Palazzo-Spada

CONSIGLIO DI STATO

SEZIONE V

ORDINANZA 20 ottobre 2015, n.4793

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 1746 del 2015, proposto dalla s.r.l. Undis Servizi, in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dall’avvocato Sergio Della Rocca, con domicilio eletto presso gli Studi Legali Riuniti in Roma, corso d’Italia, n. 19;

contro

Il Comune di Sulmona, in persona del Sindaco pro tempore,rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Blandini, Marina Fracassi, con domicilio eletto presso il signor Luca Giusti in Roma, viale Angelico, n. 92;

nei confronti di

La s.p.a. Cogesa, in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dall’avvocato Roberto Colagrande, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Liegi, n. 35 B;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. Abruzzo, Sede di l’Aquila, n. 929/2014, resa tra le parti, concernente l’ affidamento in house del servizio di gestione del ciclo integrato dei rifiuti urbani.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Sulmona e della s.p.a. Co.ge.sa.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 giugno 2015 il Cons. Luigi Massimiliano Tarantino e uditi per le parti gli avvocati Sergio Della Rocca, Guido Blandini e Roberto Colagrande.

Il presente giudizio trae origine dal ricorso n. 727 del 2014, proposto dalla s.r.l. Undis Servizi al TAR per l’Abruzzo, al fine di ottenere l’annullamento della delibera del consiglio comunale di Sulmona n. 60 del 30 settembre 2014, con cui il Comune ha ritenuto sussistenti i presupposti per l’affidamento in house alla s.p.a. Co.ge.sa del servizio di gestione del ciclo integrato dei rifiuti urbani, demandando alla giunta ed agli uffici la stipulazione del contratto.

Il TAR ha respinto il ricorso, ritenendo che tra l’amministrazione comunale e la s.p.a. Co.ge.sa sussistessero tutti i presupposti per l’affidamento in house del servizio.

Avverso la sentenza di primo grado, l’originario ricorrente ha proposto l’appello in esame, sostenendo la sua erroneità.

Con un primo ordine di censure, l’appellante ha dedotto che non vi sarebbe alcuna forma di «controllo analogo», dal momento che:

a) il Comune di Sulmona è socio di minoranza della s.p.a. Co.ge.sa.. e lo statuto sociale prevede che le scelte fondamentali vengano effettuate dall’assemblea, senza che la partecipazione del socio di minoranza abbia capacità di incidere su di esse;

b) la convenzione sottoscritta da tutti gli enti soci con la s.p.a. Co.ge.sa., e approvata, per quanto riguarda il Comune di Sulmona, con la delibera consiliare n. 59 del 2014, ritenuta decisiva dal primo giudice per riscontrare la presenza del requisito del «controllo analogo», sarebbe «postuma» rispetto agli atti impugnati, sicché non poteva essere esaminata dal TAR;

b) una simile conclusione, inoltre, sarebbe smentita dalla circostanza che lo statuto sociale investe gli organi sociali di un potere di autonomia inconciliabile con la nozione di «controllo analogo» e che proprio l’art. 3, comma 5, della citata convenzione prevedrebbe che gli organi sociali possano motivatamente discostarsi dal parere reso dal comitato cui partecipano tutti gi enti soci e che esprime un parere sugli atti sociali.

L’appellante ha inoltre dedotto che non sussisterebbe il requisito della «prevalente attività» svolta a favore degli enti, indicata dall’art. 12 della direttiva CEE 2014/24 nell’80%, essendo la stessa pari al 50% sula base del bilancio di esercizio degli anni 2011, 2012 e 2013, anche perché non potrebbe essere stralciata l’attività svolta a favore dei Comuni non soci, imposta alla s.p.a. Co.ge.sa. dall’autorizzazione integrata ambientale n. 9/11, che unitamente alla delibera regionale consentirebbe, ma non obbligherebbe la s.p.a. Co.ge.sa. all’attività di smaltimento dei rifiuti.

Inoltre, lo stesso art. 4.3. dello statuto nell’elencare gli atti consentiti alla società prevedrebbe la partecipazione a gare d’appalto.

L’appellante ha altresì lamentato che difetterebbe la sussistenza dei requisiti della relazione in house anche sotto altro il profilo del requisito della «attività prevalente», non potendosi computare quegli affidamenti precedenti alla convenzione stipulata in data 30 ottobre 2014, perché disposti a favore di un soggetto, la s.p.a. Co.ge.sa., che non si sarebbe potuto qualificare come ente in house. Ne consegue che il relativo volume di fatturato non potrebbe essere considerato ai fini dell’integrazione del requisito della «attività prevalente».

3.1. Con riferimento alle ultime doglianze, l’appellante ha proposto una istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE.

Costituitasi in giudizio, la s.p.a. Co.ge.sa. ha dedotto che sarebbero infondate le censure contenute nell’atto d’appello, evidenziando tra l’altro che la citata convenzione sarebbe stata conclusa prima della stipulazione del contratto di servizio con il Comune di Sulmona per l’affidamento oggetto della lite.

Nelle successive difese, l’appellante ha insistito nelle proprie conclusioni, rilevando come il «controllo analogo» previsto dalla convenzione non sia stato ancora attuato.

La s.p.a. Co.ge.sa. ha replicato, deducendo che si tratterebbe della istituzione di un ufficio incaricato soltanto di coadiuvare il comitato degli enti soci, sicché la circostanza rilevata dall’appellante sarebbe irrilevante.

In data 19 giugno 2015, si è costituita in giudizio l’amministrazione comunale.

Al riguardo, osserva la Sezione che non si può tenere conto della memoria depositata dal Comune, perché tardiva rispetto ai termini fissati dall’art. 73, comma 3, c.p.a.

Passando all’esame delle censure contenute nell’atto d’appello, la Sezione ritiene di premettere le seguenti osservazioni di carattere generale.

7.1. Il diritto nazionale non contiene una norma che disciplini i requisiti del rapporto in house.

Infatti, il comma 5 dell’art. 113 del d.lgs. 267/2000, in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica:

– stabiliva che «L’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio: …c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano»;

– è stato abrogato dall’art. 23-bis del decreto legge n. 112/2008, per il quale «In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta ‘in house’ e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente o gli enti pubblici che la controllano».

A sua volta, il sopra riportato art. 23 bis è stato abrogato con il decreto del Presidente della Repubblica, che ha dato atto dell’esito del referendum popolare, rivolto contro di esso.

Il vuoto normativo venutosi a creare è stato in parte colmato dall’art. 4, comma 13, del decreto legge n. 138/2011 (convertito dalla legge n. 148/2011), che aveva consentito l’affidamento a favore di società a capitale interamente pubblico in house, come scelta eccezionalmente praticabile nei soli casi in cui il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento fosse pari o inferiore alla somma complessiva di 200.000 euro annui (somma così rideterminata dall’art. 25, del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1).

L’art. 4, comma 13, ora richiamato – che già non conteneva più alcun riferimento agli elementi necessari per poter affermare di essere in presenza di un ente in house- è stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 199/2012 della Corte Costituzionale.

7.2. Nell’attuale quadro normativo nazionale, non si rinviene, quindi, una disposizione che indichi gli elementi costituivi di un ente in house.

Lo stesso legislatore nazionale in molteplici discipline settoriali (es. art. 1, comma 423, 533, 609 l. 190/2014) ha richiamato la nozione di ente in house, rinviando all’ordinamento europeo per una sua corretta delimitazione.

Emblematico è il testo del secondo periodo del comma 1 dell’articolo 149-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, secondo il quale «L’affidamento diretto può avvenire a favore di società interamente pubbliche, in possesso dei requisiti prescritti dall’ordinamento europeo per la gestione in house, comunque partecipate dagli enti locali ricadenti nell’ambito territoriale ottimale».

Quanto al diritto europeo, «l’affidamento in house» è un istituto di origine giurisprudenziale per verificare quando vada necessariamente indetta una gara (a partire dalla cd. sentenza Teckal del 18 novembre 1999, C-107/98).

Le direttive n. 2014/23/UE (art. 17), n. 2014/24/UE (art.12), n. 2014/25/UE (art. 28) ne trattano gli elementi costitutivi, al fine di delimitare l’ambito di applicazione delle direttive sugli appalti e sulle concessioni.

Tali direttive, però, non sono applicabili ratione temporis alla fattispecie in esame, poiché – non essendo ancora scaduto il termine per il loro recepimento – non può essere esaminato il loro carattere self-executing.

