Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 26 marzo 2018, n. 1893. Se il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata

Se il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata; in tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.

Sentenza 26 marzo 2018, n. 1893
Data udienza 14 dicembre 2017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Sesta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 490 del 2012, proposto dai signori Al. Ad. e Ma. Vi. Ad., rappresentati e difesi dall’avvocato Gi. La., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);

contro

Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ro. Mu., Se. Si., domiciliata presso gli uffici dell’avvocatura comunale in Roma, via (…);

e con l’intervento di

ad opponendum:

il signor Ol. Al., rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Pe., elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, corso (…);

per la riforma

della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma – Sez. I-quater n. 4629 del 2011;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 14 dicembre 2017 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti gli avvocati Ra. Ro., per delega dell’avv. Gi. La., Se. Si. e Gi. Pe., per delega dell’avv. Gi. Pe.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1.? Con il ricorso promosso in primo grado, i signori Al. Ad. e Ma. Vi. Ad. ? proprietari di un appartamento sito in Roma ? impugnavano la determinazione dirigenziale n. 143 del 28 gennaio 2011 con la quale il Comune di Roma aveva ingiunto loro la demolizione di “una veranda con struttura in alluminio e vetri con grigliato ligneo esterno di mt. 1,50 X 4,00 circa adibita a lavanderia (lato cortile), e di”una veranda con infissi in alluminio, priva di vetri di mt. 1,00X2,00 circa adibito a ripostiglio (Lato Via (omissis))”, in quanto entrambe realizzate in assenza di titolo abilitativo.

1.1.? Gli istanti sollevano due ordini di censure:

– il difetto di motivazione, in quanto, il Comune di Roma avrebbe omesso di considerare che le opere erano risalenti nel tempo ? essendo state realizzate nel corso degli anni settanta dai precedenti proprietari dell’unità immobiliare ? e che si trattava di struttura di minima consistenza (6 mq e 3 mq su un terrazzo della superficie complessiva di ben 155 mq);

– in subordine, il provvedimento impugnato sarebbe stato comunque illegittimo, non rientrando le opere contestate nella categoria degli interventi di ristrutturazione edilizia (di cui agli articoli 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, e dell’art. 16 della legge della Regione Lazio n. 15 del 2008), trattandosi di pertinenze che non impegnavano un volume superiore al 20% dell’appartamento di proprietà, di talché la loro realizzazione in assenza di DIA sarebbe stata perseguibile soltanto a mezzo di sanzione pecuniaria.

2.- Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, con la sentenza n. 4629 del 2011, respingeva il ricorso, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese di lite.

3.? Avverso la sentenza del T.a.r., i signori Al. Ad. e Ma. Vi. Ad. hanno quindi proposto appello chiedendo, in sua riforma, l’accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

4.- Si sono costituti in giudizio Roma Capitale e l’interventore ad opponendum signor Ol. Al. (proprietario di unità immobiliare ricompresa nell’immobile dove sono state realizzate le opere oggetto dell’ordine di demolizione), insistendo per il rigetto del gravame.

5.? All’esito dell’udienza pubblica del 14 dicembre 2017 e della camera di consiglio riconvocata in data 8 febbraio 2018, la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1.? Con un primo ordine di motivi, gli appellanti lamentano che il Comune, prima di ordinare la demolizione dell’opera abusiva, avrebbe dovuto verificare se, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e stante la limitata consistenza delle verande, si fosse ingenerato un affidamento nei privati, ai quale l’immobile era peraltro pervenuto soltanto dopo la realizzazione da parte dei precedenti proprietari di tale strutture (rispetto alle quali gli odierni appellanti avevano soltanto provveduto, al momento dell’acquisto, nel 1988, ad eseguire opere di manutenzione straordinaria).

1.1.? La censura non può essere accolta in forza delle dirimenti considerazioni da ultimo espresse dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 9 del 2017.

La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.

Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.

Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.

Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica.

Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.

Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio.

Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse.

Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.

Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale.

Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può – al contrario – rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell’abuso e il suo avente causa).

