Non ricorre connessione oggettiva tra cause ove l’unico denominatore comune, oltre all’essere state, le cause, decise alla medesima udienza, è l’analogia di argomentazioni a sostegno delle motivazioni delle decisioni.

Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 13 aprile 2018, n. 2215.

Non ricorre connessione oggettiva tra cause ove l’unico denominatore comune, oltre all’essere state, le cause, decise alla medesima udienza, è l’analogia di argomentazioni a sostegno delle motivazioni delle decisioni.

Sentenza 13 aprile 2018, n. 2215
Data udienza 8 febbraio 2018

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 4290 del 2013, proposto dall’avvocato Sa. St. in proprio, rappresentato e difeso da sé medesimo, con domicilio eletto presso l’Agenzia Om. Se. in Roma, via (…);
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Giustizia, Consiglio di Stato – Segretariato Generale, Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa – Presidente del Tar Sardegna, Segretario Generale del Tar Sardegna, non costituiti in giudizio;
per la revocazione delle seguenti sentenze del Consiglio di Stato, Sezione IV:
1) sentenza n. 1974/2012; 2) sentenza n. 1975/2012; 3) sentenza n. 1976/2012; 4) sentenza n. 1977/2012; 5) sentenza n. 1981/2012; 6) sentenza n. 1982/2012; 7) sentenza n. 1984/2012; 8) sentenza n. 1989/2012, rese tra le parti.
Visti il ricorso in revocazione e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2018 il consigliere Daniela Di Carlo e uditi per il ricorrente l’avvocato St.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. L’avvocato Sa. St., in proprio, ha proposto ricorso ai sensi degli artt. 106 del c.p.a. e 111 della Costituzione per ottenere la revocazione di otto sentenze rese da questo Consiglio di Stato, e segnatamente: 1) sentenza n. 1974/2012; 2) sentenza n. 1975/2012; 3) sentenza n. 1976/2012; 4) sentenza n. 1977/2012; 5) sentenza n. 1981/2012; 6) sentenza n. 1982/2012; 7) sentenza n. 1984/2012; 8) sentenza n. 1989/2012.
2. A sostegno delle proprie pretese ha dedotto i seguenti vizi:
a) la circostanza che l’istanza di ricusazione da lui proposta in tutti i giudizi esitati con le anzidette pronunce sia stata decisa dal medesimo Collegio, con il concorso di tutti i componenti singolarmente ricusati;
b) la circostanza che il Collegio abbia, anche, denegato di rimettere gli atti al Presidente del Consiglio di Stato (o al Presidente di Sezione) per la declaratoria della perenzione dei relativi giudizi, malgrado la richiesta del ricorrente.
2.1. A suo dire, in relazione alla prima circostanza, l’errore revocatorio di cui all’art. 395, n. 4 c.p.c., sarebbe consistito nell’avere, il Collegio, completamento travisato il contenuto dispositivo della norma contenuta nell’art. 18 del c.p.a., a mente della quale “Proposta la ricusazione, il collegio investito della controversia può disporre la prosecuzione del giudizio, se ad un sommario esame ritiene l’istanza inammissibile o manifestamente infondata” (comma 4), mentre, di converso, giammai potrebbe decidere sull’istanza in via definitiva: “In ogni caso la decisione definitiva sull’istanza è adottata, entro trenta giorni dalla sua proposizione, dal collegio previa sostituzione del magistrato ricusato, che deve essere sentito” (comma 5).
2.2. In relazione, invece, alla seconda circostanza, l’errore revocatorio – a suo dire – sarebbe consistito nell’avere, il Collegio, del tutto travisato i fatti di causa e il contenuto dispositivo della norma di cui all’art. 1, All. 3 del c.p.a., ritenendo la stessa inapplicabile al giudizio esitato nella sentenza n. 1974/2012, a motivo della (ritenuta) manifestazione di interesse alla decisione da parte del ricorrente, e, rispetto agli altri sette procedimenti, definiti con le residue sette sentenze, a motivo della specificità del rito in materia di accesso ai documenti amministrativi, nel quale è prevista la fissazione d’ufficio dell’udienza di trattazione ai sensi dell’art. 25, comma 5, legge n. 241/1990. Sostiene, in particolare, il ricorrente:
a) di non avere mai manifestato interesse alla decisione di alcuna delle anzidette cause, bensì quello contrario alla decisione delle medesime;
b) l’erroneità della ritenuta inapplicabilità dell’istituto della perenzione ai sette giudizi in materia di accesso agli atti;
c) in ogni caso, la devoluzione alla competenza esclusiva del Presidente del Consiglio di Stato o del Presidente di Sezione a pronunciarsi in argomento, non spettando tale potere al Collegio investito della decisione della causa.
3. Il ricorrente ha, inoltre, rappresentato che:
a) per la trattazione dei singoli giudizi veniva fissata l’udienza di discussione per il giorno 15 novembre 2011;
b) il ricorso per la ricusazione di tutti i componenti del Collegio, singolarmente considerati, veniva ritualmente presentato in data 9 novembre 2011;
c) la trattazione dell’anzidetta istanza e delle cause veniva rinviata all’udienza del 21 febbraio 2012 per impedimento fisico del ricorrente a recarsi a Roma;
d) in vista di tale udienza il ricorrente ribadiva le ragioni poste a sostegno dell’istanza di ricusazione e la necessità della rimessione degli atti al Presidente del Consiglio di Stato o al Presidente di Sezione per la declaratoria della perenzione;
e) l’intero Collegio decideva le cause direttamente, malgrado la ricusazione dei singoli componenti, rigettando i ricorsi nel merito.
4. Nessuno si è costituito per le parti resistenti.
5. Il ricorrente ha ulteriormente insistito sulle proprie tesi difensive e formulato svariate istanze al Collegio, mediante il deposito di memorie nelle date del 3 e 4 gennaio 2018 e del 5 e 8 febbraio 2018.
6. Il ricorrente, in particolare, con istanza depositata il 5 febbraio 2018, ha formulato plurime richieste:
a) istanza di rinvio a nuovo ruolo o a data fissa per potere proporre querela di falso ai sensi dell’art. 77, comma 1, c.p.a., in rapporto all’art. 221 c.p.c., in relazione alla circostanza che il Collegio ha attribuito un contenuto non vero alle norme del codice di procedura civile e al codice del processo amministrativo per quanto concerne l’individuazione dell’organo deputato a decidere il merito delle ricusazioni, attribuendosi così, di conseguenza, un potere non previsto – e, anzi, escluso – dalla legge espressamente;
b) istanza di rinvio a nuovo ruolo perché presso la Corte di Appello di Roma pende la causa n. 1971/2015, la cui udienza di discussione è fissata al giorno 22 maggio 2019, concernente l’azione di nullità delle sentenze oggetto dell’odierna revocazione, in quanto adottate da giudici carenti di legittimazione a pronunciarsi, giacché ricusati;
c) istanza affinché questo Collegio segnali alla Procura della Repubblica di Roma, ai sensi degli artt. 361 c.p.c. e 331 c.p.p., l’operato dei giudici autori delle pronunce per cui oggi è revocazione;
d) istanza di rinvio a nuovo ruolo al fine di consentire all’istante medesimo di segnalare la suddetta questione alla Procura della Repubblica di Roma;
e) istanza di rimessione degli atti al Presidente del Consiglio di Stato per l’assegnazione di tutti i ricorsi alla Sezione Quinta del Consiglio di Stato, tabellarmente competente e presso la quale pende altro suo ricorso, in forza del decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 dicembre 2016, n. 164 (a valere per l’anno 2017) e confermato dal successivo decreto 20 dicembre 2017 (a valere per l’anno 2018).
7. All’udienza dell’8 febbraio 2018, previa verbalizzazione dell’avviso ai sensi dell’art. 73, comma 3 c.p.a. in ordine alla questione – rilevabile ex officio – di eventuale inammissibilità del ricorso, giacché proposto in via cumulativa avverso plurime sentenze, la causa è stata discussa e trattenuta dal Collegio in decisione.
8. In via preliminare, il Collegio deve pronunciarsi sulle plurime istanze contenute nella richiamata memoria.
8.1. La prima istanza, volta al rinvio della discussione al fine di consentire all’interessato di potere proporre la querela di falso in relazione alla circostanza che il Collegio avrebbe – a suo dire – attribuito un contenuto non vero alle norme del codice di procedura civile e al codice del processo amministrativo per quanto concerne l’individuazione dell’organo deputato a decidere il merito delle ricusazioni, va disattesa.
L’oggetto dell’odierno giudizio concerne la domanda di revocazione, per errore di fatto, di otto pronunce rese dal Consiglio di Stato.
In disparte il problema della concreta esperibilità del mezzo della querela di falso avverso dei provvedimenti giurisdizionali al fine di contestare l’interpretazione o l’applicazione che il Collegio decidente abbia fatto di determinate norme di legge (nella specie, le norme regolanti il procedimento di decisione sull’istanza di ricusazione), il profilo è assolutamente irrilevante ai fini dell’odierna materia del contendere, ove la questione è tutta incentrata sulla (pretesa) dimostrazione dell’error facti, nei limiti e alle condizioni consentite dall’art. 395, comma 1, n. 4 del c.p.c..
L’eventuale dimostrazione della falsità della sentenza per cattiva interpretazione o applicazione delle norme di legge (sempre, ovviamente, sul presupposto che ciò consentisse l’ordinamento, mediante l’invocato strumento di tutela, atteso il principio di tipicità dei mezzi di impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali per denunciare eventuali errores in procedendo et in iudicando) nulla aggiungerebbe e nulla toglierebbe, infatti, rispetto al perimetro dell’odierna decisione, circoscritto alla mera evidenza, ictu oculi rilevabile dagli atti del giudizio, della mancata esatta percezione di elementi fattuali.
8.2. La seconda istanza di rinvio muove, invece, dal presupposto di avere – l’odierno ricorrente, azionato dinanzi la Corte di Appello di Roma l’azione di nullità avverso le sentenze oggetto dell’odierna revocazione.
Anche la detta istanza va disattesa, non sussistendo ragioni di pregiudizialità logico-giuridica tra le due azioni, che restano tra loro distinte e autonome.
8.3. Pure la terza e la quarta istanza (volte a segnalare gli accadimenti di causa alla competente Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, vuoi ad opera di questo Collegio, vuoi ad opera del medesimo ricorrente) non incontrano migliore favore.
Allo stato, infatti, salva la dimostrazione del contrario, non si ravvisano estremi di reato nel comportamento tenuto dal Collegio che ha pronunciato le sentenze di cui è domandata la revocazione, sicché rientra nella libera facoltà del ricorrente, secondo il principio di autoresponsabilità, agire per la migliore tutela possibile dei propri diritti e interessi, nei limiti, alle condizioni e secondo gli strumenti predisposti dall’ordinamento. Tra cui il presente, della cui sola decisione questo Collegio si deve fare carico.
In ogni caso, e a tacer d’altro, ben può il ricorrente determinarsi a compiere ciò in ogni momento. Anzi – per vero – egli avrebbe potuto farlo fin dalla data della pubblicazione delle sentenze (risalenti al 2012), senza dovere necessariamente attendere l’odierna discussione, posta a presidio della sollecita definizione di questo specifico procedimento, che nulla ha a che vedere con eventuali procedimenti penali appartenenti alla giurisdizione di diversa autorità competente.
8.4. Con l’ultima istanza di rinvio, il ricorrente auspica la trattazione del presente procedimento unitamente a quello (a quanto è dato sapere, diverso e distinto) pendente presso la Sezione Quinta di questo Consiglio di Stato, sul presupposto che le due controversie – comunque – lo riguarderebbero personalmente.
L’istanza va disattesa almeno per tre ordini di ragioni:
a) il decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 22 dicembre 2016, n. 164 (e quello successivo del 20 dicembre 2017), sul riparto delle controversie tra Sezioni, ha un ambito oggettivo di efficacia riguardante le controversie successivamente instaurate. Lo stesso ricorrente, del resto, ha manifestato chiaramente di conoscere esattamente la circostanza, confermando egli stesso che i detti decreti si applicano a valere per gli anni 2017 e 2018;
b) l’unica ragione che consente lo spostamento della trattazione degli affari tra le Sezioni, in deroga alla ripartizione tabellare, riposa sulla sussistenza di ragioni di connessione tra le cause pendenti, ai sensi dell’art. 70 c.p.a.. Circostanza, quest’ultima, che è rimasta, allo stato, del tutto oscura, sia quanto al profilo soggettivo che a quello oggettivo, non essendo dato sapere, con precisione, tra quali parti e su quale oggetto penda la causa presso altra Sezione e, soprattutto, quali siano i profili di connessione con la presente (anzi, con le presenti, essendo state impugnate col medesimo ricorso ben otto pronunce);
c) l’istante infine – a quanto è dato conoscere – non ha proposto azione avverso gli anzidetti decreti, né ha lamentato in alcun modo la lesione diretta della propria sfera giuridica, sicché la ripartizione tabellare deve ritenersi – oramai – inoppugnabile.
9. Ancora in via preliminare, va scrutinata la questione, rilevabile ex officio, concernente l’eventuale inammissibilità del ricorso per revocazione, a motivo del fatto che, mediante un’unica impugnazione, sono state gravate plurime sentenze emesse in distinti e separati giudizi, tra soggetti, anch’essi, non sempre coincidenti.
9.1. Diviene dunque dirimente, nel caso all’esame, appurare se ricorra un’ipotesi legalmente prevista di impugnazione cumulativa, ovvero sussistano le condizioni per ritenere esistente, tra le diverse controversie, un rapporto giuridico sostanziale o processuale unitario.
10. La questione è stata oggetto di formale verbalizzazione, all’udienza di discussione, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a., e l’odierno istante ha insistito sull’infondatezza del rilievo.
11. Va premesso, sul piano generale, che la possibilità di impugnare per revocazione plurime pronunce rese tra parti diverse (o, comunque, non sempre coincidenti), nell’ambito di distinti e separati giudizi, rientra nella più generale problematica delle impugnazioni cumulative.
12. Per quanto consta, non risultano pronunce di questo Consesso in relazione al caso specifico del ricorso per revocazione, mentre più copiosa è stata la giurisprudenza in relazione alla fattispecie dell’appello cumulativo. I principi di diritto ivi elaborati, tuttavia, devono ritenersi pienamente applicabili anche al caso all’esame, in ragione della analoga natura impugnatoria (ordinaria) dei mezzi.
13. L’indirizzo giurisprudenziale è costante nel ritenere che l’inammissibilità dell’appello cumulativamente proposto avverso più sentenze rese a conclusione di distinti giudizi di primo grado, per plurime ragioni.
In particolare, Consiglio di Stato, sez. V, 29 dicembre 2009 n. 8832, richiama l’attenzione sulla devoluzione, ex lege, al giudice amministrativo di secondo grado, del potere di disporre la riunione degli appelli contro più sentenze rese a conclusione di distinti giudizio di primo grado, in funzione dell’economicità e della speditezza dei giudizi, nonché al fine di prevenire la possibilità di contrasto di giudicati.
