Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 19 febbraio 2018, n. 1055. Il premio di maggioranza previsto per la lista, o per la coalizione di liste collegate al Sindaco eletto nei Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti

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presente controversia ha ad oggetto le modalità di attribuzione del cd. premio di maggioranza alla lista o coalizione di liste collegate al sindaco eletto nei Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, così come disciplinate dall’art. 73, comma 10, d.lvo n. 267/2000, con particolare riferimento all’ipotesi, contemplata dal secondo periodo e verificatasi nella vicenda elettorale (relativa alle elezioni per il rinnovo del sindaco e del consiglio comunale della Città di Lecce dell’11 e del 25 giugno 2017) oggetto di giudizio, di elezione del sindaco al turno di ballottaggio.
Iniziando dai profili strettamente processuali della vicenda, viene in rilievo la censura con la quale gli appellanti lamentano che il giudice di primo grado ha omesso di esercitare il potere di riunione dei (quattro) ricorsi connessi, definendo conseguentemente i relativi giudizi con altrettante autonome sentenze, pregiudicando in tal modo il loro diritto di difesa, essendo stati costretti ad esperire, nel ristretto termine all’uopo concesso dall’art. 131 c.p.a., quattro distinti appelli.
La censura non può essere accolta.
In primo luogo, infatti, l’esercizio del potere di riunione è affidato alla valutazione discrezionale del giudice (art. 70 c.p.a.: “il collegio può, su istanza di parte o d’ufficio, disporre la riunione di ricorsi connessi”), sì che il suo mancato esercizio non è suscettibile di inficiare, da solo, la validità delle sentenze appellate (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1777 dell’8 aprile 2015).
Né è censurabile, di per sé, il fatto che il presidente del collegio di primo grado abbia affidato il ruolo di relatore a quattro distinti magistrati, che hanno poi provveduto alla stesura delle sentenze (con i connessi effetti sulla perfetta omogeneità motivazionale delle stesse), rispondendo tale modus procedendi all’esigenza di coinvolgere nella misura più ampia possibile, nella deliberazione e nella successiva redazione della decisione, in considerazione della complessità della questione oggetto di giudizio, i componenti del collegio giudicante.
Infine, la sostanziale unicità della ratio decidendi, a prescindere dalla veste motivazionale assunta dalle sentenze appellate, non ha certo aggravato in termini significativi gli oneri difensivi degli appellanti, nonostante la formale diversità dei provvedimenti giurisdizionali oggetto di gravame.
Nel merito, va preliminarmente ricordato che la fattispecie oggetto di giudizio, come si diceva, è disciplinata dall’art. 73, comma 10, secondo periodo, d.lvo n. 267/2010, nel senso che “qualora un candidato alla carica di sindaco sia proclamato eletto al secondo turno, alla lista o al gruppo di liste ad esso collegate che non abbia già conseguito, ai sensi del comma 8, almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, viene assegnato il 60 per cento dei seggi, sempreché nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate al primo turno abbia già superato nel turno medesimo il 50 per cento dei voti validi. I restanti seggi vengono assegnati alle altre liste o gruppi di liste collegate ai sensi del comma 8”.
