Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 14 marzo 2018, n. 1616. Il principio di legalità dell’azione amministrativa

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[…]

– nemmeno può essere condiviso quanto dedotto a proposito del preteso difetto motivazionale, per avere l’amministrazione “prorogato indistintamente l’efficacia di tutto il piano senza esaminare lo stato di fatto delle singole aree o delle singole UMI”, in quanto l’atto di proroga non richiede di essere accompagnato da un particolare compendio motivazionale, essendo espressione di una facoltà avente preciso fondamento legale (art. 20, comma 11, della legge regionale 23 aprile 2004 n. 11), di guisa che trova adeguata giustificazione nella formale constatazione “che il Piano di Recupero non è stato ancora attuato in tutte le sue parti”;

– il parere dell’Amministrazione provinciale, siccome del tutto estraneo al paradigma del procedimento di approvazione della variante e di proroga del piano di recupero, non costituisce un contributo consultivo utile ai fini della relativa deliberazione;

– questo Consiglio ha infatti affermato che “Il principio di legalità dell’azione amministrativa, di rilevanza costituzionale (artt. 1, 23, 97 e 113 Cost.), impone che sia la legge a individuare, anche se indirettamente, lo scopo pubblico da perseguire e i presupposti essenziali, di ordine procedimentale e sostanziale, per l’esercizio in concreto dell’attività amministrativa” (cfr. sez. VI, 24 maggio 2016, n. 2182; sez. V, 31 marzo 2017, n. 1499; sez. IV, 7 luglio 2016, n. 3013; sez. IV, 14 gennaio 2016, n. 83);

– aliis verbis, il principio di legalità che ispira l’azione amministrativa involge non solo il potere e gli atti che ne costituiscono espressione, ma anche quelli che appartengono al novero del relativo iter procedimentale, costituendo il procedimento la forma della funzione.

10.2. Infondato è il rilievo sollevato dagli appellanti nella parte in cui si valorizza la circostanza che la concessione edilizia del 2000 “subordinava il rilascio dei certificati di abitabilità/agibilità solo alla approvazione da parte del Comune dello schema di convenzione e non alla sua sottoscrizione da parte dei destinatari della concessione” (cfr. pagina 9 del ricorso in appello). Conviene sul punto riportare testualmente il tenore di detto schema di convenzione che così recita: “concedere in uso al Comune di (omissis) le aree destinate al progetto di variante a opere di urbanizzazione, per la parte ricadente nella rispettiva proprietà, così come qui di seguito specificato con riferimento al Comune di (omissis) N.C.E.U. foglio (omissis) porzione del mappale n. (omissis) e C.T. foglio (omissis) porzione del mapp. (omissis) di complessivi mq circa, contraddistinti mediante colorazione in verde nella tavola n. 2 del progetto di variante che, sottoscritta dalle parti, fa parte integrante di questa convenzione come allegato A”. Da tale esatta formula si evince infatti che detta clausola consacra, in maniera inequivoca e ineludibile, l’obbligo dei soggetti attuatori del piano di cedere le aree a destinazione pubblica al Comune, obbligo quindi inscindibilmente connesso al rilascio del relativo titolo edilizio. Di tale necessaria correlazione ha dato atto l’amministrazione comunale nel predisporre la concessione edilizia prot. n. 2940 del 1° agosto 2000, sia introducendo l’espressa indicazione che “prima del rilascio del certificato di abitabilità/agibilità, dovrà essere approvata dal Consiglio Comunale lo schema di convenzione per la cessione delle aree pubbliche”, sia precisando che “Viene adottata questa procedura in quanto al momento non è ancora possibile definire la qualità dei materiali da porre in opera dato che la progettazione della Piazza non è ancora conclusa”. La necessità di provvedere a tale sottoscrizione, ribadita dal Comune con la nota del 29 ottobre 2002, prot. n. 4820 di rigetto all’istanza di variante del titolo abilitativo, non è quindi contraddetta dal fatto che la concessione edilizia sia stata rilasciata a prescindere dalla sottoscrizione della convenzione avendo l’amministrazione giustificato il rinvio della stessa per la rilevata impossibilità di predisporne il testo e comunque condizionando il rilascio del certificato preordinato all’uso dell’immobile all’approvazione dello schema di convenzione. Da tanto si evince che ab initio gli appellanti, attraverso l’adozione di atti ancora una volta rimasti inoppugnati, sono stati edotti dell’obbligo di cessione delle aree, come detto, conforme alla disciplina urbanistica localmente vigente anche se è stata data la possibilità di dare corso all’attività edilizia prima della effettiva sottoscrizione dell’atto paritetico.

11. La connessa domanda risarcitoria, peraltro soltanto genericamente riproposta (pagina 24 dell’appello), non può che essere disattesa per le medesime ragioni su esposte.

12. In conclusione l’appello è infondato e deve essere respinto.

13. Le spese del presente grado di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55 e dell’art. 26, comma 1, c.p.a., ricorrendone i presupposti applicativi, anche in relazione ai profili di sinteticità e chiarezza, secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sostanzialmente recepita, sul punto in esame, dalla novella recata dal decreto-legge n. 90 del 2014 all’art. 26 c.p.a. [cfr. sez. V, 9 luglio 2015, n. 3462; sez. V, 21 novembre 2014, n. 5757; sez. V, 11 giugno 2013, n. 3210; sez. V, 26 marzo 2012, n. 1733; sez. V, 31 maggio 2011, n. 3252, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della misura indennitaria conformemente, peraltro, ai principi elaborati dalla Corte di cassazione (cfr. da ultimo sez. VI, 2 novembre 2016; sez. VI, 12 maggio 2017, n. 11939)].

13. La condanna degli appellanti, ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p.a. rileva, infine, anche agli effetti di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) e d), della legge 24 marzo 2001, nr. 89, come da ultimo modificato dalla legge 28 dicembre 2015, nr. 208.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso (n. r.g. 4172/2011), come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna in solido gli appellanti alla rifusione, in favore del Comune di (omissis), delle spese del giudizio che liquida in euro 10.000,00 (diecimila/00), anche ai sensi dell’art. 26, comma 1 c.p.a., oltre agli accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e rimborso spese generali al 15%).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 febbraio 2018 con l’intervento dei magistrati:

Vito Poli – Presidente

Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere

Luca Lamberti – Consigliere

Daniela Di Carlo – Consigliere

Giovanni Sabbato – Consigliere, Estensore

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