Palazzo-Spada

La massima

1. A fronte di una sentenza con cui il Consiglio di Stato ha ordinato la restituzione del suolo ai legittimi proprietari, facendo comunque salvo il potere di emanare il provvedimento di acquisizione postuma, vale solo a chiarire che la condanna alla restituzione, costituente titolo esecutivo postulante la forzosa eseguibilità, è la conseguenza dell’illegittimità della pregressa apprensione e non interferisce con l’esercizio successivo del diverso ed autonomo potere di acquisizione. Non può dunque dirsi che il riferimento al successivo esercizio del potere di acquisizione sanante esaurisca il rapporto contenzioso, tanto da blindare il comportamento successivo dell’amministrazione sino a renderlo insensibile alle sopravvenienze normative, quasi come se lo stesso fosse un appendice meramente esecutiva ed automatica del giudicato.

2. Il provvedimento amministrativo non impugnato ben può considerarsi atto di autoritativa ed esauriente regolazione del rapporto, non più controvertibile, finanche in ipotesi di sopravvenuta invalidità della legge che ne abbia fondato o disciplinato l’emanazione. La sopravvenuta caducazione della legge non vale dunque ad invalidare anche i provvedimenti amministrativi che ne abbiano fatto incontestata applicazione. Diverso è il caso in cui il provvedimento amministrativo sia stato tempestivamente impugnato, in ragione dell’incostituzionalità derivata che lo vizia, atteso che il giudice non fa altro che esaminare un vizio ritualmente stigmatizzato dal ricorrente, decidendo sulla base del quadro normativo come risultante dall’intervento della Corte Costituzionale ab initio evocato.

3. Se è pur vero che l’atto sub iudice non può considerarsi regolazione di un rapporto esaurito, è del pari innegabile che il processo amministrativo da luogo ad un giudizio a critica vincolata, e che fra le critiche astrattamente prospettabili vi sono anche quelle che censurano profili di compatibilità costituzionale delle norme che disciplinano o attribuiscono il potere, non potendo il giudice sostituirsi alla parti nell’individuazione di motivi di illegittimità.

4. Può ammettersi che i vizi di incostituzionalità vengano dedotti dal ricorrente nel corso del giudizio amministrativo, a seguito ed in ragione del sopravvenire dell’intervento caducatorio del Giudice delle leggi. Dal punto di vista dogmatico questo non dovrebbe porre problemi poiché se la retroattività degli effetti demolitori è consentita dall’ordinamento nel giudizio amministrativo a quo (ossia nel giudizio in cui è sollevata questione di legittimità costituzionale) ciò significa che le esigenze di effettività della tutela giurisdizionale (tempestivamente invocata) prevalgono rispetto al principio tempus regit actum ed alla generale efficacia pro futuro delle pronunce della Corte, tutte le volte in cui la legge si pone in contrasto con i valori e le disposizioni costituzionali.

5. Il codice del processo ha previsto che la nullità dell’atto possa “sempre essere rilevata d’ufficio dal giudice”. La previsione normativa non può avere altro significato che l’attribuzione al giudice, analogamente a quanto previsto per le nullità civilistiche, di un potere di rilievo ufficioso a presidio di un interesse generale all’eliminazione dall’ordinamento di fattispecie pubblicistiche radicalmente in contrasto con lo stesso. E nel giudizio amministrativo di legittimità, a differenza che in quello civile, il potere di rilievo è utilmente esercitabile nell’interesse (anche del ricorrente), proprio, se non esclusivamente, nelle ipotesi di sopravvenienza del vizio, atteso che, in via generale, il carattere meramente giuridico della modificazione autoritativa della posizione giuridica del privato, il termine di decadenza, e l’identità di effetti della declaratoria di nullità rispetto alla sentenza di annullamento, finiscono per svuotare di contenuto la previsione, rendendo di fatto impraticabile il potere ufficioso di rilievo della nullità.

6. Nella ratio dell’art. 42-bis, T.U. espropri, la mancanza di un pregresso e idoneo titolo fa cadere il collegamento della vicenda ablatoria con la funzione anche sociale della proprietà individuale, finendo per privare di giustificazione il sacrificio della posizione proprietaria del singolo, ordinariamente presidiata dal principio del libero consenso, talché, in via eccezionale, l’equilibrio è ripristinato ex post garantendo il totale ed integrale ristoro del sacrificio, ivi compreso quello non patrimoniale derivante dalla matrice autoritaria della sottrazione della proprietà, quest’ultimo liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.

7. La circostanza che sia il legislatore a dettare espressamente ed analiticamente i criteri per la liquidazione del risarcimento non può valere a tramutare l’obbligazione risarcitoria in obbligazione indennitaria (ossia in obbligazione da atto lecito), valendo piuttosto ad evidenziare il carattere pregnante dell’illecito pregresso, tanto da reclamare non solo un integrale ristoro patrimoniale (costituito dalla corresponsione di una somma pari al valore venale, e tale anche da elidere i danni da sottrazione del possesso in forza dell’illecita occupazione) ma anche il ristoro del pregiudizio non patrimoniale.

8. L’art. 43, predecessore dell’art. 42 bis e dichiarato incostituzionale solo per eccesso di delega, aveva un tenore (quanto meno nella sua parte introduttiva e più significativa) pressoché identico a quello dell’art. 42 bis, e tuttavia, a differenza di quest’ultimo, qualificava expressis verbis le somme dovute, quale oggetto di una obbligazione risarcitoria. Ma il semplice mutamento nominale (indennizzo in luogo di risarcimento) – tra l’altro parziale, ossia riferito soltanto ad alcune voci della più ampia obbligazione individuata in capo all’amministrazione – non può, di per sé solo, immutato il contesto normativo, deporre per uno stravolgimento dell’intera fattispecie. Ne consegue sussistenza della giurisdizione del Giudice amministrativo.

CONSIGLIO DI STATO

sezione IV

SENTENZA 3 marzo 2014, n. 993

 

SENTENZA NON DEFINITIVA

sul ricorso numero di registro generale 6903 del 2012, proposto da:  Comune di Villa di Serio, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’avv. Riccardo Anania, con domicilio eletto presso Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare N.14;

contro

Lucia Corna, Rosa Lazzarini, entrambe rappresentate e difese dagli avv. Ernesto Tucci, Alessio Petretti, con domicilio eletto presso Alessio Petretti in Roma, via degli Scipioni, 268/A;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA – SEZ. STACCATA DI BRESCIA- Sezione II n. 00200/2012, resa tra le parti, concernente acquisizione di beni utilizzati per pubblico interesse
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Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Lucia Corna e di Rosa Lazzarini;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 12 novembre 2013 il Cons. Giulio Veltri e uditi per le parti gli avvocati Anania e Petretti;
Visto l’art. 36, comma 2, cod. proc. amm.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
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FATTO

Trattasi di vicenda già giunta all’esame del Consiglio di Stato, avente ad oggetto l’esproprio sine titulo di un suolo di proprietà delle sig.re Corna e Lazzarini, per la realizzazione di una strada comunale. Il Consiglio di Stato ha ordinato la restituzione del suolo ai legittimi proprietari, fatta comunque salva l’emanazione di un provvedimento di acquisizione sanante, ex art. 43 TU espropri (allora ancora vigente).
L’amministrazione ha emesso il provvedimento di acquisizione, disponendo il risarcimento del danno per complessivi €.30.993,79, cifra che i proprietari hanno ritenuto irrisoria.
Questi ultimi hanno proposto ricorso al TAR Lombardia per la corretta liquidazione del danno (impugnando in parte qua il decreto, ossia limitatamente al quantum), ed il TAR, constatato che nel frattempo l’art. 43 cit. era stato dichiarato incostituzionale, e che il nuovo art. 42 bis TU espropri conteneva disposizioni di carattere innovativo, ha annullato integralmente l’atto impugnato ordinando all’amministrazione di emanare un nuovo provvedimento di acquisizione sanante, ex art. 42 bis, che tenesse conto dei nuovi e più favorevoli criteri di liquidazione dell’indennizzo, contestualmente declinati e precisati con riferimento al caso concreto, comprensivi anche del ristoro del danno non patrimoniale.
La sentenza è gravata ora dal Comune, il quale deduce: 1) il quantum risarcitorio atteneva in realtà all’esatta esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, indi, della questione avrebbe dovuto conoscerne il medesimo giudice, in sede di ottemperanza; 2) l’applicazione del 42 bis non avrebbe potuto essere chiesta con semplice memoria nel corso del processo di primo grado, occorrendone quanto meno la previa notificazione; 3) la doverosa applicazione dell’art. 43 (e non del 42 bis) era imposta dal giudicato; 4) gli effetti della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 non avrebbero potuto comunque estendersi ai rapporti esauriti, quali quelli coperti da giudicato; 5) anche a voler sostenere l’applicazione dell’art. 42 bis, la liquidazione dell’indennizzo esulerebbe dalla giurisdizione del GA, trattandosi di fattispecie del tutto eterogenea rispetto al risarcimento del danno imposto dal vecchio art. 43, ed invece assimilabile all’indennità da atti espropriativi legittimi.
In via del tutto subordinata, l’appellante chiede rideterminarsi le modalità di liquidazione del risarcimento del danno, se del caso a mezzo di acquisizione di consulenza tecnica d’ufficio, con specifico riferimento alla natura dell’area, del tutto erroneamente – a dire dell’appellante – qualificata dal giudice di prime cure, come edificabile.
Le sig.re Corna e Lazzarini, controdeducono analiticamente su ciascuno dei motivi d’appello e propongono altresì ricorso incidentale: 1) in relazione alle statuizioni del TAR nella parte in cui prevedono lo scomputo della somma di £. 28.000.000 (asseritamente versata in forza di accordo bonario sottoscritto dalle parti, ma mai formalizzato in atto pubblico) da quella da liquidare a titolo risarcitorio, nonché nella parte in cui non liquidano, o comunque diminuiscono il valore del mappale 2266 in forza della presenza della fascia di rispetto; 2) in relazione, ancora, alla mancata liquidazione del danno provocato dalla fascia di rispetto legata alla realizzazione della nuova strada, alla parte di proprietà già edificata dalle sig.re Corna e Lazzarini; 3) in relazione all’erronea individuazione del periodo di illecita occupazione (essa farebbe data dal 13 maggio 1983 e non dal 1988); 4) in relazione alla mancata e definitiva liquidazione del danno. Concludono chiedendo l’assunzione di una CTU che, previo scioglimento dei nodi urbanistici, quantifichi definitivamente in una somma di denaro il danno complessivamente subito.
La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 12 novembre 2013.

DIRITTO

La vicenda, sopra sinteticamente descritta, devoluta al Collegio per il tramite e nei limiti dei cennati motivi di gravame, solleva una serie di questioni giuridiche attinenti al rapporto tra il giudicato ed il potere residuo dell’amministrazione, agli effetti delle statuizioni caducatorie della Corte Costituzionale sugli atti amministrativi emanati in forza di legge incostituzionale, ed ancora, ai modi di introduzione delle stesse in ambito processuale ove l’atto sia impugnato in ragione di vizi diversi da quello dell’incostituzionalità della norma attributiva del potere, questioni che si estendono, infine, sul versante della giurisdizione, alla reale portata della diversa formulazione normativa dell’art. 42 bis rispetto a quanto previsto dalla norma previgente.
1. Seguendo l’ordine logico giuridico risultante dall’esposizione dell’appellante, ma invero imposto dalla stessa natura delle questioni sollevate, occorre preliminarmente esaminare i rapporti tra il potere acquisitivo postumo, attribuito all’amministrazione dall’art. 43 prima, e dall’art. 42 bis dopo, rispetto ad un giudicato che ordini la restituzione dell’immobile in quanto espropriato in assenza di titolo.
La tesi dell’appellante è che, avendo l’amministrazione esercitato il potere di cui all’art. 43 cit. espressamente menzionato dal giudice, sia pur in termini di salvezza, nel contesto della condanna alla restituzione, il provvedimento di acquisizione costituirebbe una modalità di esecuzione del giudicato, della cui legittimità e correttezza avrebbe dovuto conoscere il giudice dell’ottemperanza (ossia il Consiglio di Stato) e non il giudice di primo grado in sede di legittimità.
La tesi non può essere condivisa, e questo qualunque sia la fonte attributiva del potere che venga in rilievo: sia cioè essa rinvenibile nell’art. 43, se in quanto validamente applicabile ratione temporis, ovvero, sia essa costituita dall’art. 42 bis in quanto applicabile alle fattispecie pregresse, ivi comprese quelle conseguenti alla (per ora solo ipotizzata) sopravvenuta invalidità dei provvedimenti di cui all’art. 43 per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2010.
Entrambe le norme fondano infatti un potere amministrativo che trova le sue ragioni nell’illecita occupazione di un immobile da parte dell’ amministrazione, in presenza di ragioni di pubblico interesse che ne sconsigliano la restituzione al legittimo proprietario. L’art. 42 bis, invero, non si cura di regolare i rapporti tra azione restitutoria e ragioni di pubblico interesse che si frappongano al suo accoglimento, a differenza di quanto invece faceva l’art. 43, il quale riconosceva all’amministrazione la possibilità di paralizzare l’azione in favore di una tutela esclusivamente risarcitoria (così garantendo proiezione processuale a quell’interesse che in sede amministrativa avrebbe comunque giustificato l’acquisizione postuma). Tuttavia, sia l’una che l’altra norma attribuiscono all’amministrazione un potere che affonda le sue radici nella situazione di illiceità sopra citata, in vista di un equo e peculiare contemperamento degli interessi idoneo a preservare il pregnante interesse pubblico all’utilizzo del bene, elidendo, al contempo, qualsivoglia pregiudizio per ciò prodottosi nella sfera giuridica del proprietario.
La parentesi giudiziaria, in quanto utile ad accertare l’inesistenza o l’invalidità del titolo, è dunque parte della fattispecie complessa che determina il sorgere dell’autonomo potere amministrativo di acquisizione, e non già vincolo al suo esercizio. Il giudice può pertanto essere adito in sede di ottemperanza solo nell’ipotesi in cui l’amministrazione non restituisca il bene immobile, né provveda all’emanazione del provvedimento di acquisizione, ma non quando la stessa, all’esito di una rinnovata ed autonoma valutazione degli interessi in conflitto, decida di acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene in forza dei poteri espressamente riconosciutigli dall’ordinamento. L’emanazione del provvedimento di acquisizione non è cioè un tentativo di sottrarsi agli obblighi di restituzione derivanti dal giudicato, quanto piuttosto l’esercizio di un potere che trova proprio nel decisum le ragioni della sua esistenza. Ne consegue che delle contestazioni in ordine alla sua legittimità conosce il giudice della cognizione e non quello dell’ottemperanza, salva, ovviamente, l’ipotesi in cui l’atto promani dal commissario ad acta già nominato per l’ottemperanza (in tal caso, infatti, il disposto dell’art. 114 sembra operare una concentrazione della tutela nella sede dell’ottemperanza).
2. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo (nell’enumerazione fatta in premessa) possono essere trattati congiuntamente riguardando profili sostanziali e processuali della medesima questione, in particolare concernente gli effetti della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 sul giudicato che ne abbia auspicato o considerato l’applicazione, nonché sul provvedimento che ne ha fatto applicazione, ove questo sia stato impugnato per motivi diversi dalla sua “incostituzionalità”.
Quanto al primo aspetto possono richiamarsi le considerazioni già svolte, essendo qui sufficiente aggiungere che la circostanza che il giudicato abbia fatto salvo il potere di emanare il provvedimento di acquisizione postuma, vale, nel caso di specie, solo a chiarire che la condanna alla restituzione, costituente titolo esecutivo postulante la forzosa eseguibilità, è la conseguenza dell’illegittimità della pregressa apprensione e non interferisce con l’esercizio successivo del diverso ed autonomo potere di acquisizione. Non può dunque dirsi che il riferimento, contenuto in sentenza nei termini sopra descritti, al successivo esercizio del potere di acquisizione sanante esaurisca il rapporto contenzioso, tanto da blindare il comportamento successivo dell’amministrazione sino a renderlo insensibile alle sopravvenienze normative, quasi come se lo stesso fosse un appendice meramente esecutiva ed automatica del giudicato.
2.1 Più complesso è il secondo aspetto che invece concerne le determinazioni amministrative adottate sulla base di legge successivamente dichiarata incostituzionale. E’ il tema della cd. invalidità sopravvenuta.
Invero una tale definizione contiene suggestioni che è bene escludere sin da subito dal campo di indagine: i provvedimenti amministrativi, in ragione delle evidenti esigenze di certezza dell’ordinamento, sono assistiti da una presunzione di validità, superabile solo ove la contestazione intervenga nei ristretti termini decadenziali previsti dalla legge, ed il giudice, in accoglimento della domanda pronunci sentenza demolitoria (l’illegittimità, invero, può essere accertata a fini risarcitori a prescindere dai termini di decadenza, ma tale accertamento non refluisce sulla validità del provvedimento). In tal senso, il provvedimento amministrativo non impugnato ben può considerarsi atto di autoritativa ed esauriente regolazione del rapporto, non più controvertibile, finanche in ipotesi di sopravvenuta invalidità della legge che ne abbia fondato o disciplinato l’emanazione. La sopravvenuta caducazione della legge non vale dunque ad invalidare anche i provvedimenti amministrativi che ne abbiano fatto incontestata applicazione.
2.2. Probabilmente l’affermazione necessiterebbe di precisazioni e distinguo in ordine ai quei provvedimenti che hanno efficacia prolungata, poiché in tal caso il rapporto, caratterizzato da comportamenti dilazionati nel tempo, è sorretto da una regolazione che presuppone continuità ed attualità della validità, secondo uno schema che è poco compatibile con i concetto di “rapporti esauriti”.
Il caso di specie tuttavia concerne un atto ad efficacia istantanea, quale sicuramente è l’acquisizione coattiva di un bene immobile al patrimonio indisponibile dell’amministrazione, id est, un atto al quale non sopravvive un rapporto, per essere la situazione giuridica del privato definitivamente ed esaurientemente modificata (le facoltà del nuovo proprietario “pubblico” non sono infatti giustificate dal continuum della regolazione autoritativa, ma dal titolo che è irretrattabilmente sorto dalla pregressa regolazione).
2.3. Diverso è il caso in cui il provvedimento amministrativo sia stato tempestivamente impugnato, e proprio in ragione dell’incostituzionalità derivata che lo vizia, atteso che il giudice non fa altro che esaminare un vizio ritualmente stigmatizzato dal ricorrente, decidendo sulla base del quadro normativo come risultante dall’intervento della Corte Costituzionale ab initio evocato.
2.4 Se quanto appena detto appare sufficientemente piano, dubbi invece si addensano ove il provvedimento sia tempestivamente impugnato per motivi diversi dalla sua presunta incostituzionalità derivata. In via generale, se è pur vero che l’atto sub iudice non può considerarsi regolazione di un rapporto esaurito, è del pari innegabile che il processo amministrativo da luogo ad un giudizio a critica vincolata, e che fra le critiche astrattamente prospettabili vi sono anche quelle che censurano profili di compatibilità costituzionale delle norme che disciplinano o attribuiscono il potere, non potendo il giudice sostituirsi alla parti nell’individuazione di motivi di illegittimità. Né può dirsi che il potere del giudice di dubitare ex officio della legittimità costituzionale di una norma rilevante ai fini del decidere, sia elemento di per sé sufficiente ad individuare censure virtuali immanenti al processo, sempre giustificanti l’applicazione retroattiva degli effetti caducatori della pronuncia di incostituzionalità.