In particolare, come già osservato, costituisce oggetto di controversia l’interpretazione della clausola ostativa al riconoscimento del premio alla lista o al gruppo di liste collegate al sindaco eletto, correlata al superamento al primo turno, da parte di altra lista o gruppo di liste, del 50% dei “voti validi”, confrontandosi sul punto la tesi degli appellanti (posta dall’Ufficio Elettorale Centrale a base del provvedimento impugnato in primo grado), secondo cui la locuzione “voti validi” sarebbe comprensiva di tutti i voti assegnati, sia al primo che al secondo turno, ai candidati alla carica di sindaco (necessariamente comprensivi, limitatamente al primo turno, di quelli, eventualmente ad essi sottesi, assegnati alle liste della rispettiva coalizione), e la tesi dei ricorrenti in primo grado ed odierni appellati (fatta propria dal T.A.R. con le sentenze appellate), secondo cui, invece, la locuzione controversa farebbe riferimento ai soli voti validi espressi nel primo turno elettorale: discendendo, dalla adesione all’una piuttosto che all’altra opzione interpretativa, decisive conseguenze sulla individuazione – tra gli appellanti, sostenitori del candidato sindaco vincente, o, all’opposto, tra gli originari ricorrenti, appartenenti alla coalizione di liste collegate al candidato sindaco non eletto – degli aventi diritto alla carica di consigliere comunale, per effetto, nel caso di accoglimento della tesi degli appellati e di conferma delle sentenze impugnate, della redistribuzione, secondo i criteri proporzionali di cui al comma 8 dell’art. 73 d.lvo n. 267/2000, dei seggi altrimenti “assorbiti” dal premio di maggioranza.
Tanto premesso, va subito evidenziato che gli appelli (ma, di riflesso ed in chiave oppositiva, anche le deduzioni difensive degli appellati), si articolano in una pluralità di argomenti, afferenti a diversi approcci ermeneutici (letterale, sistematico, costituzionalmente orientato, per culminare nella proposta di deferimento alla Corte costituzionale della profilata questione di costituzionalità) tesi, singolarmente e complessivamente, a dimostrare la correttezza interpretativa della tesi “ampliativa”, quanto al senso da attribuire alla locuzione “voti validi”: si procederà quindi ad analizzarli autonomamente, ponendo in evidenza, in sede di sintesi finale, i profili di convergenza o, eventualmente, di discrepanza tra essi ravvisabili, ai fini della decisione della controversia.
Iniziando dall’esegesi letterale della disposizione, osservano gli appellanti che la tesi interpretativa da essi patrocinata si fonda su due elementi testuali fondamentali: l’assenza di indicazioni verbali intese a limitare al primo turno l’ambito di riferimento della locuzione “voti validi” (ma, anzi, la presenza di argomenti esegetici di segno contrario) e la finalizzazione del riferimento normativo al “turno medesimo” all’esigenza di evitare che, tra i voti di lista costitutivi del “divisore”, siano computati quelli attribuiti, nel turno di ballottaggio, al candidato sindaco col quale la relativa coalizione sia collegata.
La proposta interpretativa di parte appellante, seppur suggestiva e meticolosamente motivata, non può essere condivisa.
In primo luogo, nessuna plausibile ragione testuale induce a limitare l’operatività della formula “contestualizzante” (sul piano temporale e procedimentale) “nel turno medesimo” al solo “divisore” (i voti di lista), seguendo la parafrasi matematica del testo normativo operata dagli appellanti, e non anche al “dividendo” (i voti validi).
Invero, ed in una chiave di lettura maggiormente descrittiva, il “turno medesimo” non costituisce attributo determinativo (e, quindi, criterio di calcolo) dei soli “voti di lista”, ma definisce l’ambiente logico-formale entro il quale, e non oltre il quale, deve realizzarsi la fattispecie contemplata dalla norma (in funzione escludente l’attribuzione del premio di maggioranza): fattispecie incentrata su un risultato (compendiato nella formula “abbia già superato”) che, proprio perché destinato a consumarsi in quel contesto (il “turno medesimo”), non potrebbe mettere in relazione, come accadrebbe ove si aderisse alla tesi interpretativa sulla quale si reggono gli appelli, una grandezza determinata (la sommatoria dei voti di lista conseguiti dalla lista o coalizione di liste collegate al sindaco non eletto) ed un’altra (i “voti validi”) ancora indefinita, perché destinata ad assumere una dimensione numerica concreta in una fase procedimentale successiva (quella, cioè, del turno di ballottaggio).
Ne consegue, al fine di dimostrare la non rispondenza della interpretazione sostenuta dagli appellanti ai dati letterali da cui pretende di muovere, che la locuzione legislativa “voti validi” non è affatto priva di determinazioni limitative, rinvenendosi esse, in termini sufficientemente univoci, nel necessario riferimento dell’accertamento (circa il superamento o meno, da parte dei voti di lista conseguiti dalla coalizione collegata al candidato sindaco non eletto, della percentuale del 50% dei “voti validi”) al “primo turno”, mentre alla “costanza terminologica”, quale criterio ermeneutico che impone di non differenziare, all’interno di un medesimo testo normativo, il significato di una espressione e, quindi, di utilizzare il concetto di “voti validi” come espressivo sia dei voti di lista sia di quelli per il sindaco (sì che, poiché i voti per il sindaco sono espressi in entrambi i turni, entrambi i turni dovrebbero concorrere alla determinazione del “dividendo” nella formula legislativa de qua), non può attribuirsi carattere assoluto, diventando recessivo quando dal medesimo testo normativo, come nella specie, emergano elementi intesi (non a smentire, in via generale, quel significato, ma) a delimitare il bacino di riferimento dei “voti validi”, circoscrivendolo al solo primo turno.
Anche quindi ammettendo, come sostenuto dagli appellanti, che il riferimento normativo al “medesimo turno” persegua (anche) la plausibile finalità di escludere dal computo dei voti di lista quelli ottenuti dalla coalizione di liste collegate al sindaco non eletto nel turno di ballottaggio, non si vede (se non per pretesi motivi di favor per il principio di governabilità, le quali non possono tuttavia giustificare la radicale alterazione del significato letterale delle parole usate dal legislatore) la ragione testuale perché analoga limitazione non dovrebbe valere per i “voti validi”, escludendo dal computo degli stessi quelli espressi dagli elettori nel turno di ballottaggio.
Del resto, sempre sul piano della esegesi logico-testuale (ma con evidenti implicazioni anche sul versante logico-sistematico), l’esigenza di limitare la rilevanza dei “voti validi” a quelli espressi (anche a favore dei candidati sindaci) al primo turno è coerente con l’elementare postulato di omogeneità, non solo numerica ma anche qualitativa, delle due grandezze (i voti di lista ed i voti validi) assunte a riferimento: omogeneità che è assicurata nel primo turno, specialmente dal secondo punto di vista (ergo, dell’intrinseco valore e significato della manifestazione elettorale), dalla possibilità di voto disgiunto (che, consentendo astrattamente all’elettore di esprimere la preferenza per la lista di gradimento anche se non collegata al candidato sindaco votato, permette di assimilare, entro la cornice unitaria dei “voti validi”, anche quelli espressi, senza voto di lista, esclusivamente a favore di un candidato sindaco) e che sarebbe invece negata qualora la seconda grandezza (il “dividendo”, secondo l’efficace terminologia usata dagli appellanti) venisse ricostruita (anche) sulla base di voti (come quelli espressi nel turno di ballottaggio) per i quali non solo non è data la medesima facoltà, ma che hanno come significato primario la scelta del candidato sindaco (e non, se non indirettamente e per necessità grafica, della lista o della coalizione di liste collegate).
Deve solo rilevarsi, per concludere l’analisi di carattere letterale, che il richiamo operato dalla parte appellante, a sostegno delle sue argomentazioni, alla sentenza di questo Consiglio di Stato, Sez. III, n. 2408 del 23 maggio 2017, si rivela, ad una attenta lettura della complessiva vicenda processuale al culmine della quale è stata pronunciata, non pertinente, discutendosi in quella sede della computabilità nella nozione di “voti validi”, oltre che dei voti di lista, di quelli attribuiti (sempre al primo turno) ai candidati alla carica di sindaco (come agevolmente si evince dalla sentenza di primo grado: cfr. T.A.R. Marche, n. 592 del 28 ottobre 2016) e non venendo in rilievo la diversa questione, intorno alla quale ruota invece la presente controversia, relativa alla rilevanza ascrivibile ai voti espressi dagli elettori nel turno di ballottaggio.