In altri termini, le vicende di natura civilistica, aventi per oggetto la titolarità di un bene, non incidono sul doveroso esercizio del potere, conseguente alla violazione delle regole urbanistiche ed edilizie.

2.? Con il secondo motivo di appello, gli appellanti sostengono che ? data l’esiguità delle strutture restaurate (mq. 6 e mq. 3), di volumetria inferiore al 20% di quella complessiva dell’appartamento ? le opere contestate non avrebbero richiesto il previo rilascio del permesso costruire, dovendosi piuttosto qualificare come pertinenze edilizie soggette a D.I.A.; con la conseguenza che, se questa manca o se il manufatto è in difformità, l’Amministrazione avrebbe potuto procedere soltanto alla irrogazione di sanzione pecuniaria.

2.1.? Il motivo non può essere accolto.

Ai sensi dell’art. 10, comma l, lettera c), del TUE, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino, modifiche del volume, dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia). In via residuale, la SCIA assiste invece i restanti interventi di ristrutturazione c.d. “leggera” (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell’edificio preesistente).

Ebbene, le verande realizzate sulla balconata di un appartamento, in quanto determinano una variazione planovolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale vengono realizzate, sono senza dubbio soggette al preventivo rilascio di permesso di costruire.

Si tratta, infatti, di strutture fissate in maniera stabile al pavimento che comportano la chiusura di una parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica del prospetto. Né può assumere rilievo la natura dei materiali utilizzati, in quanto la chiusura, anche ove realizzata (come nella specie) con pannelli in alluminio, costituisce comunque un aumento volumetrico. In proposito, va ricordato che, nell’Intesa sottoscritta il 20 ottobre 2016, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni, concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma 1-sexies del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, la veranda è stata definita (nell’Allegato A) “Locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili”.

Deve anche escludersi che la trasformazione di un balcone o di un terrazzo in veranda costituisca una “pertinenza” in senso urbanistico. La veranda integra, infatti, un nuovo locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e superficie.

2.3.? In ragione di quanto sopra esposto, è evidentemente inconferente il richiamo operati dagli appellanti alla sanatoria da essi richiesta ? ma mai riscontrata da parte dell’Amministrazione resistente ? ai sensi dell’art. 37, comma 4, del testo unico dell’edilizia, il quale è relativo all’accertamento di conformità degli interventi ? diversi da quelli oggi in contestazione ? eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività.

2.3.? Non può, quindi, dubitarsi della legittimità sul piano sostanziale della sanzione irrogata dal Comune che, in ragione di quanto detto, assume una connotazione del tutto vincolata in rapporto alla realizzazione di una struttura comportante un ampliamento volumetrico e una modifica del prospetto dell’edificio, in mancanza del prescritto titolo edilizio (nel senso che la realizzazione di una veranda necessita del permesso di costruire, anche la sentenza di questa Sezione del Consiglio di Stato 25 gennaio 2017, n. 306). Va rimarcato che, nella memoria del 13 novembre 2017, gli appellanti hanno dichiarato che, nelle more del presente giudizio, hanno provveduto a rimuovere una delle due verande oggetto di causa (e precisamente quella adibita a ripostiglio, posta sul lato di via (omissis)).

3.- L’appello, dunque, va integralmente respinto.

3.1.- La liquidazione delle spese di lite del secondo grado di giudizio segue la regola della soccombenza nei confronti di Roma Capitale, mentre sussistono giusti motivi che giustificano la loro compensazione nei rapporti con l’interventore ad opponendum.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 490 del 2012, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna gli appellanti al pagamento delle spese di lite in favore di Roma Capitale, che si liquidano in E. 3.000,00, oltre IVA e CPA. Le spese di lite sono invece compensate nei rapporti con l’interventore ad opponendum.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio dei giorni 14 dicembre 2017 e 8 febbraio 2018 con l’intervento dei magistrati:

Sergio Santoro – Presidente

Silvestro Maria Russo – Consigliere

Vincenzo Lopilato – Consigliere

Marco Buricelli – Consigliere

Dario Simeoli – Consigliere, Estensore

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *