Ascom della Provincia di Bergamo in persona dei rispettivi legali rappresentanti, non costituiti in questo grado del giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo della Lombardia, sede di Brescia, Sezione II, n. 01254/2010, resa tra le parti, concernente autorizzazione apertura grande struttura di vendita

Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Castelli Calepio e di Regione Lombardia e di Zerbini B&G s.r.l. e di Immobiliare 2 Z s.r.l.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 12 marzo 2013 il Cons. Manfredo Atzeni e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale ;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso al Tribunale amministrativo della Lombardia, sede di Brescia, rubricato al n. 931 del 2009, il Comune di Palazzolo sull’Oglio impugnava il provvedimento 5 giugno 2009, n°1, con il quale il Responsabile del settore urbanistica e lavori pubblici del Comune di Castelli Calepio aveva autorizzato la Zerbini B & G s.r.l. all’apertura di una nuova grande struttura di vendita nel territorio comunale; l’impugnazione era estesa ad ogni atto presupposto, collegato o conseguente, fra i quali in particolare i verbali della conferenza di servizi 24 settembre, 22 ottobre, 25 novembre 2008 e 21 gennaio 2009 ed, ove necessario, la deliberazione 4 luglio 2007 n° VIII/5054 della Giunta regionale della Lombardia, limitatamente al paragrafo 6.7.

Il Comune ricorrente, ritenendo che l’apertura nel confinante Comune di Castelli Calepio, in prossimità della propria frazione di Mura, di una nuova grande struttura di vendita potesse pregiudicare gli equilibri urbanistici e socioeconomici del proprio territorio, ha impugnato la relativa autorizzazione 5 giugno 2009 n°1 deducendo i seguenti dieci motivi, qui riportati secondo l’ordine ed il riassunto del primo giudice:

– con il primo di essi, rubricato come settimo a p. 27 del ricorso, deduce violazione degli artt. 17 e 100 del PTCP della Provincia di Bergamo, Tale strumento pianificatorio, alle norme citate (doc. 25 ricorrente, copia di esse), prevede uno specifico piano di settore per lo sviluppo e l’adeguamento della rete commerciale, comprensiva della grande distribuzione, piano di settore che peraltro non consta al presente sia stato ancora adottato. Ne deriverebbe, secondo l’amministrazione ricorrente, la assoluta impossibilità nelle more di autorizzare l’apertura di nuovi centri commerciali come quello per cui è causa;

– con il secondo di essi, rubricato come primo a p. 19 del ricorso, deduce violazione della deliberazione della Giunta regionale della Lombardia 4 luglio 2007 n° VIII/5054, recante “Modalità applicative del programma triennale per lo sviluppo della rete commerciale 2006-2008”, quanto al disposto dei paragrafi 4.1. comma 2 lettera b) e 5.4. La normativa citata distingue i procedimenti per l’apertura di nuovi centri commerciali prevedendo un procedimento più gravoso per le strutture che superino i 15.000 mq di superficie di vendita, autorizzabili in sintesi estrema solo “nell’ambito di strumenti di programmazione negoziata”, ed uno meno gravoso per le strutture che non superino il predetto valore di superficie di vendita (cfr. doc. 24 ricorrente, copia deliberazione in parola). Nel caso di specie, è stato seguito il procedimento meno gravoso sul presupposto che la struttura per cui è causa non superi i 15.000 mq di superficie di vendita, presupposto che a dire dell’amministrazione ricorrente non risponderebbe al vero. Infatti, sempre a suo dire, ai 14.990 mq di superficie di vendita di cui parla l’autorizzazione (doc. 1 ricorrente, cit.) andrebbero aggiunti ulteriori 3.500 mq, corrispondenti all’estensione di una multisala cinematografica prevista nel progetto, che andrebbe considerata superficie di vendita al pari di quella dei negozi, e non scorporata da essa, come invece ha preteso di fare la Regione in base ad una presunta prassi, che comunque sarebbe non legittima; si sarebbe quindi dovuto seguire il procedimento più gravoso previsto per le strutture maggiori (la previsione della multisala è a p. 4 del progetto, doc. 10 ricorrente, copia di esso, che però non ne precisa la metratura; la stessa è indicata a p. 19 del ricorso, né nelle difese delle altre parti costituite, in particolare della Zerbini, tale valore è contestato; in particolare non si contesta che, se la sua superficie fosse computata in quella di vendita, il valore di essa supererebbe i 15.000 mq; la prassi asserita dalla Regione è descritta nel verbale della seduta 25 novembre 2008 della conferenza di servizi che ha portato all’autorizzazione, prodotto in copia come doc. 10 ricorrente, alle pp. 4 e 5);

– con il terzo di essi, rubricato come sesto a p. 25 del ricorso, deduce violazione dell’art. 2 comma 1 bis – rectius dell’art. 2 comma 1 lettera d) in relazione al predetto comma 1 bis- della l.r. Lombardia 20/1999, sostenendo che la realizzazione di un centro commerciale andrebbe comunque assoggettata al cd. screening, ovvero alla verifica di sottoponibilità o no a valutazione di impatto ambientale. In proposito, il Comune ricorrente non nasconde che la citata deliberazione 4 luglio 2007 n° VIII/5054, al paragrafo 6.7 comma 1, fra i centri commerciali che, come quello per cui è processo, non si trovano all’interno di aree vincolate, assoggetta -alla lettera- a screening soltanto quelli di dimensioni maggiori, nella specie non raggiunte. Sostiene però, precisando il punto nella propria memoria 30 dicembre 2009 di cui appresso, a p. 15, che la norma di legge regionale sopra citata assoggetta a screening senza distinzioni i centri commerciali per effetto del richiamo espresso all’allegato II della direttiva del Consiglio 97/11/CE del 3 marzo 1997, che li contempla al punto 10 lettera b) senza eccezioni. Pertanto, conclude che nella specie lo screening ci sarebbe dovuto essere, in quanto la norma della legge regionale è prevalente su quella della delibera, che ad ogni buon conto espressamente impugna per il descritto profilo di illegittimità;