2.5. Può tuttavia ammettersi che i vizi di incostituzionalità vengano dedotti dal ricorrente nel corso del giudizio amministrativo, a seguito ed in ragione del sopravvenire dell’intervento caducatorio del Giudice delle leggi. Dal punto di vista dogmatico questo non dovrebbe porre problemi poiché se la retroattività degli effetti demolitori è consentita dall’ordinamento nel giudizio amministrativo a quo (ossia nel giudizio in cui è sollevata questione di legittimità costituzionale) ciò significa che le esigenze di effettività della tutela giurisdizionale (tempestivamente invocata) prevalgono rispetto al principio tempus regit actum ed alla generale efficacia pro futuro delle pronunce della Corte, tutte le volte in cui la legge si pone in contrasto con i valori e le disposizioni costituzionali. Se quanto appena detto è vero, allora, la prevalenza delle esigenze di effettività della tutela giurisdizionale non può essere esclusa negli altri giudizi in cui il vizio di costituzionalità possa essere ancora ritualmente introdotto.
L’indagine si sposta dunque sul versante squisitamente processuale.
2.6. Nel processo amministrativo l’istituto dei motivi aggiunti ben si presta a veicolare censure sorte da dichiarazioni di incostituzionalità sopravvenute al ricorso originario. Del resto se nessuno ha mai dubitato che possa essere usato per introdurre censure relative all’annullamento giurisdizionale postumo di atti amministrativi presupposti o comunque rilevanti, a contenuto puntuale o generale, che refluiscono sulla legittimità dell’atto sub iudice, non si veda quale possa essere l’obiezione quando la caducazione riguardi la stessa legge che disciplina il provvedimento.
Nel caso di specie è tuttavia contestata proprio l’irrituale proposizione dei motivi aggiunti, essendosi il ricorrente limitato ad invocare l’applicazione nel giudizio della sentenza della Corte costituzionale per il tramite di un mera memoria non notificata.
La contestazione, pur astrattamente fondata, non è dirimente avuto riguardo alla peculiarità del caso.
Ad essere dichiarata incostituzionale infatti non è stata una qualunque norma al quale l’attività amministrativa avrebbe dovuto prestare ossequio, ma la stessa disposizione di legge che fonda ed attribuisce il potere. In assenza dell’art. 43 l’amministrazione non avrebbe mai potuto acquisire coattivamente la proprietà dell’immobile, ed un eventuale provvedimento della specie considerata, sarebbe stato emesso in situazione di totale carenza di potere. Ammessa dunque la rilevanza nel giudizio, della pronuncia di incostituzionalità, il vizio che ne scaturisce è quello previsto dall’art. 21 nonies della legge 241/90, ossia il difetto assoluto di attribuzione, come tale presidiato dalla sanzione della nullità.
2.7. Com’è noto la nullità inficia radicalmente l’atto, e per questo, accanto ad un azione di accertamento sottoposta a regime decadenziale dilatato, il codice del processo ha previsto che la nullità dell’atto possa “sempre essere rilevata d’ufficio dal giudice”. La previsione normativa non può avere altro significato che l’attribuzione al giudice, analogamente a quanto previsto per le nullità civilistiche, di un potere di rilievo ufficioso a presidio di un interesse generale all’eliminazione dall’ordinamento di fattispecie pubblicistiche radicalmente in contrasto con lo stesso. E nel giudizio amministrativo di legittimità, a differenza che in quello civile, il potere di rilievo è utilmente esercitabile nell’interesse (anche del ricorrente), proprio, se non esclusivamente, nelle ipotesi di sopravvenienza del vizio, atteso che, in via generale, il carattere meramente giuridico della modificazione autoritativa della posizione giuridica del privato, il termine di decadenza, e l’identità di effetti della declaratoria di nullità rispetto alla sentenza di annullamento, finiscono per svuotare di contenuto la previsione, rendendo di fatto impraticabile il potere ufficioso di rilievo della nullità.
Ben poteva, dunque, il giudice di primo grado considerare – come ha fatto – la memoria prodotta dal ricorrente, quale mera sollecitazione all’esercizio di un potere ufficioso legittimamente esercitabile.
In conclusione, la statuizione caducatoria del provvedimento di cui all’art. 43 pronunciata dal primo giudice è giustificata dalla sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma citata, e non impedita dalla mancata notificazione della memoria che ne ha argomentato la rilevanza (sul punto, re melius perpensa, devono intendersi evidentemente superate le statuizioni cautelari nella parte in cui profilavano possibili conclusioni di segno opposto).
3. Deve essere a questo punto esaminata l’ultima residua questione pregiudiziale. Sostiene l’amministrazione che, anche a voler sostenere l’applicazione dell’art. 42 bis, è innegabile che l’unico interesse che sorregge la domanda del ricorrente è la maggior vantaggiosità dell’indennizzo (contemplante anche il ristoro del pregiudizio non patrimoniale) rispetto al risarcimento del danno patrimoniale originariamente previsto dall’art. 43, ma tale thema decidendum esulerebbe dalla giurisdizione del GA essendo il “nuovo” indennizzo del tutto assimilabile all’indennità da atti espropriativi legittimi, della quale conosce naturaliter il GO.
3.1. L’eccezione è nei suoi presupposti logici corretta poiché non v’è dubbio che il ricorrente non si duole dell’effetto traslativo o dell’erronea presupposizione dei requisiti pubblicistici per l’esercizio del potere, ma unicamente della mancata applicazione del vantaggioso “regime patrimoniale” di cui all’art. 42 bis; sicché, anche a considerare corretto il capo della sentenza di prime cure che impone all’amministrazione di riprovvedere in forza della norma sostitutiva di quella caducata, la sentenza sarebbe comunque nulla per il resto, dovendosi, dell’entità e congruità dell’indennizzo discutersi dinanzi al Giudice ordinario, in specie dotato di giurisdizione.
Sono tuttavia i presupposti giuridici della tesi ad essere privi di fondamento.
3.2. Il riparto di giurisdizione nella specifica materia è disciplinata dall’art. 133 cpa, alla lettera f), disposizione che attribuisce alla giurisdizione esclusiva del GA “le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio, e ferme restando le giurisdizioni del Tribunale superiore delle acque pubbliche e del Commissario liquidatore per gli usi civici, nonché del giudice ordinario per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa”. Dunque, solo ove l’ “indennizzo” previsto dall’art. 42 bis del TU espropri fosse qualificabile come “indennità” conseguente ad atti di natura espropriativa o ablativa, potrebbe sostenersi la giurisdizione del GO.
3.3. Il nodo esegetico non può certo essere sciolto attraverso l’analisi semantica del sostantivo “indennizzo” sganciata da un contestuale esame della fattispecie pubblicistica che lo contempla. Non v’è dubbio, infatti, che se il riferimento all’indennizzo evoca quello, analogo, contenuto nell’art. 43 della Costituzione, altri numerosi e pregnanti elementi esegetici giustificano, per converso, una ricostruzione i cui tratti sono quelli propri dell’obbligazione di matrice risarcitoria.
Innanzitutto viene in rilievo la peculiarità della fattispecie e dei presupposti che la fondano. L’art. 42 bis prescrive: “1. Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene. 2. Il provvedimento di acquisizione puo’ essere adottato anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilita’ di un’opera o il decreto di esproprio…….”
3.4. E’ innegabile che il presupposto dell’esercizio di siffatto potere ablatorio sia il pregresso cattivo uso dell’ordinario potere espropriativo, al quale sopravvive l’esigenza dell’amministrazione di continuare a trattenere il bene in considerazione della perdurante utilizzazione nell’interesse pubblico.
Che si tratti del pregresso “cattivo uso” del potere e non dell’ipotesi, diversa e più grave, del mancato esercizio dello stesso, emerge dalla lettera della norma, la quale si limita a contemplare i casi di modificazione dell’immobile in assenza di un “valido ed efficace” provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità: a rigore, quindi, restano fuori dalla previsione normativa le fattispecie in cui non venga in rilievo l’invalidità della dpu o del decreto di esproprio comunque esistenti, ma, più in radice, sia del tutto mancata la dichiarazione di pubblica utilità (cd occupazione usurpativa) o il vincolo preordinato all’esproprio (cfr. comma 2).
Per tali ipotesi, invero non v’era e non v’è bisogno di un intervento normativo poiché la giurisprudenza civile (alla quale la norma in esame deve la sua scaturigine) ha sempre considerato alle stesse inapplicabile l’istituto della cd occupazione appropriativa avuto riguardo alla natura meramente illecita (e non anche illegittima) del comportamento tenuto dalla PA, in nulla dissimile da quello indebitamente appropriativo di qualsiasi privato.