Le previsioni in questione hanno comunque una rilevanza giuridica, pur minore rispetto al c.d. effetto diretto ovvero alla regola della «interpretazione giuridica conforme».

Infatti, in nome del principio di leale collaborazione, vi è un dovere di standstill, nel senso che il legislatore nazionale, nel periodo intercorrente tra la pubblicazione della direttiva nella GUUE e il termine assegnato per il suo recepimento, deve evitare qualsiasi misura che possa compromettere il conseguimento del risultato (C. giust. 18 dicembre 1997, C-129/96, Inter-EnvironnementVallonie), così come il giudice deve evitare qualsiasi forma di interpretazione o di applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva (C. giust. UE, 15 aprile 2008, C-268/08, Impact).

Nessuna delle due ipotesi ricorre nella fattispecie, considerato che il requisito della cd. attività prevalente deve comunque essere definito sulla base del diritto dell’Unione europea, vigente al tempo dell’adozione dell’atto impugnato, non essendo rinvenibile una normativa nazionale che chiarisca i termini entro i quali il suddetto requisito vada apprezzato, ma semplicemente una disciplina nazionale, l’art. 2 del d.lgs. n. 163/2006, che impone l’obbligo di affidare il servizio oggetto del presente contenzioso attraverso una gara pubblica, a meno che non ricorra tra amministrazione aggiudicatrice ed ente aggiudicatario una relazione in house, nell’accezione operante secondo il diritto dell’Unione europea.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia sul cd. requisito della «attività prevalente» ha indicato quale elemento necessario per la sussistenza della relazione in house che l’ente controllato «realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano» (sentenza Teckal,18 novembre 1999, in C-107/98, par. 50).

Successivamente, il requisito in questione è stato oggetto di un ulteriore chiarimento da parte della Corte di Giustizia nella sentenza cd. Carbotermo, 11 maggio 2006, in C-340/04, che ha precisato che «si può ritenere che l’impresa in questione svolga la parte più importante della sua attività con l’ente locale che la detiene, ai sensi della menzionata sentenza Teckal, solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione e ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale.

Per verificare se la situazione sia in questi termini il giudice competente deve prendere in considerazione tutte le circostanze del caso di specie, sia qualitative sia quantitative.

Quanto all’accertare se occorra tener conto in tale contesto solo del fatturato realizzato con l’ente locale controllante o di quello realizzato nel territorio di detto ente, occorre considerare che il fatturato determinante è rappresentato da quello che l’impresa in questione realizza in virtù delle decisioni di affidamento adottate dall’ente locale controllante, compreso quello ottenuto con gli utenti in attuazione di tali decisioni.

Infatti, le attività di un’impresa aggiudicataria da prendere in considerazione sono tutte quelle che quest’ultima realizza nell’ambito di un affidamento effettuato dall’amministrazione aggiudicatrice, indipendentemente dal fatto che il destinatario sia la stessa amministrazione aggiudicatrice o l’utente delle prestazioni.

Non è rilevante sapere chi remunera le prestazioni dell’impresa in questione, potendo trattarsi sia dell’ente controllante sia di terzi utenti di prestazioni fornite in forza di concessioni o di altri rapporti giuridici instaurati dal suddetto ente. Risulta parimenti ininfluente sapere su quale territorio siano erogate tali prestazioni».

Da tale giurisprudenza, si evince che gli affidamenti da considerare per raggiungere la soglia della prevalenza dell’attività sono dunque quelli disposti direttamente dall’ente controllante.

Un ampliamento del novero degli affidamenti da computare si desume, invece, dalle nuove direttive sopra indicate, che impongono di computare anche gli affidamenti disposti «da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi».

Tale previsione ha l’effetto di ampliare il campo applicativo dell’in house providing.

Non si rinvengono, invece, pronunce che chiariscano se tra gli affidamenti da valutare, al fine di ritenere integrato il requisito dell’«attività prevalente», debbano anche essere computati quelli che riguardino enti pubblici non soci, nel caso in cui l’attribuzione sia imposta da un provvedimento autoritativo proveniente da un’amministrazione pubblica diversa, nella fattispecie la Regione Abruzzo, che impone all’ente sospettato di relazione in house di svolgere attività di trattamento e smaltimento rifiuti a favore di comuni non soci.