– con il quarto motivo, rubricato come ottavo a p. 27 del ricorso, deduce violazione dei paragrafi 2.5 e 5.1 della deliberazione 2 ottobre 2006 n°VIII/215 del Consiglio regionale della Lombardia, recante il piano triennale 2006-2008 per lo sviluppo del settore commerciale (doc. 22 ricorrente, copia di essa). Da tali norme, a dire dell’amministrazione ricorrente, si desumerebbe un serio disincentivo alla realizzazione di nuovi centri commerciali, motivato con ragioni che il provvedimento impugnato non si darebbe carico di confutare sotto alcun profilo;

– con il quinto motivo, rubricato come nono a p. 28 del ricorso, deduce violazione dell’art. 5 della l. r. Lombardia 14/1999, norma che impone al procedimento urbanistico per autorizzare un nuovo centro commerciale di concludersi contemporaneamente o dopo il procedimento di autorizzazione commerciale, a pena di “specifica considerazione negativa” della domanda sotto tale profilo. Nella specie, la norma non sarebbe stata rispettata, in quanto il Comune di Castelli Calepio avrebbe approvato la necessaria variante al proprio piano urbanistico prima di rilasciare l’autorizzazione (cfr. in proposito p. 4 del ricorso; il fatto è pacifico in causa);

– con il sesto motivo, rubricato come terzo a p. 22 del ricorso, deduce violazione delle norme sulla partecipazione al procedimento. Va premesso in proposito che le norme sul rilascio dell’autorizzazione all’apertura di grandi strutture di vendita -ovvero l’art. 8 della legge nazionale, il d. lgs. 114/1998, e l’art. 5 della l. r. Lombardia 14/1999- demandano la decisione ad una conferenza di servizi della quale sono membri deliberanti i rappresentanti della regione, della provincia e del comune il cui territorio è interessato; prevedono però l’apporto partecipativo di altri soggetti. La normativa regionale di attuazione, ovvero la più volte citata deliberazione 4 luglio 2007 n° VIII/5054, al paragrafo 5.2 comma 12 prevede poi che i soggetti invitati a partecipare esprimendo il loro punto di vista debbano manifestarlo entro un termine perentorio, decorso il quale si intendono aver espresso valutazione positiva. A dire dell’amministrazione ricorrente, tali norme andrebbero interpretate nel senso che sarebbe allora necessario assegnare, in ragione delle conseguenze del silenzio, in proposito un termine congruo, tale non essendo quello di dieci giorni previsto nel caso di specie, oltretutto in prossimità delle festività natalizie (cfr. doc. 15 ricorrente, copia avviso in merito);

– con il settimo motivo, rubricato come secondo a p. 21 del ricorso, deduce ancora violazione della delibera 4 luglio 2007 n° VIII/5054, al paragrafo 5.3, per non esser stata posta in condizione di partecipare al procedimento la Provincia di Brescia, interessata in ragione dell’impatto del progetto sulla propria viabilità e che quindi avrebbe dovuto essere sentita;

– con l’ottavo motivo, rubricato come quarto a p. 23 del ricorso, deduce violazione ancora della delibera 4 luglio 2007 n° VIII/5054, al paragrafo 6.6 comma 5, per non esser stato congruamente valutato l’apporto partecipativo dei soggetti invitati alla conferenza di servizi, ovvero della Provincia di Bergamo quanto al profilo commerciale e viabilistico, del Comune di Palazzolo stesso quanto ai costi di riqualificazione, del Comune di Capriolo, quanto al suo parere contrario, nonché alle posizioni del Comune di Grumello, dell’Ascom, della Confesercenti e della Federesercenti (cfr. verbali della conferenza di servizi 25 novembre 2008 e 21 gennaio 2009, doc. ti 14 e 21 ricorrente);

– con il nono motivo, rubricato come quinto a p. 24 del ricorso, deduce eccesso di potere per insufficiente istruttoria, relativamente ad una serie di punti: alla prima seduta della conferenza il 24 settembre 2008 non sarebbero stati posti a disposizione i documenti citati dal rappresentante del Comune di Castelli Calepio; non sarebbe stato compiuto alcuno studio sulle criticità rappresentate dalla Provincia di Bergamo di cui sopra; il protocollo di intesa fra il Comune di Castelli Calepio e la Zerbini sarebbe stato fatto esaminare senza concedere il tempo necessario (vennero in effetti assegnati venti minuti per leggerlo: cfr. doc. 21 ricorrente quartultima pagina, copia verbale 21 gennaio 2009);

– con il decimo ed ultimo motivo, si deduce infine violazione dell’art. 11 delle preleggi, per esser stati applicati nella valutazione di compatibilità e sostenibilità dell’intervento i criteri del decreto regionale 19 dicembre 2008 n°15837 al momento non ancora in vigore.

Il Comune ricorrente chiedeva quindi l’annullamento del provvedimento impugnato.

Con la sentenza in epigrafe, n. 1254 in data 16 marzo 2010, il Tribunale amministrativo della Lombardia, sede di Brescia, Sezione II, respingeva le questioni di ammissibilità del ricorso sollevate dalle parti resistenti e lo respingeva nel merito.

2. Avverso la predetta sentenza il Comune di Palazzolo sull’Oglio propone il ricorso in appello in epigrafe, rubricato al n. 6013/10, contestando gli argomenti che ne costituiscono il presupposto e chiedendo la sua riforma e l’accoglimento del ricorso di primo grado.

Si sono costituiti in giudizio il Comune di Castelli Calepio e la Regione Lombardia chiedendo il rigetto dell’appello.

Si sono costituite in giudizio le Società Zerbini B&G s.r.l. ed Immobiliare 2 Z s.r.l. chiedendo il rigetto dell’appello e proponendo appello incidentale con il quale contestano la sentenza gravata nella parte in cui dichiara ammissibile il ricorso di primo grado.

Con ordinanza n. 6054 in data 29 novembre 2012 questa Sezione, rilevato “che il Comune appellante ha depositato in giudizio ampia documentazione dalla quale risulta che il progetto contestato è stato modificato e sottoposto a nuovo esame da parte del Comune appellato;

Rilevato che le parti discutono dell’incidenza di tale fatto sulla permanenza dell’interesse alla definizione nel merito dell’odierna controversia;

Ritenuto quindi necessario, al fine del decidere, acquisire documentata relazione di chiarimenti dalla quale risultino:

a) le modifiche apportate all’originario progetto;

b) lo stato cui è pervenuto il relativo procedimento di approvazione”;

ha disposto gli incombenti istruttori di cui sopra, fissando l’ulteriore udienza di discussione alla data del 12 marzo 2013.

