Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 7 giugno 2017, n. 2752

In considerazione della sua specialità, in tema di sanzioni disciplinari militari, non trova applicazione la disciplina generale di cui all’art. 21 bis, L. n. 241/1990, dovendosi pertanto escludere il carattere ricettizio degli atti che incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario, sicché il termine perentorio per la conclusione del procedimento coincide con l’adozione dell’atto, e non con la sua comunicazione

Consiglio di Stato

sezione IV

sentenza 7 giugno 2017, n. 2752

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Quarta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7643 del 2016, proposto dal Ministero dell’Interno, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso per legge dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla (…), è domiciliato;

contro

-Omissis-, rappresentato e difeso dall’avvocato Em. Ma., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per il LAZIO -Sede di ROMA- SEZIONE I TER n. 08359/2016, resa tra le parti, concernente sanzione della destituzione.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 maggio 2017 il consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti l’avvocato dello Stato No., e l’avvocato E. Ma.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe impugnata n. 8359/2016 il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio -Sede di Roma – ha accolto il ricorso, corredato da motivi aggiunti, proposto dalla odierna parte appellata -OMISSIS-teso ad ottenere l’annullamento (con il ricorso introduttivo) del decreto del Ministero dell’Interno n. 333-CI/Sez.2^/11879 F.S. del 6.6.2014, notificato il 19.6.2014, con il quale l’Amministrazione, a seguito della sentenza T.a.r. per il Lazio sez. I ter n. 4739/14, di annullamento della sanzione della destituzione inflittagli, aveva disposto l’annullamento della destituzione medesima e stabilito la rinnovazione degli atti annullati del procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 119 d.P.R. n. 3/57 e (con il ricorso per motivi aggiunti) del decreto del Ministero dell’Interno – n. 333-CI/Sez.2^/11879 F.S. del 12.3.2015, notificato il 24.3.2015, con il quale gli era stata inflitta la sanzione della destituzione dal servizio, a decorrere dal 6.2.2002, nonché di tutti gli atti del procedimento disciplinare, ivi comprese la contestazione degli addebiti e la deliberazione del Consiglio Provinciale di Disciplina, in rinnovazione del procedimento.

1.1. L’odierno appellante aveva prospettato numerose censure di violazione di legge ed eccesso di potere sostenendo che l’azione amministrativa era viziata sotto il profilo sostanziale, e che, comunque, non erano stati rispettati i termini infraprocedimentali di riedizione del potere disciplinare.

1.2. Il Ministero dell’Interno si è costituito chiedendo la reiezione del ricorso.

2. Il T.a.r. ha innanzitutto ricostruito in fatto la vicenda, evidenziando che:

a) l’appellato, già dipendente del Ministero dell’Interno – Dipartimento di Pubblica Sicurezza, con la qualifica di ispettore della Polizia di Stato, era stato condannato penalmente per reati contemplati nella legge n. 97/2001 e la sentenza della Corte di Cassazione che aveva definitivamente chiuso la vicenda penale era stata resa il 22.4.2009;

b) egli era stato quindi dal decreto di destituzione dal servizio 333-CI/Sez.2^/14709 del 10.12.2009, allo stesso notificato il 15.12.2009, che era stato impugnato vittoriosamente innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio -Sede di Roma – Tribunale col ricorso n. 1835/2010;

c) con la sentenza n. 4739, depositata il 7.5.2014, infatti, detto decreto di destituzione era stato annullato per violazione dell’art. 20 del d.P.R. n. 737/1981.

2.1. Il T.a.r. ha poi rilevato che:

a) il decreto (impugnato con il ricorso introduttivo) con il quale era stato disposto l’annullamento della destituzione medesima del 10.12.2009 e stabilito la rinnovazione degli atti annullati del procedimento disciplinare era stato reso ai sensi dell’art. 119 del d.P.R. n. 3/1957; nella predetta sentenza n. 4739/2014 non v’era alcuna indicazione in ordine al rinnovo da parte dell’Amministrazione del procedimento disciplinare e correttamente la ripresa del procedimento era avvenuta dal primo atto illegittimo del procedimento precedente (dalla riunione del Consiglio di Disciplina del 9.11.20099);

b) purtuttavia, se l’azione amministrativa spiegata era quindi legittima nell’an (contrariamente a quanto principaliter dedotto dall’originario ricorrente) essa era illegittima nel quomodo, in quanto erano stati indebitamente superati i termini infraprocedimentali perentori di avvio del procedimento disciplinare “rinnovato” (trenta giorni, ex art. 119 del d.P.R. n. 3/1957), atteso che:

I) ai sensi della citata disposizione il nuovo procedimento doveva essere iniziato a partire dal primo degli atti annullati entro trenta giorni dalla data in cui sia pervenuta al Ministero la comunicazione della decisione giurisdizionale;

II) l’Amministrazione aveva avuto conoscenza della sentenza demolitoria del T.a.r. n. 4739/2014 il 13.5.2014 o, al più tardi, il 17.5.2014;

III) l’atto iniziale era stato emanato il 6.6.2014, ma era stato notificato solo il 19.6.2014, per cui, trattandosi di atto ricettizio, doveva farsi riferimento a tale ultima data;

IV) l’avvio del procedimento era quindi tardivo, in quanto violava il termine perentorio di trenta giorni, previsto dall’art. 119 del d.P.R. n. 3/1957.

2.2. Il T.a.r. ha poi irrobustito la motivazione demolitoria, esprimendo il convincimento per cui anche il termine complessivo di durata massima del procedimento disciplinare (pari a 270 giorni) non era stato rispettato: ciò perché, fermo restando che non dovevano rientrare nel computo i giorni impiegati nel primo procedimento disciplinare, in ogni caso detto termine di 270 giorni era stato superato, in quanto il provvedimento di destituzione era stato adottato solo il 12.3.2015.

3. L’amministrazione originaria resistente rimasta soccombente, ha impugnato con l’odierno ricorso in appello la suindicata decisione criticandola sotto ogni angolo prospettico e, dopo avere rivisitato le principali tappe del contenzioso infraprocedimentale e giurisdizionale di primo grado, ha dedotto che:

a) era errato attribuire natura ricettizia all’atto di avvio del procedimento di rinnovazione del giudizio disciplinare: la specialità del complesso di disposizioni su cui si fondava il c.d. “processo disciplinare” lo sottraeva alla disciplina generale di cui all’art. 21 bis, L. n. 241/1990;

b) ne conseguiva che -quanto al rispetto dei termini di 30 giorni per l’avvio del procedimento disciplinare- si doveva fare riferimento alla data di emissione del decreto e, quindi, al 6.6.2014 (a nulla rilevando la data di notifica dello stesso- il 19.6.2014): ne conseguiva che il termine non era stato superato in quanto l’Amministrazione aveva avuto conoscenza della sentenza demolitoria del T.a.r. n. 4739/2014 in data 13.5.2014 ovvero in data 17.5.2014;

c) anche il secondo caposaldo demolitorio era errato, in quanto:

I) posto che si trattava di una rinnovazione del procedimento disciplinare, non poteva applicarsi il termine di 270 giorni previsto dall’art. 9 della legge n. 19 del 1990;

II) detta fattispecie trovava applicazione soltanto laddove il procedimento disciplinare seguisse ad una sentenza irrevocabile di condanna;

III) nel caso di specie, trattandosi di una rinnovazione, doveva trovare applicazione la disciplina di cui all’art. 120 del d.P.R. n. 3 del 1957;

IV) in ogni caso, se anche si fosse voluto ritenere applicabile il termine di 270 giorni previsto dall’art. 9 della legge n. 19 del 1990, si doveva considerare che il procedimento disciplinare era rimasto sospeso per due mesi (dal 27 agosto al 27 ottobre 2014) a cagione della avvenuta presentazione da parte dell’odierno appellato di una istanza di ricusazione nei confronti dell’Organo disciplinare: sottraendo tali 62 giorni dal monte complessivo, si doveva concludere che il termine di 270 giorni non era stato superato, in quanto il procedimento aveva preso avvio il 6.6.2014 e si era concluso il 12.3.2015.

4. In data 22.10. 2016 parte appellata si è costituita depositando una articolata memoria nell’ambito della quale, dopo avere ripercorso l’andamento, anche infraprocedimentale, della vicenda e ricostruito le principali tappe del processo penale instaurato a carico dell’appellato (pagg. 1-8), ha chiesto la reiezione dell’appello evidenziando che:

a) l’atto che si sarebbe dovuto rinnovare riposava nella prima riunione del Consiglio di disciplina (questo atto, infatti, era quello annullato);

b) il “primo” procedimento disciplinare aveva avuto durata pari a 228 giorni: all’amministrazione appellante ne restavano soltanto 42 per concludere il procedimento.

Nella seconda parte della memoria (pagg. 24 e segg.) l’appellato ha riproposto i motivi del ricorso di primo grado assorbiti dal T.a.r.

6. All’adunanza camerale del 3 novembre 2016, fissata per la delibazione della domanda cautelare di sospensione della provvisoria esecutività della suindicata decisione, la Sezione, con la ordinanza n. 4954/2016, ha accolto il petitum cautelare alla stregua della considerazione per cui:” rilevato che, seppure nella sommarietà della delibazione cautelare, l’appello non appare sfornito di fumus, e prospetta delicate questioni da vagliare sollecitamente nella competente sede di merito; considerato altresì che, quanto al periculum, nel bilanciamento degli interessi le esigenze dell’Amministrazione a non immettere in servizio in via interinale un soggetto condannato penalmente sono da considerarsi senz’altro prevalenti; considerato che può sin d’ora essere fissata l’udienza pubblica di trattazione della causa nel merito per la data del 18 maggio 2017; “.

7. In data 15.4.2016 l’appellato ha depositato una ulteriore memoria, puntualizzando e ribadendo le proprie difese.

8. Alla odierna pubblica udienza del 18 maggio 2017 la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

L’appello è fondato e va accolto, nei sensi di cui alla motivazione che segue, con conseguente riforma della sentenza di primo grado e reiezione del ricorso di primo grado, con salvezza degli atti impugnati.

1.1. Preliminarmente il Collegio evidenzia che, a mente del combinato disposto degli artt. artt. 91, 92 e 101, co. 1, c.p.a., farà esclusivo riferimento ai mezzi di gravame posti a sostegno dei ricorsi in appello, senza tenere conto di ulteriori censure sviluppate nelle memorie difensive successivamente depositate, in quanto intempestive, violative del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e della natura puramente illustrativa delle comparse conclusionali (cfr. ex plurimis Cons. Stato Sez. V, n. 5865 del 2015).

1.2. Al fine di perimetrare il novero delle questioni esaminabili dal Collegio, si osserva che:

a) la impugnata decisione ha affermato al capo 3 che “correttamente la ripresa del procedimento disciplinare è avvenuta dal primo atto illegittimo del procedimento precedente, vale a dire dalla riunione del Consiglio di Disciplina del 9.11.2009”; ed al successivo capo 6.1. ha affermato che “si ritiene che non rientrino nel computo i giorni impiegati nel primo procedimento disciplinare.”;

b) l’appellato non ha impugnato con appello incidentale tali capi di sentenza a sé sfavorevoli, e da ciò discende che la tesi secondo cui “l’atto che si sarebbe dovuto rinnovare riposava nella prima riunione del Consiglio di disciplina” e tutti gli insistiti argomenti di cui alle pagg. 20-22 della memoria di costituzione depositata in data 22.10. 2016 e volti a riproporre la tesi per cui non dovesse iniziarsi ex novo a computare i 270 giorni di durata del procedimento disciplinare sono inammissibili in quanto irritualmente prospettati;