In questo caso, però, sembrerebbe ravvisabile la stessa ratio che la Corte di Giustizia ha posto a fondamento dell’elaborazione del requisito della «attività prevalente», poiché l’attività imposta a favore di soggetti non soci non potrebbe comunque essere oggetto di competizione concorrenziale con altre imprese del mercato.

Un ulteriore aspetto della delimitazione del requisito dell’attività prevalente, che rileva nella fattispecie in esame, concerne gli affidamenti che possono essere computati nel caso in cui il requisito del controllo analogo sopravvenga rispetto all’affidamento già concesso (ossia, nel caso in esame, tutti quelli antecedenti alla convenzione di controllo stipulata in data 30 ottobre 2014 tra la s.p.a, Co.ge.sa. e gli enti pubblici soci).

Sul punto un’indicazione sembra provenire dalla formulazione delle nuove direttive sopra citate. Infatti, l’art. 12 della direttiva 2014/24/UE, par. 5, prevede che «Se, a causa della data di costituzione o di inizio dell’attività della persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice in questione, ovvero a causa della riorganizzazione delle sue attività, il fatturato, o la misura alternativa basata sull’attività, quali i costi, non è disponibile per i tre anni precedenti o non è più pertinente, è sufficiente dimostrare, segnatamente in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile».

Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia non si rinviene però una simile affermazione, che si potrebbe ciò nondimeno considerare operante già prima dell’adozione della citata direttiva, perché rispettosa dei principi desumibili dagli artt. 43, 46 e 89 del TFUE.

La disciplina comunitaria sul rinvio pregiudiziale è contenuta nell’art. 267 Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) (ex art. 234 del TCE), secondo il quale «La Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale:

a) sull’interpretazione dei trattati;

b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione.

Quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad un organo giurisdizionale di uno degli Stati membri, tale organo giurisdizionale può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione.

Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte.

Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale e riguardante una persona in stato di detenzione, la Corte statuisce il più rapidamente possibile ».

I requisiti formali del provvedimento di rinvio pregiudiziale e le modalità di formulazione dei quesiti sono disciplinati nel «Nuovo regolamento di procedura della Corte di Giustizia» in G.U. 29 settembre 2012 e nelle «Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale», in G.U. 6 novembre 2012.

Nella fattispecie si ravvisano i presupposti per il rinvio di questioni pregiudiziali sulla corretta interpretazione, ai sensi dell’art. 267 TFUE.

Rileva il Collegio che le questioni pregiudiziali sollevate dall’appellante in ordine alla ricorrenza del requisito della prevalente attività svolta dalla s.p.a. Cogesa a favore del Comune di Sulmona, riguardano questioni relative all’interpretazione dei trattati, rilevanti al fine della decisione del giudizio, non già decise dalla Corte di giustizia e attratte nell’ambito di giurisdizione della medesima Corte di giustizia.

Pertanto, si configura l’obbligo di rinvio pregiudiziale di cui al citato art. 267.

11.Si rimettono pertanto alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:

a) «se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento all’attività imposta da un’amministrazione pubblica non socia a favore di enti pubblici non soci».

b) «se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento agli affidamenti nei confronti degli enti pubblici soci prima che divenisse effettivo il requisito del cd. controllo analogo».

Si trasmette alla cancelleria della Corte, mediante plico raccomandato, la copia dei seguenti atti:

– del provvedimento impugnato con il ricorso di primo grado:

– del ricorso di primo grado;

– della sentenza del Tribunale amministrativo dell’Abruzzo, n. 929/2014, appellata;

– dell’atto di appello della s.r.l. Undis Servizi e dei successivi scritti difensivi, corredati dagli allegati documenti di parte;

– della memoria di costituzione della s.p.a. Co.ge.sa. e dei successivi scritti difensivi, corredati dagli allegati documenti di parte;

– della presente ordinanza.

Il presente giudizio viene sospeso nelle more della definizione dell’incidente comunitario, mentre ogni ulteriore decisione, anche in ordine alle spese, è riservata alla pronuncia definitiva.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), non definitivamente pronunciando sul ricorso in appello n. 1746/2015, dispone:

a cura della segreteria, la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nei sensi e con le modalità di cui in motivazione, e con copia degli atti ivi indicati;

la sospensione del presente giudizio.

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