In presenza di vizi accertati dell’atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito

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[…]

Parimenti il vizio di istruttoria dedotto non atteneva ai profili di illegittimità esposti invece in appello, bensì al mancato svolgimento di una gara, secondo procedura competitiva o con altre modalità, senza che comunque fosse stata coinvolta la ricorrente A.M., gestore uscente, nonché alle altre irregolarità sopra dette.
La sentenza conclusiva del primo grado è tenuta ad attenersi ai motivi; ove ciò non accada, è censurabile per ultra o extra-petizione, ma non può costituire lo strumento per un ampliamento (od un radicale mutamento, come nella specie) del thema decidendum consentendo alle parti di introdurre censure contro il provvedimento impugnato che non siano mai state oggetto del dibattito processuale.
D’altronde, nel caso di specie, la sentenza di primo grado ha scrutinato con precisione le censure della ricorrente ed ha fornito le dettagliate argomentazioni di rigetto sopra sintetizzate; a queste ha aggiunto la chiosa finale della completezza della motivazione della relazione allegata alla delibera impugnata, perché su questa relazione ha fondato la decisione.
4.5. Nel resistere all’eccezione di controparte, l’appellante, nella memoria di replica, sostiene che non sarebbe incorsa nel divieto dei nova in appello perché non sarebbe affatto vero che il motivo in primo grado fosse incentrato esclusivamente sulla omessa partecipazione al c.d. market test, in quanto era stato affermato espressamente che “[…] illegittime sono state le specifiche modalità di conduzione dell’istruttoria”. Deduce, quindi, che anche in primo grado, così come nel presente, il motivo era basato sulla violazione degli artt. 34, comma 20, d.l. n. 179 del 2012 e 192 d.lgs. n. 50 del 2016, sul difetto dei presupposti di legge e sulla assenza di un’adeguata istruttoria (come si evincerebbe dai contenuti delle pagine 8-9-10-11 del ricorso in primo grado, parzialmente trascritti alle pagine 2-4 del ricorso in appello).
Gli argomenti difensivi dell’appellata non convincono.
Non è significativo che il titolo del motivo d’appello riproduca testualmente la rubrica del ricorso per motivi aggiunti (“Violazione dell’art. 41 della C.E.D. – violazione dell’art. 1, l. 241/90 e del principio di trasparenza – eccesso di potere – sviamento- violazione dell’art. 7, l. 241/90 – violazione dell’art. 1, d.lgs. 33/13- violazione dell’art. 34, comma 20, d.l. 179/12- violazione dell’art. 192, comma 2, d.lgs. 50/16 – violazione dell’art. 97 Cost.- difetto dei presupposti – difetto d’istruttoria – manifesta contraddittorietà”). Ai fini dell’individuazione delle domande rilevano l’illustrazione del motivo e le prospettazioni, in fatto ed in diritto, ivi contenute, non essendo decisiva la sommaria indicazione delle norme di legge e dei principi violati contenuta nell’intitolazione, se ed in quanto astrattamente compatibile con molteplici ragioni di impugnazione.
Queste ultime, d’altronde, non vanno certo desunte -come pretende di fare l’appellante- da frasi ed incisi di frasi del tutto parziali, estrapolati da diversi punti del ricorso in primo grado, la cui combinazione ex post finisce per attribuire a quest’ultimo un significato palesemente difforme da quello desumibile dalla piana ed inequivocabile esposizione in esso contenuta.
Il precedente della sentenza di questo Consiglio di Stato, V, 22 maggio 2013, n. 2781, citato nella memoria di replica, infine, non giova alle ragioni dell’appellante perché riferito ad un caso in cui, con l’atto di appello, la ricorrente in primo grado aveva svolto ulteriori argomenti difensivi (mere difese, appunto) a sostegno dei motivi già proposti in primo grado, per censurare ragioni della motivazione della sentenza impugnata, a loro volta, ulteriori rispetto a quelle oggetto del contraddittorio in primo grado.
Differente è, invece, la situazione processuale fin qui esaminata. L’ampliamento del thema decidendum, non consentito dal primo comma dell’art. 104 Cod. proc. amm., si ha non soltanto quando vengano impugnati in appello atti amministrativi non impugnati in primo grado, ma anche quando avverso i medesimi atti già impugnati in primo grado vengano prospettate differenti ragioni di illegittimità, come accaduto nella specie.
In conclusione, il primo motivo d’appello è inammissibile per violazione dell’art. 104, comma 1, Cod. proc. amm.