c) per altro verso, si osserva incidentalmente che tali argomenti critici erano del tutto infondati: la tesi dell’appellante non poggia sul alcun referente normativo e perviene ad una interpretatio abrogans dell’istituto della rinnovazione del procedimento disciplinare: laddove l’atto annullato fosse intervenuto nella fase terminale del primo procedimento disciplinare successivamente annullato, infatti, l’Amministrazione non avrebbe alcuna pratica possibilità di procedere al suo rinnovo, e tale conclusione, oltre a non essere prevista dalla legge, osta con elementari canoni ermeneutici fondati sulla logica e sulla ratio della disciplina della rinnovazione.

2. Ciò premesso, il primo motivo di appello è fondato, in quanto (in disparte la lunga e prolungata istruttoria che ha avuto luogo in primo grado per comprendere ed accertare la data di effettiva conoscenza della sentenza demolitoria del T.a.r. n. 4739, depositata il 7.5.2014) si osserva che:

a) il decreto con cui si dispose la rinnovazione del procedimento disciplinare è del 6.6.2014;

b) esso, quindi, interviene a meno di trenta giorni di distanza dalla pubblicazione della sentenza suddetta (che ovviamente non poteva essere conosciuta dall’Amministrazione prima che venisse ad esistenza);

c) il Collegio non intende decampare dal condivisibile principio giurisprudenziale (dal quale il T.a.r. si è invece immotivatamente discostato) secondo il quale, in considerazione della sua specialità, in tema di sanzioni disciplinari militari, non trova applicazione la disciplina generale di cui all’art. 21 bis, L. n. 241/1990, dovendosi pertanto escludere il carattere ricettizio degli atti che incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario, sicché il termine perentorio per la conclusione del procedimento coincide con l’adozione dell’atto, e non con la sua comunicazione;

d) tutte le considerazioni contenute nel primo motivo della memoria depositata dall’appellato in data 22.10. 2016 non smentiscono tale logico e coerente principio, per cui esse vanno disattese;

e) l’atto contenente l’annullamento della destituzione inflitta nel 2009 e di rinnovazione degli atti del pregresso procedimento disciplinare era necessario, quale che fosse il singolo atto annullato dal T.a.r., per cui tale critica (oltre ad essere inammissibile per le già esposte ragioni), non consente di comprendere il senso della tesi secondo la quale “l’atto che si sarebbe dovuto rinnovare riposava nella prima riunione del Consiglio di disciplina”: ed in ogni caso l’appellato non avrebbe interesse a dolersi della circostanza che l’Amministrazione abbia rinnovato atti precedenti quello annullato.

3. Anche il secondo motivo di appello è fondato, nei sensi di seguito indicati.

3.1. Innanzitutto si ritiene corretta la ricostruzione del T.a.r. secondo la quale il termine complessivo è quello di 270 giorni in quanto l’appellato è stato condannato per delitti rientranti nella sfera applicativa di cui alla legge n. 97/2001 (detto termine peraltro coincide con quello previsto ai sensi della legge n. 19/1990): le prospettazioni “estreme” dell’Amministrazione, secondo le quali non sarebbe ravvisabile alcun termine finale, ma soltanto il termine intermedio dell’omesso compimento di alcun atto di procedura nei 90 giorni (artt. 119 e 120 del dPR n. 3/1957) non sono in alcun modo accoglibili, secondo il canone di applicabilità della legge ” ratione temporis”.

3.1. La scarna motivazione del T.a.r.., è stata la seguente: “anche il termine complessivo di 270 giorni, comprensivo di quello per potervi dare inizio e del termine per concluderlo, non è stato rispettato. Si ritiene che non rientrino nel computo i giorni impiegati nel primo procedimento disciplinare. In ogni caso il suddetto termine di 270 giorni è stato superato, in quanto il provvedimento di destituzione è stato adottato solo il 12.3.2015.”.