Le parti hanno quindi scambiato memorie e repliche.

La causa è stata assunta in decisione alla suddetta pubblica udienza del 12 marzo 2013.

3a. Gli atti acquisiti in ottemperanza all’ordinanza istruttoria di cui sopra impongono di escludere che sia sopravvenuta la carenza in radice di interesse alla definizione dell’impugnativa proposta.

Come risulta dal punto 1 che precede, la controversia riguarda l’autorizzazione, rilasciata dal Comune appellato ad una delle Società appellate, per l’apertura di una grande struttura di vendita, contestata dal Comune appellante per il suo riflesso sulle attività commerciali, il traffico e l’urbanistica della zona.

Gli atti sopravvenuti nelle more del presente giudizio di appello innovano la disciplina urbanistica della zona interessata dal progetto commerciale, ma non incidono sull’autorizzazione commerciale rilasciata.

In realtà, la modifica apportata esclude, principalmente, che del complesso commerciale faccia parte il complesso cinematografico multisala originariamente previsto, ma non risulta affatto in contrasto con la realizzazione della struttura di vendita autorizzata con il provvedimento impugnato.

Atteso che l’interesse del Comune appellante è giustappunto rivolto avverso quest’ultima, il Collegio deve quindi ritenere il giudizio.

Peraltro, deve anche essere rilevato che le modifiche introdotte rendono effettivamente impossibile la realizzazione del complesso multisala cinematografico di cui in narrativa, per cui perdono rilievo, e non devono essere prese in esame tutte le questioni che presuppongono, appunto, la sua realizzazione nell’ambito della struttura di cui ora si tratta.

Il Collegio deve quindi affrontare preliminarmente le questioni proposte dalle Società appellate con il gravame incidentale, il cui contenuto consiste nella deduzione di alcune questioni di ammissibilità del ricorso di primo grado.

3b. In primo luogo le appellanti incidentali sostengono la tardiva proposizione del ricorso di primo grado in quanto l’atto effettivamente lesivo sarebbe costituito dalla deliberazione della conferenza di servizi in data 21 gennaio 2009, con la quale è stato approvato il progetto delle appellanti incidentali, mentre l’autorizzazione impugnata avrebbe contenuto meramente esecutivo di quest’ultima.

La tesi è stata respinta dal primo giudice affermando che “(omissis) in linea di fatto poi, e ciò risulta dirimente, il carattere “non autonomo” del provvedimento comunale di rilascio dell’autorizzazione commerciale non è ravvisabile nel caso di specie. Ad attenta lettura del medesimo, si osserva infatti che esso fu emanato non solo “dato atto che la conferenza di servizi nella seduta del 21 gennaio 2009 ha deliberato di accogliere la domanda”, ma anche “vista la relazione istruttoria a firma del responsabile del procedimento in data 5 giugno 2009” (cfr. doc. 1 ricorrente, copia provvedimento impugnato). Che non si tratti di frase di mero stile è poi confermato se si osserva che dopo la delibera della conferenza 21 gennaio 2009 e prima dell’autorizzazione 5 giugno, ovvero il 1 giugno 2009, fu rogata la convenzione urbanistica fra il Comune e la Zerbini (doc. 6 Zerbini allegato alla memoria 14 ottobre 2009, copia convenzione), pure necessaria ad aprire la struttura, e quindi vi fu un atto significativo di cui l’autorità procedente dovette tener conto. Il provvedimento finale di autorizzazione, quindi, anche a seguire la tesi della difesa Zerbini, non si configurerebbe nel caso concreto come atto meramente confermativo della delibera della conferenza, ma come conferma di essa, emessa a seguito di nuova istruttoria e quindi autonomamente impugnabile; per converso, rispetto alla delibera della conferenza vi sarebbe stata possibilità, ma non certo onere, di immediata impugnazione”.

Obiettano le appellanti incidentali che il verbale conclusivo della conferenza di servizi è univoco nell’affermare il proprio carattere decisorio, e che l’autorizzazione comunale costituisce atto meramente eventuale e dovuto quanto ai contenuti da parte dell’amministrazione comunale; il soggetto leso ha quindi l’onere di immediata impugnazione del verbale conclusivo della conferenza di servizi, del quale il Comune appellante era a conoscenza, avendo ad essa partecipato.

Le argomentazioni dell’appellante incidentale non sono condivise dal Collegio.

Osserva il Collegio come la tesi proposta dalle appellanti incidentali sia in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale, che appare ormai pacifico (C. di S., VI, 9 novembre 2010, n. 7981, e 11 novembre 2008, n. 5620) secondo il quale “la determinazione conclusiva della conferenza di servizi, anche se di tipo decisorio, ha pur sempre carattere endoprocedimentale e presuppone quindi un successivo provvedimento finale con valenza effettivamente determinativa della fattispecie, con conseguente esclusione di onere di impugnazione immediata. La determinazione conclusiva della conferenza di servizi, anche se di tipo decisorio, ha pur sempre carattere endoprocedimentale e presuppone quindi un successivo provvedimento finale con valenza effettivamente determinativa della fattispecie, con conseguente esclusione di onere di impugnazione immediata”.

Di conseguenza qualora, come di norma e come nel caso che ora occupa, nello schema procedimentale alla conferenza di servizi segua un atto monocratico di recepimento da parte di un organo dell’ente al quale spetta la competenza finale a provvedere, quest’ultimo è l’atto conclusivo del procedimento, al quale devono essere imputati gli effetti eventualmente lesivi.

In ulteriore conseguenza, è questo l’atto che deve essere impugnato da parte di chi si ritenga leso nella propria sfera giuridica.

Deve essere osservato, inoltre, come sia irrilevante la qualificazione che, secondo le appellanti incidentali, la conferenza di servizi avrebbe conferito al proprio atto, posto che tale supposta autoqualificazione non può incidere sulla disciplina del procedimento ed ancora meno sulla tutela degli interessati.

La tesi del primo giudice deve quindi essere condivisa, rilevando inoltre come il sopra riportato orientamento giurisprudenziale imporrebbe la concessione dell’errore scusabile.