5. Col secondo motivo A.M. critica la dichiarazione di inammissibilità delle censure articolate nella seconda parte del secondo ricorso per motivi aggiunti, con le quali era stata dedotta l’insussistenza di un “controllo ana congiunto” da parte degli enti affidanti -ed in particolare del Comune di (omissis)- sulla società in house, affidataria del servizio.
Il primo giudice ha constatato che le ragioni della ricorrente erano riferite alla disciplina societaria pregressa, basata sull’art. 22 del vecchio statuto societario del 2012 e sul regolamento del 2013 e che questi sono stati abrogati dal nuovo statuto allegato alla delibera consiliare impugnata.
Dato ciò, i motivi sono stati giudicati privi della specificità richiesta dall’art. 40, comma 1, lett. d), Cod. proc. amm. e comunque inammissibili o nulli ai sensi di questa norma e dell’art. 44 Cod. proc. amm., essendo basati “sul richiamo ad una normativa palesemente inapplicabile al provvedimento impugnato”.
5.1. L’appellante sostiene che sarebbe stato rispettato l’art. 40, comma 1, lett. c), e che non vi sarebbe stata alcuna incertezza, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. b), Cod. proc. amm., perché l’oggetto della domanda era stato perfettamente identificato e compreso dalle controparti, senza alcuna compromissione del diritto di difesa. Precisa, al riguardo, che nel ricorso erano stati citati norme e principi che devono essere osservati in tema di “controllo ana”, così come delineato dalla giurisprudenza amministrativa e della Corte di Giustizia, sicché la circostanza che “fossero stati richiamati lo statuto del 2012, il regolamento del 2013 e non espressamente lo statuto del 2016” non cambierebbe “la sostanza delle cose”.
5.2. Il motivo è infondato.
Per come è dato evincere dalla lettura del secondo ricorso per motivi aggiunti, questi sono fondati sulle pregresse vicende societarie della S.A., nonché sullo statuto del 2012 e sul “regolamento per il controllo ana”, in particolare su: compiti e poteri attribuiti al “Comitato di indirizzo e di controllo”; artt. 1,4 e 5 del regolamento; poteri del Consiglio di Amministrazione della società (pagg. 16- 21).
Orbene, il nuovo statuto, approvato nel 2016 ed allegato alla delibera consiliare impugnata, è intervenuto a modificare gli organi previsti nel precedente statuto, abolendo -come rilevato dal Tar- il Comitato di indirizzo e di controllo ed i rinvii al Regolamento per il controllo ana, in quanto ha istituito un Comitato degli enti pubblici soci (i quali, con voto paritario, rendono pareri preventivi vincolanti ed obbligatori); inoltre, ha sostituito al Consiglio di amministrazione con un amministratore unico.
La sovrapponibilità delle due discipline statutarie va esclusa con conseguente impossibilità di riferire alla disciplina vigente le censure mosse alla disciplina attualmente in vigore, per come dimostrato per tabulas dalle censure mosse in appello nella parte in cui riguardano le modalità di funzionamento del Comitato degli enti pubblici soci, di nuova istituzione. Queste, totalmente assenti nel ricorso in primo grado – e perciò inammissibili in appello- confermano la novità della governance degli enti socie dei sistemi di controllo societari (oltre che di numerosi altri aspetti attinenti alla composizione del capitale, alle maggioranze assembleari, ai limiti del potere dell’amministratore unico, su cui non merita soffermarsi), determinata dall’approvazione del nuovo statuto nell’aprile 2016, per adeguamento al d.lgs. n. 175 del 2016.
5.3. Resta perciò da verificare se, malgrado le censure del primo grado avessero come punto di riferimento un diverso assetto societario, esse fossero, come sostenuto dall’appellante nella memoria di replica, specifiche, tali cioè da consentire comunque al giudice una pronuncia in merito alla doglianza di insussistenza di “controllo ana”.
A questo scopo non è sufficiente il richiamo delle norme e dei principi violati, nonché delle relative interpretazioni giurisprudenziali, delle quali effettivamente il ricorso in primo grado è ampiamente munito.
Ancora, non è sufficiente la mera affermazione del ricorrente che dette norme e principi siano stati violati perché la situazione concreta non corrisponderebbe a quella astratta delineata da dette norme e principi.
Occorre che agli elementi di diritto posti a fondamento dell’impugnazione di determinati atti amministrativi, il ricorrente accompagni l’allegazione e la dimostrazione di circostanze concrete, desumibili anche da atti o documenti, specificamente individuati, che definiscano, nella loro combinazione con gli elementi di diritto, i motivi specifici della domanda di annullamento.
Non si tratta dell’elemento di cui alla lettera c) dell’art. 40 Cod. proc. amm. -esposizione sommaria dei fatti- sul quale si intrattiene l’appellante.
Si tratta piuttosto dell’indicazione degli elementi di fatto, anche documentali, sui quali i motivi di diritto si fondano; in mancanza di tale indicazione, questi risultano privi della specificità richiesta dalla lett. d) dell’art. 40.
La società ricorrente in primo grado, in effetti, ha “specificato” le proprie censure, riferendole tuttavia ad una disciplina societaria non applicabile nel caso concreto, poiché diversa da quella vigente ed espressamente presupposta nella delibera consiliare impugnata, in quanto risultante dal nuovo statuto a questa allegato.
Ne è conseguito che, venendo meno tale specifico riferimento, il motivo è risultato generico, necessitante quindi di completamento tramite il riferimento alla disciplina vigente. Il disposto del secondo comma dell’art. 40 Cod. proc. amm. impedisce, come rilevato dal Tar, un siffatto intervento correttivo-integrativo da parte del giudice, tanto più in un caso, quale quello di specie, in cui, come detto, la disciplina sopravvenuta non è affatto coincidente con quella sulla quale erano fondati i motivi di ricorso.
La sentenza impugnata va confermata nella parte in cui, ritenendo questi motivi privi di specificità perché riferiti ad una disciplina societaria abrogata e comunque non posta a base della delibera impugnata, ha escluso che la dichiarazione di inammissibilità potesse essere evitata mediante un intervento correttivo del giudice, che si porrebbe in contrasto, tra l’altro, con i principi di cui all’art. 2 Cod. proc. amm.
Il secondo motivo d’appello va perciò respinto.
6. Col terzo motivo l’appellante impugna la dichiarazione di inammissibilità per carenza di interesse del ricorso introduttivo avverso la delibera di Giunta n. 136/15, reputata dal primo giudice atto di indirizzo politico.
Col quarto motivo impugna la dichiarazione di inammissibilità dei primi motivi aggiunti avverso diversi atti comunali, reputati non lesivi della posizione giuridica della ricorrente.
6.1. Entrambi i motivi sono improcedibili per carenza di interesse, in quanto anche se fossero accolti, resterebbero validi ed efficaci -in conseguenza del mancato accoglimento dei primi due motivi d’appello- la deliberazione del Consiglio Comunale n. 27/16 e gli atti allegati e successivi, con i quali il Comune di (omissis) ha affidato alla società in house S.A. S.r.l. la gestione del servizio rivendicata dall’appellante.
E’ qui sufficiente richiamare il consolidato insegnamento giurisprudenziale, per il quale in presenza di vizi accertati dell’atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata, e pertanto resta efficace ove non impugnato nel termine di rito. Però la prima ipotesi, quella appunto dell’effetto caducante, ricorre nella sola evenienza in cui l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni, il che comporta, dunque, la necessità di verificare l’intensità del rapporto di conseguenzialità tra l’atto presupposto e l’atto successivo, con riconoscimento dell’effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all’atto precedente, senza necessità di nuove valutazioni di interessi (cfr., tra le tante: Cons. Stato, V, 26 maggio 2015, n. 2611 e 20 gennaio 2015, n. 163; IV, 6 dicembre 2013, n. 5813, 13 giugno 2013, n. 3272 e 24 maggio 2013, n. 2823; VI, 27 novembre 2012, n. 5986 e 5 settembre 2011, n. 4998; V, 25 novembre 2010, n. 8243). Siffatta situazione procedimentale è da escludere nel caso della successione tra l’atto di competenza della Giunta Comunale (oggetto del terzo motivo) e l’atto adottato dal Consiglio Comunale (oggetto dei primi due motivi), previo esperimento di istruttoria e previa approvazione della relazione di cui all’art. 34, comma 20, d.l. n. 179 del 2012; a maggior ragione, è da escludere tra gli atti impugnati con i primi motivi aggiunti, riguardanti sostanzialmente la proroga della gestione nei confronti di A.M., in attesa dell’affidamento del servizio a società in house, e gli atti impugnati con i secondi motivi aggiunti, concernenti tale ultimo affidamento, oramai incontrovertibile.
In conclusione, l’appello va respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, in favore di ciascuna delle due parti appellate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese del presente grado, che liquida, in favore di ciascuna delle parti appellate nell’importo complessivo di Euro 4.400,00 (quattromilaquattrocento/00), oltre accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 marzo 2018 con l’intervento dei magistrati:
Francesco Caringella – Presidente
Fabio Franconiero – Consigliere
Raffaele Prosperi – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere
Giuseppina Luciana Barreca – Consigliere, Estensore

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