E’ vero che la sentenza citata afferma che “la peculiare legittimazione democratica che riviene al Sindaco dalla sua investitura diretta da parte del corpo elettorale (è) tale da escludere ogni distorsione del principio di rappresentanza per effetto della “valorizzazione”, ai fini che qui rilevano, del voti validi dallo stesso riportati nel turno di ballottaggio”: tuttavia, non solo le argomentazioni spese con la sentenza de qua appaiono riferibili esclusivamente alla questione della determinazione dei voti validi limitatamente al primo turno (come quella con la quale si afferma che “può ritenersi del tutto compatibile con il quadro costituzionale, in considerazione della possibilità di voto “disgiunto” al primo turno fra candidato Sindaco e liste collegate e della necessità di assicurare la governabilità dell’Ente locale al Sindaco democraticamente eletto, la previsione che assegna il premio di maggioranza sulla base dei voti validi conseguiti da quest’ultimo, e non solo dei voti riportati al primo turno dalle liste a questo collegate”), ma le stesse sono articolate in chiave meramente “confermativa” di un “pacifico e consolidato orientamento della giurisprudenza”, il quale, come si evince dalle sentenze che hanno concorso a formarlo, attengono appunto alla nozione di “voti validi” con esclusivo riferimento al primo turno elettorale.
L’esito della interpretazione testuale della disposizione rilevante sarebbe di per sé sufficiente a rendere superflua ogni ulteriore indagine interpretativa, secondo il noto brocardo (che fa da sfondo al disposto dell’art. 12 disp. prel. c.c.) in claris non fit interpretatio, sebbene ritenuto non risolutivo dagli appellanti.
Tuttavia, per fini di esaustività del sindacato giurisdizionale, si rende opportuno verificare la fondatezza degli ulteriori rilievi formulati dagli appellanti, ciò anche perché non può escludersi che anche il preminente criterio della interpretazione letterale debba cedere il passo (o, quantomeno, giustificare l’investitura della Corte costituzionale) qualora le conclusioni cui esso consente di arrivare risultino affette, alla prova di altri metodi interpretativi, da profili di palese irragionevolezza e/o incompatibilità costituzionale.
Ebbene, deducono gli appellanti che il sistema elettorale dei Comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti si incentra sull’elezione diretta del sindaco da parte dell’intero corpo elettorale, la quale è contestuale a quella del consiglio comunale e condiziona l’intero procedimento elettorale, con il corollario del principio di governabilità, facendo degradare ad ipotesi residuale ed eccezionale quella di scollamento tra maggioranza consiliare e sindaco eletto (cd. anatra zoppa): da ciò discenderebbe l’esigenza che l’intero procedimento sia ricostruito (e le pertinenti norme interpretate) in armonia e coerenza con quel dato caratterizzante.
Deducono ancora gli appellanti che, a differenza di quanto ritenuto dal T.A.R., il procedimento elettorale è unitario e in esso l’elezione del consiglio è indissolubilmente connessa a quella del sindaco, senza che sia possibile distinguere tra una fase (il primo turno) finalizzata alla elezione dei consiglieri ed una fase (il turno di ballottaggio) avente ad oggetto l’elezione del sindaco, come sarebbe dimostrato dal cd. apparentamento, che consente a liste che nel primo turno appoggiavano un candidato sindaco di collegarsi, nel secondo, ad un diverso candidato, con i connessi riflessi sull’assetto del consiglio comunale: ne consegue che l’espressione “voti validi”, ove non sia diversamente indicato testualmente, designa la totalità dei voti espressi nell’intero e unico procedimento elettorale che conduce all’elezione diretta del sindaco ed al rinnovo del consiglio comunale.

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