3b. Le appellanti incidentali sostengono l’inammissibilità dell’impugnazione per carenza di interesse in quanto il Comune appellante ha fatto acquiescenza agli atti con i quali il Comune appellato ha destinato l’area di cui si tratta per la realizzazione di un centro commerciale.

Il primo giudice ha disatteso l’argomentazione osservando che “è sufficiente rilevare che la localizzazione di una certa struttura operata da un piano urbanistico consente sì di realizzarla, ma non senza limiti, dato che non esime certo dal rispetto di tutte le normative che in concreto le strutture di quel tipo disciplinano. In tal senso, quindi, una data realizzazione è indifferente rispetto ad un’altra solo quando si tratti di realizzazioni comunque conformi per intero a legge. Ove invece, come nel caso presente, non si faccia questione della possibilità astratta di realizzare un centro commerciale in loco, ma si deduca che la realizzazione in concreto progettata è illegittima, l’interesse al ricorso sussiste, e non è di mero fatto, identificandosi nell’interesse a veder realizzato un centro commerciale correttamente inserito nel tessuto urbano e sociale, e quindi, in sintesi, non lesivo della qualità della vita dei vicinanti”.

Le appellanti incidentali ribadiscono, in questo grado del giudizio, l’inammissibilità della censura, osservando che il Comune fonda il proprio interesse ad agire sulla lesione arrecata dalla realizzazione di un centro commerciale in zona confinante con una propria frazione, evento non evitabile in mancanza di impugnazione degli atti della programmazione urbanistica.

La tesi non può essere condivisa.

Ad avviso del Collegio, l’interesse del Comune appellante non ha ad oggetto la generica realizzazione di una grande struttura di vendita ma la realizzazione della specifica struttura di vendita di cui ora si tratta, con le caratteristiche che essa presenta, per cui la lesione si concreta con l’approvazione della sua realizzazione.

Il motivo di appello incidentale deve quindi essere respinto.

3c. Le appellanti incidentali ribadiscono l’inammissibilità per carenza di interesse dell’impugnazione in quanto rivolta avverso l’atto autorizzatorio espresso, mentre l’effetto lesivo deve essere imputato al silenzio assenso formatosi in precedenza sulla loro istanza ai sensi dell’art. 9 del d. lgs. 31 ottobre 1998, n. 114, recepito dall’art. 5 della legge regionale della Lombardia 23 luglio 1999, n. 14.

Neanche questa argomentazione può essere condivisa.

Invero, è pacifica in giurisprudenza l’affermazione, formulata anche dal primo giudice, secondo il quale il provvedimento espresso che reitera gli effetti del provvedimento implicito di assenso non costituisce atto meramente confermativo di quest’ultimo in quanto presuppone, con tutta evidenza, l’esperimento di un’autonoma istruttoria, i cui risultati devono confluire nella motivazione del provvedimento espresso.

Anche questo motivo deve essere respinto.

3d. Le appellanti incidentali contestano la legittimazione ad agire del Comune appellante principale in quanto l’azione è stata proposta allo scopo di tutelare interessi della Provincia di Brescia, proprietaria della strada che subirebbe un forte incremento di traffico dalla realizzazione del centro commerciale di cui si discute, e dei commercianti della zona.

L’eccezione è stata respinta dal primo giudice affermando che “è infondata anche la seconda eccezione di inammissibilità, poiché il Comune, ente esponenziale della collettività locale, e quindi preposto in generale al benessere della stessa, ha senz’altro titolo per contestare gli atti che consentano di realizzare una struttura la quale a tale benessere possa recare pregiudizio, anche se essa si localizzi nel territorio di un Comune limitrofo, dato che tale circostanza, secondo logica, non esclude in generale che tale pregiudizio possa sussistere. E’ quanto si deduce nel caso di specie, in cui il Comune ricorrente paventa, in sostanza, un incremento dei flussi di traffico automobilistico, e dell’inquinamento che ne deriva, anche sul proprio territorio, nonché la crisi delle piccole attività di commercio al dettaglio ivi insediate, ma comunque vicine al centro commerciale di cui si ragiona”.

L’argomentazione del primo giudice, avverso la quale non vengono, in realtà, dedotte specifiche censure è condivisa dal Collegio, per cui il motivo di appello incidentale deve essere respinto.

3e. Allo stesso modo, deve essere respinta l’argomentazione, connessa alla precedente, con la quale le appellanti incidentali sostengono che il Comune appellante principale intende estendere la propria programmazione urbanistica al Comune confinante.

Il Comune appellante infatti si limita a contestare gli atti dell’altro Comune nella parte in cui incidono sugli interessi della collettività che rappresenta.

3f. Le appellanti incidentali sostengono che la partecipazione del Comune appellante principale alla conferenza di servizi esclude la sua legittimazione ad impugnare gli atti da questa approvati.

Le stesse prendono atto dell’osservazione, formulata dal primo giudice, secondo la quale nessuna norma preclude ai partecipanti alla conferenza di servizi il ricorso ai rimedi giurisdizionali avverso le sue decisioni, osservando che “il difetto di legittimazione e/o la carenza di interesse al gravame sono manifesti e dimostrati dalla pretestuosità e genericità del gravame che si limita a dedurre considerazioni di opportunità circa la decisione della conferenza di servizi che impingono clamorosamente nel merito amministrativo”.

In altri termini le appellanti incidentali deducono il difetto di legittimazione del Comune appellante dall’infondatezza delle sue doglianze, argomentazione che palesemente non può essere accolta.

3g. Le appellanti incidentali sostengono che il contraddittorio doveva essere esteso ai Comuni di Grumello del Monte, Credarto e Grandosso i quali, in base alla legislazione vigente nella Regione Lombardia beneficeranno delle assunzioni di personale e delle risorse finanziarie stanziate dall’imprenditore.

La tesi non può essere condivisa in quanto il ricorrente in primo grado deve notificare il ricorso ai controinteressati agevolmente individuabili in base al contenuto dell’atto, circostanza che non ricorre nel caso ora in esame in relazione ai suddetti Comuni.

3h. Le appellanti incidentali sostengono l’irrituale evocazione in giudizio di Zebrini B&G s.r.l. che nella domanda di autorizzazione aveva eletto domicilio presso il proprio legale, mentre il ricorso le è stato notificato presso altro recapito.

L’argomentazione, se accolta, comporterebbe solo il rinvio al primo giudice per l’integrazione del contraddittorio, e comunque deve essere superata ai sensi dell’art. 156 c.pc. in quanto la notifica ha palesemente consentito alla parte di svolgere compiutamente le proprie difese.

4. L’appello incidentale deve, in conclusione, essere respinto.

Il Collegio deve conseguentemente procedere all’esame dell’appello principale.

4a. Il motivo con il quale il Comune appellante lamenta il mancato invito alla conferenza di servizi della Provincia di Brescia deve essere disatteso.

Il primo giudice, pur escludendo che il ricorso nella sua globalità sia stato proposto dal Comune appellante in sostituzione processuale della Provincia di Brescia, ha infatti dichiarato inammissibile questo specifico motivo per difetto di legittimazione, affermando che il mancato invito alla conferenza di un’Amministrazione può essere censurato solo dall’interessata, ed il Comune appellante non propone critiche avverso tale argomentazione, limitandosi a riprodurre la censura proposta in primo grado.

4b. La censura relativa all’incongruità del termine (dieci giorni) concesso per preparare la partecipazione alla conferenza e quella relativa al difetto di motivazione in ordine alle valutazioni negative espresse in relazione a taluni apporti partecipativi possono essere assorbiti in quanto l’appello è fondato sotto altro profili, ed il loro esame non è necessario per orientare la successiva attività amministrativa.

4c. Il Comune appellante lamenta violazione dell’art. 17, secondo comma, e dell’art. 100 del vigente PTCP della Provincia di Bergamo, particolarmente nella parte in cui prevedono l’adozione di un piano di settore la cui mancata approvazione impedirebbe, a suo avviso, l’autorizzazione all’apertura di grandi strutture di vendita.

L’argomentazione è respinta dal primo giudice in quanto “è sufficiente rilevare come gli articoli citati del PTCP (doc. 25 ricorrente, copie di essi) prevedano – così l’art. 17 comma 8 – l’efficacia dei vari piani di settore solo dopo la loro approvazione, senza ricollegare alcuna particolare conseguenza al caso in cui essa invece non sia ancora intervenuta e senza attribuire a tale approvazione valore condizionante al rilascio di nuove autorizzazioni all’apertura di centri commerciali”.

Anche in questo caso l’appellante si limita a riproporre le proprie argomentazioni senza confutare quelle contenute nella sentenza appellata, per cui il motivo è inammissibile.

4d. Analoghe considerazioni devono essere svolte in relazione alle censure relative alla violazione del programma triennale regionale 2006 – 2008, dell’art. 14, comma 16 bis, della legge regionale della Lombardia 23 luglio 1999, n. 14, e dei principi in tema di efficacia della legge nel tempo, che devono conseguentemente essere dichiarate inammissibili.

4e. Il Collegio deve quindi procedere all’esame della censura con la quale il Comune appellante lamenta violazione dell’allegato IV, n. 7 lett. b, del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, il quale, in attuazione dell’allegato II della direttiva 27 giugno 1985 n. 85/337/CEE, direttiva del Consiglio concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, assoggetta a valutazione di impatto ambientale o quanto meno a “screening” preliminare il progetto di costruzione del complesso di cui si tratta.

Osserva al riguardo il Comune appellante che la norma invocata assoggetta indistintamente a “screening” tutti i progetti di centro commerciale riconducibili alla nozione dettata dall’art. 4, primo comma lett. g), del d. lgs. 31 ottobre 1998, n. 114, quale quello di cui ora si discute (il dato non è controverso fra le parti in causa).

La censura è stata respinta dal primo giudice sulle base della seguente complessa argomentazione:

“22. E’ ancora infondato il terzo motivo dedotto, secondo il quale il centro commerciale per il quale è processo, alla stregua della normativa lombarda, si sarebbe dovuto comunque assoggettare alla verifica di sottoponibilità a VIA, ovvero al cd. screening, procedura che nella specie è pacificamente mancata (v. in proposito doc. 12 ricorrente, verbale prima riunione conferenza di servizi 24 settembre 2008, secondo capoverso settimo punto dell’elenco: “l’insediamento commerciale non necessita della procedura di verifica o di VIA”). In proposito, va riassunto per chiarezza il quadro normativo applicabile.

23. Va, allora, premesso che il Comune ricorrente non argomenta l’assoggettabilità a screening della struttura in parola soltanto dal disposto dell’allegato IV della parte II del d. lgs. 3 aprile 2006 n°152 come modificato dal d. lgs. 16 gennaio 2008 n°4, punto 7 lettera b). Le norme in questione non sono infatti applicabili alla fattispecie concreta, in forza dell’art. 35 comma 1 del medesimo d. lgs. 152/2006, per cui “le regioni adeguano il proprio ordinamento alle disposizioni del presente decreto, entro dodici mesi dall’entrata in vigore”, ovvero entro il 16 febbraio 2009, e solo dopo tale data “in mancanza di norme vigenti regionali trovano diretta applicazione le norme di cui al presente decreto”. La data del 16 febbraio 2009, e non del 29 gennaio 2009 così come sostenuto dalla difesa Zerbini, in particolare si determina così come segue: il d. lgs. 4/2008 è stato pubblicato sulla G.U. del 29 gennaio 2008, e in mancanza di disposizione espressa sul punto entra in vigore appunto 15 giorni dopo. Il periodo transitorio di un anno di cui all’art. 35 del d. lgs. 152/2006, così come modificato dal detto decreto 4/2008 va poi, per avere un significato logico, computato dall’entrata in vigore di quest’ultimo, dato che la parte II del d. lgs. 152/2006, che è relativa appunto a screening e VIA, e di cui l’art. 35 fa parte, nel testo originale antecedente al d. lgs. 4 /2008, entrava in vigore ai sensi dell’art. 52, abrogato proprio dal d. lgs. 4/2008, centoventi giorni dopo la pubblicazione in G.U. ovvero centoventi giorni dopo il 29 aprile 2006, e computare il periodo transitorio in un anno da tal data non avrebbe evidentemente senso alcuno. Al di là di tale precisazione, è nella sostanza corretto il rilievo della difesa Zerbini nel senso della non applicabilità del d.lgs. 152/2006 nel testo novellato al presente procedimento, perché la fase in cui lo screening, ove necessario, si sarebbe dovuto situare, ovvero l’istruttoria ad opera della conferenza di servizi, era già conclusa al 21 gennaio 2009, prima del 16 febbraio 2009, scadenza del periodo transitorio di cui all’art. 35.

24. Il Comune ricorrente, come già ricordato anche in narrativa, argomenta però la necessità dello screening anche sulla base di altre norme, quelle regionali di cui alla l. r Lombardia n°20/1999, pacificamente applicabili al procedimento di che trattasi e che secondo la prospettazione del ricorrente sarebbero da sole sufficienti, come si vedrà, a raggiungere tale effetto. In tali termini, il motivo è stato ritualmente formulato nel ricorso originario (si vedano le pp. 26 e 27 di esso), e non è certo precluso dal fatto che in sede di conferenza di servizi la procedura di screening o VIA sia stata, come si è detto, ritenuta non necessaria. Infatti, non rileva che nell’occasione il Comune di Palazzolo fosse presente alla conferenza, dato che in tal sede ha poi espresso un dissenso, e quindi ha conservato la possibilità di tutelarsi senza limiti in sede giurisdizionale. Va così respinta la prima eccezione di inammissibilità del singolo motivo in esame, formulata dalla difesa Zerbini a p. 39 secondo periodo lettera a) della memoria 31 dicembre 2009.

25. Ciò posto, la normativa regionale invocata dal Comune va per quanto necessario richiamata. L’art. 1 comma 1 della l. r. Lombardia 3 settembre 1999 n°20 prevede: “Le procedure di VIA e di verifica, previste rispettivamente dagli artt. 5 e 10 del D.P.R. 12 aprile 1996, si applicano alle seguenti tipologie progettuali: …. d) sono soggetti a procedura di verifica, secondo le modalità dell’articolo 10 del d.P.R. 12 aprile 1996, i progetti indicati nell’allegato B del d.P.R. medesimo che non ricadano nelle aree naturali protette di cui alla lettera b) nonché i progetti indicati nell’allegato II della direttiva del Consiglio 97/11/CE del 3 marzo 1997…”. Come si vede, la norma citata opera un rinvio puro e semplice all’allegato II della direttiva 97/11/CE , recependone, dunque, per intero il contenuto laddove esso contempla i “progetti di riassetto urbano, compresa la costruzione di centri commerciali e parcheggi”. Lo stesso art. 1 della l. r. 20, al comma 1 bis, prevede però che “la Giunta regionale…” definisca “…con apposita deliberazione le soglie dei progetti individuati nell’allegato II della suddetta direttiva, al fine della loro sottoposizione alle procedure di VIA o di verifica”. Rispetto ai progetti dell’allegato II, allora, la legge conferisce all’esecutivo regionale un potere regolamentare integrativo attuativo, i cui limiti vanno esattamente interpretati.

26. Nella prospettazione del Comune ricorrente, tale potere integrativo attuativo si potrebbe esercitare solo nel senso di prevedere una disciplina anche più severa, ovvero di richiedere la VIA ove la legge stessa consente il solo screening; non sarebbe invece permessa l’operazione inversa, ovvero stabilire che per taluni casi sia necessario lo screening in luogo della VIA, oppure ancora che nessuno dei due sia necessario, né lo screening né la VIA. Sempre secondo il Comune ricorrente, allora, di tale potere regolamentare la Giunta avrebbe fatto uso improprio, prevedendo al punto 6.7 comma 1 della propria deliberazione 4 luglio 2007 n° VIII/5054 già ricordata in narrativa (doc. 23 ricorrente, copia di essa) che “sino all’emanazione da parte della Giunta regionale delle soglie dimensionali di cui al comma 1 bis della l. r. 3 settembre 1999 n°20” siano assoggettati a screening solo i progetti di centri commerciali eccedenti una data estensione, che nella specie pacificamente non ricorre. Rispetto a tale punto della deliberazione 4 luglio 2007 citata, come si è detto in narrativa, il Comune ricorrente ha quindi proposto espressa impugnazione.

27. In proposito, prima di entrare nel merito del motivo dedotto, bisogna esaminare l’ulteriore eccezione proposta dalla difesa Zerbini alla p. 39 secondo periodo lettera b) della memoria 31 dicembre 2009: l’impugnazione della delibera di Giunta 4 luglio 2007, e con essa il motivo in esame, sarebbero inammissibili per difetto di interesse, in quanto la delibera 4 luglio 2007 stessa è stata, pochi giorni dopo, sostituita dalla delibera della stessa Giunta 2 agosto 2007 n°VIII/5258, che al punto 6.7 ha per quanto interessa identico contenuto (cfr. doc. 18 Zerbini riferito all’elenco 23 dicembre 2009), ma è innegabilmente un atto diverso non impugnato.

28. L’eccezione, ad avviso del Collegio, va respinta, nel senso di cui appresso. E’infatti innegabile che tanto la delibera 4 luglio 2007 quanto la delibera 2 agosto 2007 citate sono atti regolamentari: promanano da un organo abilitato ad esercitare la relativa potestà, appunto la Giunta regionale, e rivestono il contenuto di generalità e astrattezza caratteristico dei regolamenti a cd. “volizione preliminare”, nel senso che determinano una volta per tutte quale dovrà essere il contenuto dei singoli atti applicativi di esse. Rispetto alle stesse delibere, il provvedimento puntuale impugnato, l’autorizzazione 5 giugno 2009 n°1 del Responsabile del settore urbanistica e lavori pubblici del Comune di Castelli Calepio, realizzerebbe, se fosse fondata la prospettazione del ricorrente, il classico caso definito in dottrina e giurisprudenza “del rapporto di simpatia”: si tratterebbe di provvedimento puntuale conforme ad un regolamento, ma ugualmente illegittimo perché il regolamento stesso sarebbe difforme dalla legge. In tal caso, per giurisprudenza ormai pacifica del Consiglio di Stato, sarebbe necessario annullare il provvedimento disapplicando il regolamento illegittimo anche se quest’ultimo non fosse stato a sua volta impugnato, perché in sintesi, se ciò non si facesse, sarebbe violato il principio di gerarchia e si darebbe prevalenza sulla fonte legislativa ad una fonte di grado inferiore. In ipotesi, allora, si dovrebbe annullare il provvedimento impugnato previa disapplicazione del punto 6.7 della delibera di Giunta regionale 2 agosto 2007 n°VIII/5258, regolamento che in base al criterio cronologico ha sostituito perché successivo quello di cui alla precedente delibera 4 luglio 2007 n° VIII/5054.

29. Il motivo in esame, pur ammissibile, è, peraltro, infondato nel merito. L’interpretazione sistematica dei commi 1 lettera d) e 1 bis dell’art. 2 della l.r. Lombardia 3 settembre 1999 n°20 sopra citata induce, infatti, a un’interpretazione diversa da quella restrittiva proposta dal ricorrente e, invece, consonante con quella adottata dalla Giunta regionale. Invero, dopo che le prime tre lettere del comma 1 indicano quali progetti siano direttamente assoggettati a VIA, la successiva lettera “d” elenca i progetti (tra cui quelli compresi all’Allegato II alla direttiva citata) da sottoporre, viceversa ed esclusivamente, alla verifica preliminare ex art. 10 D.P.R. 12.4.1996, mentre solo alla successiva lett. “e” sono individuati i progetti soggetti a entrambe le procedure. Se, dunque, il legislatore regionale avesse voluto assoggettare a entrambe le procedure anche i progetti di cui all’Allegato II, li avrebbe ricompresi nella lettera “e” e non nella lett. “d”. Se ciò non è stato fatto dal legislatore regionale, non è coerente al sistema che – attraverso il meccanismo delle “soglie” – sia discrezionalmente la Giunta regionale con atto amministrativo a farlo, anche se, sul piano letterale, la ricomparsa del termine VIA al successivo comma 1 bis, con riferimento agli stessi progetti ex all. II, non brilla certo per univocità. Eppure lett. d) del comma 1 e comma 1 bis vanno letti insieme, anche perché insieme sono stati introdotti, in via modificativa, dall’art. 3 L.R. n. 3/2003 e dei due, in caso di contrasto letterale, quello che deve cedere è l’art. 1 bis, perché si riferisce a un provvedimento amministrativo mentre la regola legislativa generale è stata posta alla lett. d).

30. D’altra parte, la lettura coordinata delle norme nel senso appena prospettato si impone anche sulla scorta di una interpretazione orientata in senso comunitario. La direttiva del Consiglio 97/11/CE del 3 marzo 1997 che la legge regionale richiama, si limita ad assoggettare a screening i progetti indicati nell’allegato II, salvo riservare agli Stati membri la facoltà di scegliere quali tra gli stessi (in cui ricadono i centri commerciali), debbano o no essere sottoposti a screening anche sulla base di “soglie o criteri” da essi fissati in via generale – così l’art. 1 numero 6 di essa – e demanda sempre agli Stati membri di mettere in vigore entro una certa data le disposizioni “regolamentari o legislative” a ciò necessarie – così l’art. 3 di essa. L’operazione compiuta dalla Giunta regionale lombarda (che, secondo il sistema costituzionale interno di riparto di competenze tra Stato e Regioni, qui agisce in luogo dello Stato) con la delibera 2 agosto 2007 n°VIII/5258, che appunto esenta taluni progetti anche dallo screening, è, quindi, senz’altro consentita dalle norme della direttiva: cosicché, essa si deve ritenere consentita anche dalla normativa di legge regionale interposta, da interpretare sin quanto possibile in senso conforme al diritto comunitario. Ne segue che sotto il profilo denunziato sono legittimi tanto la citata delibera 2 agosto 2007 n°VIII/5258, quanto il provvedimento puntuale impugnato, che di essa fa applicazione.”

Il ragionamento del primo giudice quindi può essere così riassunto:

a) la normativa comunitaria sopra richiamata demanda agli Stati membri l’individuazione dei termini entro i quali i progetti (fra gli altri) per la realizzazione di centri commerciali devono essere sottoposti alle verifiche preliminari di impatto;

b) lo Stato italiano ha demandato tale potestà alle regioni;

c) la Regione Lombardia lo ha concretamente esercitato con la legge regionale 3 settembre 1999, n. 20 (come modificata con l.r. 24 marzo 2003, n. 3) vigente all’epoca dell’adozione dei provvedimenti impugnati, ed in particolare, per quanto qui interessa, con l’art. 2, comma 1 bis, in esecuzione del quale è stata emanata la deliberazione della Giunta regionale 2 agosto 2007 n°VIII/5258;

d) la suddetta deliberazione esclude dalla verifica i centri commerciali, come quello di cui ora si tratta, inferiori ad una determinata superficie;

e) quest’ultima deliberazione non è stata impugnata, ma sarebbe disapplicabile, ove risultasse contrastante con la legge regionale citata;

f) tale contrasto non sussiste.

Il Collegio, osserva in particolare come non sia condivisibile l’interpretazione della suddetta legge regionale, affermata dal primo giudice

Invero, l’art.2, comma 1, della richiamata legge regionale 3 settembre 1999, n. 20, :

a) assoggetta a procedura di VIA i progetti indicati nell’allegato A del d.P.R. 12 aprile 1996 nonché i progetti indicati nell’allegato I della direttiva del Consiglio 97/11/CE del 3 marzo 1997;

b) assoggetta a procedura di VIA i progetti indicati nell’allegato B del D.P.R. 12 aprile 1996, che ricadano, anche parzialmente, all’interno delle aree naturali protette, come definite dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette); per tali progetti le soglie dimensionali sono ridotte del cinquanta per cento;

c) assoggetta a procedura di VIA i progetti di ricerca e coltivazione di minerali solidi e delle risorse geotermiche sulla terraferma, di cui all’art. 35 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112;

d) assoggetta a procedura di verifica, secondo le modalità dell’articolo 10 del d.P.R. 12 aprile 1996, i progetti indicati nell’allegato B del d.P.R. medesimo che non ricadano nelle aree naturali protette di cui alla lettera b) nonché i progetti indicati nell’allegato II della direttiva del Consiglio 97/11/CE del 3 marzo 1997;

e) assoggetta alla procedura di VIA e di verifica i progetti riguardanti modifiche ad interventi od opere qualora da tali progetti derivi un intervento od un’opera con caratteristiche e dimensioni rientranti fra quelli previsti dalle lettere a), b), c), e d) del presente comma.