3.2. Il Collegio non concorda con tale tesi.

3.2.1. Premesso che il computo della durata massima del procedimento disciplinare de quo, fissato in 270 giorni, integra -per le sopra chiarite ragioni – res iudicata, si osserva che:

a) il decreto di destituzione “nuovo” oggetto della odierna impugnazione venne emesso il 12.3.2015 e notificato il 24.3.2015;

b) la data “finale” cui fare riferimento, quindi, è quella del 12.3.2015 mentre la data iniziale (anche per ovvie ragioni di coerenza, con quanto si è prima rilevato) coincide con la emissione del decreto con cui si dispose la rinnovazione del procedimento disciplinare ed è quindi quella del 6.6.2014;
c) considerando quale termine iniziale la detta data del 6 giugno 2014, la data “finale” di scadenza dei 270 giorni complessivi di durata del procedimento disciplinare, dovrebbe essere fatta coincidere con il 3 marzo 2015;
d) senonché l’appellante amministrazione ha evidenziato che il procedimento disciplinare è rimasto sospeso per sessanta giorni, dal 27 agosto 2014 al 28 ottobre 2014 a cagione della istanza di ricusazione dei componenti della commissione di disciplina presentata dall’odierno appellato.
3.2.2. In ordine a detta circostanza osserva il Collegio che la sospensione del termine a cagione della avvenuta presentazione di una istanza di ricusazione integra principio generale dell’ordinamento, come ricavabile dall’ultimo comma dell’art. 53 del codice di procedura civile; e tale effetto deve necessariamente estendersi anche al procedimento disciplinare: argomentando diversamente, la perenzione automatica di quest’ultimo a cagione dello sforamento dei termini complessivi finali costituirebbe evento agevolmente perseguibile da qualsiasi incolpato, attraverso la presentazione di una pluralità di istanze di ricusazione, ovvero anche di una soltanto, ma nella fase terminale del procedimento.
3.2.3. L’appellato evidenzia in proposito che i termini di durata del procedimento si dilatarono, in quanto, a fronte della istanza di ricusazione del Presidente del Consiglio di Disciplina da esso proposta il 27 agosto 2014, il Ministero si determinò respingendo la richiesta (con decreto del 27 ottobre 2014) ed in quella stessa occasione annullò gli atti del procedimento di rinnovazione in quanto il Consiglio di disciplina era irregolarmente composto in quanto vi si rinveniva un solo rappresentante sindacale e non due come prescritto dalla vigente normativa.
La circostanza è del tutto priva di rilievo: il termine complessivo di 270 giorni è stato rispettato tenendo unicamente conto del periodo di sospensione che va dalla presentazione della istanza di ricusazione alla data della decisione sulla medesima: trattasi di sessanta giorni, che consentono di affermare che il procedimento avrebbe potuto chiudersi anche il 3 maggio 2015: il decreto venne emesso in data 12.3.2015, per cui nessuna violazione è ravvisabile (si veda: Consiglio di Stato, sez. IV, 17/10/2012, n. 5316 “la presentazione di illimitate istanze di ricusazione, ad ognuna delle quali dovrebbe conseguire la sospensione ipso iure del processo, impone un’interpretazione che impedisca un uso dei mezzi messi a disposizione dell’ordinamento per la realizzazione di risultati contrari a quelli voluti dal legislatore e ciò soprattutto quando tale interpretazione previene gli abusi, ma non danneggia la parte.”).
3.3. L’appello dell’Amministrazione va quindi accolto e la sentenza impugnata va riformata.
4. L’accoglimento dell’appello dell’Amministrazione non esaurisce il compito del Collegio, perché è doveroso e necessario esaminare i motivi del ricorso di primo grado assorbiti dal T.a.r. e riproposti tempestivamente (in data 22.10. 2016 con la memoria di costituzione nell’odierno grado di giudizio) da parte dell’appellato.
4.1. Ritiene il Collegio che nessuno di essi meriti positiva delibazione, in quanto:
a) per consolidata giurisprudenza (tra le tante, Consiglio di Stato, sez. VI, 16/04/2015, n. 1968) “l’Amministrazione dispone di un ampio potere discrezionale nell’apprezzare in via autonoma la rilevanza disciplinare dei fatti, di talché, una volta valutati gli elementi suddetti, l’accertamento della proporzionalità della sanzione all’illecito disciplinare contestato e la graduazione della sanzione stessa, risolvendosi in giudizi di merito da parte dell’Amministrazione, sfuggono al sindacato del giudice amministrativo, salvo che non si riveli una loro manifesta illogicità o la contraddittorietà.”;
b) i “precedenti di servizio” sono stati valutati, in quanto di essi era ben cosciente l’amministrazione procedente (la stessa, ovviamente, presso cui l’appellato prestava servizio): ma pregresse lodevoli condotte non possono certo militare per una attenuazione del giudizio di grave riprovevolezza sotteso alle condotte per le quali l’appellato è stato condannato in sede penale;
c) nel caso di specie non si rinviene nessun indizio di abnormità od irragionevolezza: le condotte corruttive contestate furono assai gravi e ripetute, e la valutazione di incompatibilità dell’appellato con i delicati compiti di sicurezza pubblica discendenti dal ruolo ricoperto appare priva da mende e pienamente condivisibile;
d) non v’è stata alcuna violazione del diritto di difesa: è appena il caso di sottolineare che la circostanza che in giudizio sia stato modificato il capo d’imputazione non rileva, in quanto ciò che rileva è la contestazione “oggettiva” relativa alle condotte commesse; l’appellato di ciò è stato reso edotto ben due volte, per cui la doglianza è infondata per tabulas;
e) anche l’articolazione della censura secondo cui l’appellato sarebbe stato costretto ad un “eccesso di difesa” non appare accoglibile: sono state sì riprodotte le contestazioni che inizialmente avevano caratterizzato la vicenda penale, ma la sanzione non è stata inflitta per reati dai quali l’appellato era stato assolto: la doglianza appare speciosa e non favorevolmente delibabile;
f) la motivazione del provvedimento gravato appare congrua e conferente con l’oggetto del giudizio: essa peraltro potrebbe anche ritrarsi per relationem in quanto, come si è ritenuto in giurisprudenza,il provvedimento disciplinare è adeguatamente motivato per relationem con richiamo all’iter di formazione della volontà e alle conclusioni del consiglio di disciplina nella relativa deliberazione; pertanto, non è necessario esternare anche le specifiche ragioni che hanno indotto l’autorità procedente ad aderire alla suddetta deliberazione qualora la stessa precisi nel provvedimento di non ravvisare ragioni per discostarsene;
g) il vizio di disparità di trattamento non sussiste; in simili ipotesi, esso ben difficilmente sarebbe configurabile già in via teorica: lo stesso appellato ammette che il soggetto assunto quale “tertium comparationis” tenne una condotta diversa rispetto all’appellato medesimo (l’appellato medesimo nella propria memoria fa riferimento a “minime differenze comportamentali”) per cui la doglianza è infondata per tabulas, non essendovi assoluta identità tra le fattispecie oggetto di valutazione da parte dell’Amministrazione.
5. Conclusivamente, l’appello deve essere accolto, e per l’effetto, in riforma dell’impugnata decisione deve essere integralmente respinto il ricorso di primo grado, con salvezza degli atti impugnati.
6. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, tra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663).
6.1. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
7. Le spese del doppio grado di giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti, tenuto conto della complessità e parziale novità delle questioni esaminate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado, con salvezza degli atti impugnati.
Spese processuali del doppio grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellato.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 maggio 2017 con l’intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi – Presidente
Fabio Taormina – Consigliere, Estensore
Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere
Carlo Schilardi – Consigliere
Giuseppe Castiglia – Consigliere

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