Consiglio di Stato, sez. V, 25 febbraio 2009 n. 1129 sottolinea, inoltre, che, laddove fosse rimesso all’iniziativa dell’appellante l’esercizio di un tale potere, si rischierebbe di arrecare grave vulnus al governo dei giudizi (potere che l’ordinamento processuale attribuisce unicamente al giudice), realizzandosi le premesse per la creazione di situazioni processuali confuse o inestricabili. In termini sostanzialmente analoghi, ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 23 novembre 2007 n. 6004; Consiglio di Stato, sez. VI, 31 gennaio 2006, n. 333; Consiglio di Stato, sez. V, 22 dicembre 2005 n. 7338.
Per l’ulteriore specificazione, secondo cui a tale esito deve pervenirsi anche nell’ipotesi in cui le diverse sentenze appellate presentino un ana contenuto e siano pronunciate nei confronti della stessa amministrazione resistente, si rivelano decisivi i precedenti rappresentati da: Consiglio di Stato, sez. IV, 10 agosto 2004 n. 5494; Consiglio di Stato, sez. VI, 26 maggio 1999 n. 685.
14. Il Collegio condivide appieno questo indirizzo, assolutamente coerente rispetto al dato normativo, sia nel suo significato testuale, sia in quello sistematico.
L’ordinamento processuale impone, infatti, il rispetto del principio di concentrazione delle impugnazioni limitatamente alla fattispecie delle impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 96, comma 1, c.p.a.). Dopo la prima impugnazione, le altre vanno proposte in via incidentale nel medesimo giudizio (art. 96, comma 2, c.p.a.; art. 333 c.p.c.). Si ammette, peraltro, similmente al processo civile, l’impugnazione incidentale subordinata o tardiva (art. 334 c.p.c.). Si consente, inoltre, secondo i principi generali, l’appello cumulativo di sentenze pronunciate tra le stesse parti nello stesso procedimento, ancorché in diverse fasi, come nel caso di sentenza non definitiva oggetto di riserva di impugnazione e di successiva sentenza definitiva. La ratio legis, infatti, è la medesima ed è volta ad evitare che sentenze concernenti il medesimo rapporto processuale vengano decise separatamente sol perché emesse in fasi diverse o su oggetti o domande diverse perché mature per la decisione in momenti diversi.
Anche a volere affrontare la questione su un piano più ampio, di portata sistematica, non si può fare a meno di osservare che solo ragioni di economia processuale e di concentrazione delle tutele consentono – in deroga al paradigma legale del ricorso amministrativo secondo cui esso deve essere diretto contro un solo provvedimento e proposto da un solo soggetto ricorrente (cfr. negli esatti termini Cons. Stato, Ad. plen., n. 5 del 2015) – di dedurre plurime domande anche avverso atti diversi. Ciò, tuttavia, in base al tenore testuale della norma, alla condizione che tra i detti atti sussista un vincolo di connessione (procedimentale o funzionale) tale da giustificare un unico processo o, in ipotesi di ricorsi separati, la riunione degli stessi da parte del giudice (Cons. Stato, Sez. IV, 4277 del 2014).
È stato correttamente osservato che “A differenza che nel processo civile, in cui il cumulo delle domande può essere giustificato tanto da una connessione oggettiva, quanto da una connessione soggettiva, nel processo amministrativo impugnatorio di legittimità assume rilevanza soltanto la prima forma di connessione. La connessione soggettiva, al contrario, in base al ricordato orientamento giurisprudenziale, non consente l’impugnativa con un unico ricorso di provvedimenti diversi, a meno che sussista anche un collegamento oggettivo tra di essi. In altri termini, nel giudizio amministrativo occorre che le domande siano o contemporaneamente connesse dal punto di vista oggettivo e soggettivo, oppure semplicemente connesse dal punto di vista oggettivo” (Cons. Stato, Sez. V, n. 6537 del 2011). La pronuncia dà, altresì, conto della ratio iuris su cui si fonda il descritto sistema processuale, ovvero:
a) l’esigenza di evitare la confusione tra controversie diverse con conseguente aggravio dei tempi del processo;
b) la necessità di impedire l’elusione delle disposizioni fiscali, atteso che con il ricorso cumulativo il ricorrente chiede più pronunce giurisdizionali provvedendo, però, una sola volta al pagamento dei relativi tributi.
c) l’esigenza di evitare l’inutile aggravio dei tempi del giudizio e di salvaguardare il potere latamente discrezionale del giudice di disporre la riunione dei processi ex art. 70 c.p.a.
Muovendosi all’interno di queste coordinate, la connessione oggettiva è stata prudentemente ravvisata dalla giurisprudenza (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 482 del 2017; Sez. V, n. 202 del 2011, Sez. IV, n. 8251 del 2010; Sez. VI, n. 1564 del 2010):
a) quando fra gli atti impugnati esiste una connessione di tipo procedimentale o infraprocedimentale, ossia un collegamento tra atti del medesimo procedimento o di procedimenti collegati, avvinti da un nesso di presupposizione giuridica o di carattere logico, in quanto i diversi atti incidono sulla medesima vicenda;
b) se fra gli atti impugnati esiste una connessione per reiterazione provvedimentale, che si verifica quando l’amministrazione sostituisce l’atto impugnato, su cui pende il ricorso, con un nuovo provvedimento, anch’esso non satisfattivo per il destinatario (ad es. l’atto di conferma con diversa motivazione);
c) quando esiste connessione non tra gli atti impugnati, perché si tratta di diversi procedimenti, ma connessione con l’oggetto del giudizio; è questa, l’ultima frontiera aperta dalla legge n. 205/2000, tendente ad una concezione del processo basata sulla valorizzazione del giudizio sul rapporto anzi che sull’atto. In tal caso è ammessa la proposizione di motivi aggiunti, anche non connessi agli atti precedentemente impugnati, purché connessi all’oggetto del giudizio già instaurato, ossia al medesimo bene della vita cui aspira il ricorrente.
Sul piano sistematico, per esigenze di completezza, va – infine – dato conto dell’apertura manifestata dalla giurisprudenza civile nei confronti dell’appello cumulativo.
Anche in questo caso non si registrano pronunce relative alla fattispecie specifica della revocazione, ma la ratio legis sottesa è la medesima, sicché i relativi principi di diritto elaborati possono trovare pacifica applicazione.
Le aperture sono state manifestate:
a) in relazione al contenzioso tributario: si è, in particolare, ritenuto ammissibile l’appello proposto con un unico atto avverso più sentenze relative a distinti procedimenti, quando le pronunce impugnate siano state rese tra le stesse parti e abbiano trattato identiche questioni (Cassazione sez. trib. 3 luglio 2003, n. 10499). Le specificità del caso sottoposto della Corte, tuttavia, non sono assolutamente paragonabili rispetto alla fattispecie al nostro esame, ove non si registra né una perfetta coincidenza soggettiva tra parti del giudizio, né la sussistenza di circostanze che avrebbero consentito, già dal primo grado, la proposizione di un unico ricorso cumulativo avverso i distinti atti impositivi concernenti diverse annualità del medesimo presupposto di imposta.
b) In relazione all’unico appello relativo a sentenze emesse in procedimenti distinti ma connessi. Si trattava, nel caso specifico, dell’unico atto, denominato opposizione-appello, proposto dinanzi al Tribunale, e segnatamente: dell’appello avverso la sentenza resa dal pretore a seguito di opposizione ai sensi dell’art. 669 septies c.p.c. avverso la pronuncia sulle spese recata dal provvedimento negativo sulla richiesta cautela; e dell’opposizione, ai sensi del citato art. 669 septies, avverso l’ordinanza collegiale resa dal Tribunale, tra le medesime parti, in sede di reclamo, ex art. 669 terdecies c.p.c., contro l’ordinanza pretorile di rigetto della misura cautelare (Cassazione civile, sez. II, 7 luglio 2004, n. 12461). Le specificità del caso deciso, all’evidenza, travalicano la necessità – decisiva nel caso di specie – di rinvenire a livello di principio generale di sistema una regola certa che consenta o autorizzi in favore delle parti private ciò che, normativamente, è rimesso all’autorità del giudice stabilire, sicché deve – di necessità – tornare a farsi applicazione delle coordinate esegetiche finora esposte. Nel caso che ci occupa, a tacer d’altro, oltre a non ricorrere un tale nesso di presupposizione, neppure si configura l’identità soggettiva tra le parti del giudizio, se non in limitate ipotesi.
c) In casi eccezionali e patologici di bis in idem: ciò, tuttavia, solo ove le plurime sentenze siano caratterizzate da effetti decisori atti a creare conflitto di diritti tra le medesime parti (ipotesi, questa, come più volte detto non ricorrente nel caso di specie), ma anche in riferimento allo stesso petitum e alla medesima causa petendi. Anche quest’ultimo presupposto non ricorre nel caso all’esame, ove l’unico denominatore comune (oltre all’essere state, le cause, decise alla medesima udienza), è l’analogia di argomentazioni a sostegno delle motivazioni delle decisioni.
Tanto basterebbe, di per sé, per escludere che da casi specifici di tale e tanta portata possa soltanto pensarsi di ricavare principi generali di sistema (non solo rispetto al giudizio amministrativo, ma a principiare da quello civile in seno al quale le dette pronunce sono state rese), atti a legittimare mezzi di impugnazione (o forme di essi) non contemplati dal legislatore.
Rispetto al processo amministrativo, in ogni caso, una tale operazione dovrebbe essere condotta cum grano salis, trattandosi di un sistema di giustizia autonomo e separato (come ricordato, anche da ultimo, dalla Corte Costituzionale con la sentenza 18 gennaio 2018, n. 6), caratterizzato da specificità che non consentono una sua equiparazione sic et simpliciter al processo civile, se non nei modi consentiti dall’ordinamento processuale medesimo. Al lume dell’art. 39 c.p.a, infatti, per quanto non disciplinato dal codice medesimo, le disposizioni del codice di procedura civile si applicano in quanto compatibili o espressione di principi generali.
Inutile – quasi – osservare, che la fattispecie delle impugnazioni cumulative non è prevista nemmeno dal sistema processualcivilistico e che dalle richiamate pronunce della giurisprudenza civile, nate da casi caratterizzati da una fortissima specificità, non sono di certo ricavabili principi generali di sistema: già per il sistema civile, a maggior ragione per quello amministrativo, attesa la specificità che lo contraddistingue.
In ogni caso, e a tacer d’altro, nemmeno il ricorrente si è fatto carico di esporre le ragioni sostanziali per le quali dovrebbe ammettersi l’impugnazione cumulativa, essendosi – lo stesso – limitato ad allegare la mera circostanza dell’analogia delle argomentazioni poste a sostegno del rigetto dei propri ricorsi, senza null’altro specificare quanto a sussistenza di oggettive e riscontrabili ragioni di connessione soggettiva e oggettiva.
Allo stato, pertanto, in assenza di elementi concreti, fattuali e oggettivamente riscontrabili, che sarebbe stato onere del ricorrente provare, l’unico motivo di comunanza oggettivamente apprezzabile, da parte del Collegio, è l’essere state – le pronunce impugnate – decise tutte all’unica udienza del 21 febbraio 2012. Elemento, questo, che a tutto voler concedere, non è assolutamente significativo per sostenere la cumulatività dell’impugnazione.
Per tutte le considerazioni esposte va, pertanto, dichiarata l’inammissibilità del ricorso.
Non luogo a provvedere in ordine alla regolazione delle spese di lite, in mancanza della costituzione in giudizio delle parti intimate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Non luogo a provvedere in ordine alla regolazione delle spese di lite per le ragioni di cui in parte motiva.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 febbraio 2018 con l’intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi – Presidente
Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere
Luca Lamberti – Consigliere
Daniela Di Carlo – Consigliere, Estensore
Alessandro Verrico – Consigliere

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