Il comma 1 bis dell’art.2 , dispone che “la Giunta regionale, sentita la competente commissione consiliare, tenendo conto dei criteri di selezione riportati nell’allegato III della direttiva del Consiglio 97/11/CE del 3 marzo 1997 e degli indirizzi per le politiche regionali, definisce con apposita deliberazione le soglie dei progetti individuati nell’allegato II della suddetta direttiva, al fine della loro sottoposizione alle procedure di VIA o di verifica, nonché per dare attuazione ai conferimenti di funzioni di cui all’articolo 3”.

Ad avviso del Collegio, il comma 1 dell’art. 2 in commento distingue le ipotesi nelle quali un determinato progetto deve essere assoggettato a VIA e quelle nelle quali deve essere assoggettato a verifica preliminare, senza prevedere esclusioni.

Il Collegio rileva che neanche il comma 1 bis prevede ipotesi nelle quali un determinato progetto può essere escluso da entrambi i procedimenti.

Il primo giudice dà atto della difficoltà di interpretazione della norma, nella quale legge , fra il comma 1 (in particolare lett. d) e il comma 1 bis, una contraddizione che scioglie affermando che “dei due, in caso di contrasto letterale, quello che deve cedere è l’art. 1 bis, perché si riferisce a un provvedimento amministrativo mentre la regola legislativa generale è stata posta alla lett. d)”.

Tale ragionamento non è condivisibile.

Invero, non si comprende perché il fatto che il comma 1 bis disciplini i contenuti del regolamento di attuazione della legge regionale debba rendere il suo contenuto recessivo.

Peraltro, e soprattutto, deve essere rilevato come la lett. d) del primo comma non legittimi affatto l’esclusione di alcuni dei progetti ivi considerati dalla procedura di verifica in quanto, come si è visto, prevede la loro sottoposizione a verifica preliminare.

Ma, soprattutto, deve essere osservato che né il comma 1 né il comma 1 bis prevedano esclusioni totali da procedure di VIA o di verifica.

Deve quindi essere affermato che l’art. 2, comma 1 bis, della legge regionale della Lombardia 3 settembre 1999, n. 20, attribuisce alla Giunta Regionale il potere di individuare i progetti, fra quelli individuati dall’allegato II della direttiva del Consiglio 97/11/CE del 3 marzo 1997, che ricadono nell’ambito di applicazione della regola generale in base alla quale la loro approvazione presuppone l’esperimento della procedura di verifica e quelli che per le loro dimensioni devono essere assoggettati a VIA.

Deve poi essere precisato, sul piano sistematico e per completezza di analisi, che l’art. 2 comma 1 bis appare applicabile anche alla lett. e) dell’art. 2, primo comma, in cui (con riferimento tra l’altro alla lett.d) si richiamano le procedure di VIA e screening, sia pure in fattispecie, qui non direttamente rilevante, di progetti riguardanti modifiche ad interventi od opere qualora da tali progetti derivi un intervento od un’opera con caratteristiche e dimensioni rientranti fra quelli previsti dalle lettere a), b), c), e d) del presente comma.

Il primo giudice ritiene l’opposta interpretazione “orientata in senso comunitario” ma tale osservazione non può essere condivisa.

Il primo giudice afferma che “la direttiva del Consiglio 97/11/CE del 3 marzo 1997 che la legge regionale richiama, si limita ad assoggettare a screening i progetti indicati nell’allegato II, salvo riservare agli Stati membri la facoltà di scegliere quali tra gli stessi (in cui ricadono i centri commerciali), debbano o no essere sottoposti a screening anche sulla base di “soglie o criteri” da essi fissati in via generale – così l’art. 1 numero 6 di essa – e demanda sempre agli Stati membri di mettere in vigore entro una certa data le disposizioni “regolamentari o legislative” a ciò necessarie – così l’art. 3 di essa”.

A tale osservazione deve essere obiettato che la norma comunitaria non esclude che gli stati membri possano assoggettare tutti i progetti ascrivibili all’allegato II a procedura di screening, ed in base alle considerazioni svolte in precedenza il Collegio ritiene che questa sia stata la scelta del legislatore regionale della Lombardia.

Alla luce delle argomentazioni fino ad ora svolte, afferma il Collegio che alla luce della normativa regionale sopra richiamata nella Regione Lombardia la realizzazione di centri commerciali, definiti tali ai sensi dell’art. 4, primo comma lett. g), del d. lgs. 31 ottobre 1998, n. 114, deve essere assoggettata a valutazione di impatto ambientale ovvero alla procedura alternativa di “screening”.

Di conseguenza, la normativa regolamentare della Regione Lombardia (delibera della Giunta regionale 2 agosto 2007, n. VIII/5258, paragrafo 6.7 comma primo) che esclude da qualsiasi verifica i centri commerciali che interessano una superficie inferiore a quella indicata nell’allegato B, punto 7, lett. b), del d.P.R. 12 aprile 1996 (progetti di sviluppo di aree urbane, nuove o in estensione, interessanti superfici superiori ai 40 ha; progetti di sviluppo urbano all’interno di aree urbane esistenti che interessano superfici superiori ai 10 ha; il limite previsto appare, in verità, di dubbia ragionevolezza) deve essere disapplicata.

In ulteriore conseguenza, l’autorizzazione commerciale impugnata rilasciata alle appellanti incidentali sul presupposto dell’applicabilità della suddetta normativa regolamentare regionale deve essere annullata.

5. In conclusione, riassuntivamente, l’appello incidentale deve essere respinto mentre l’appello principale deve essere accolto, nei sensi di cui sopra, per l’effetto annullando l’impugnata autorizzazione commerciale.

In considerazione della complessità della controversia le spese devono essere integralmente compensate fra le parti costituite.

P.Q.M.

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando sull’appello n. 6013/10, come in epigrafe proposto, respinge l’appello incidentale ed accoglie, come da motivazione, l’appello principale e, per l’effetto, in riforma parziale della sentenza gravata accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso di primo grado.

Compensa integralmente spese ed onorari del giudizio fra le parti costituite, fatto salvo il diritto dell’appellante al recupero del contributo unificato versato per i due gradi.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa

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