A tale schema fa eccezione esclusivamente il caso della mancata emanazione del (solo) provvedimento di esproprio, ove gli altri adempimenti propedeutici siano invece integrati, poiché in tal caso la dichiarazione di pubblica utilità, seppur scaduta, costituisce comunque prova dell’originario esercizio di un potere pubblicistico, non concretizzatosi tempestivamente rispetto ai presupposti temporali declinati dalla dpu o dalla legge in via suppletiva.
Si vuol cioè dire che, in sostanza, quello di cui all’art. 42 bis è potere “rimediale”, debitore del primigenio errore nell’esercizio pregresso del potere, che abbisogna, per legittimarsi e giustificarsi anche dal punto di vista costituzionale, del previo ed integrale ristoro del pregiudizio inferto, ancor prima che della pur necessaria dimostrazione dell’interesse pubblico al perdurante utilizzo dell’immobile.
Cosicché le linee essenziali della norma attributiva descrivono il seguente sviluppo logico giuridico: a) l’amministrazione ha commesso un errore nel procedimento pubblicistico, previsto dalla legge in attuazione dei precetti costituzionali; b) a seguito dell’errore, ed a prescindere dalla sua scusabilità, sul terreno privato è ormai sorta un’opera pubblica; c) se quest’ultima è ancora utile e sussistano “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico” che “valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati” ne giustificano il mantenimento, l’amministrazione può acquisire il terreno utilizzando l’eccezionale potere di cui all’art. 42 bis (ovviamente non esente da sindacato giurisdizionale); d) deve contestualmente risarcire il danno liquidandolo e corrispondendone l’importo secondo i parametri e le modalità di legge.
3.5. La natura rimediale dell’azione amministrativa rispetto alla pregressa illegittimità si ripercuote del resto chiaramente sul modo in cui – in disparte i profili relativi all’integralità ed esaustività del ristoro – l’ “indennizzo” è descritto e disciplinato dallo stesso legislatore: esso non è proiettato al futuro in vista dell’ablazione del bene e salva la possibilità di cessione volontaria, ma al contrario appare tutto ripiegato sull’illecito pregresso (il provvedimento di acquisizione, reca l’indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto) nell’obiettivo di eliderne le conseguenze pregiudizievoli per la sfera giuridica dell’ablato, id est, il danno (al proprietario è, come visto, corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale, pari al valore venale dell’immobile, una somma a titolo “risarcitorio” per il periodo di occupazione senza titolo, un indennizzo, infine, per il pregiudizio non patrimoniale, ex lege quantificato nel 10% del valore venale dell’immobile).
In sostanza, nella ratio della previsione normativa la mancanza di un pregresso e idoneo titolo fa cadere il collegamento della vicenda ablatoria con la funzione anche sociale della proprietà individuale, finendo per privare di giustificazione il sacrificio della posizione proprietaria del singolo, ordinariamente presidiata dal principio del libero consenso, talchè, in via eccezionale, l’equilibrio è ripristinato ex post garantendo il totale ed integrale ristoro del sacrificio, ivi compreso quello non patrimoniale derivante dalla matrice autoritaria della sottrazione della proprietà, quest’ultimo liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
3.6. La circostanza che sia il legislatore a dettare espressamente ed analiticamente i criteri per la liquidazione del risarcimento non può del resto valere a tramutare l’obbligazione risarcitoria in obbligazione indennitaria (ossia in obbligazione da atto lecito), valendo piuttosto ad evidenziare il carattere pregnante dell’illecito pregresso, tanto da reclamare non solo un integrale ristoro patrimoniale (costituito dalla corresponsione di una somma pari al valore venale, e tale anche da elidere i danni da sottrazione del possesso in forza dell’illecita occupazione) ma anche il ristoro del pregiudizio non patrimoniale. Quest’ultimo sarebbe un non senso ove fosse collegato ad un atto lecito, non foss’altro perché se è giusto e comprensibile che le diminuzioni patrimoniali (non i danni) derivanti da atti leciti non rimangano in tutto o in parte in capo al singolo al quale il sacrificio è richiesto, non si vede come si possa ipotizzare in capo al singolo diminuzioni di carattere non patrimoniale che non siano anche qualificabili come voci di “danno”. In realtà il pregiudizio non patrimoniale è sempre traguardato dall’ordinamento come un “danno”, ricomprendendo il danno morale, risarcibile in caso di reato o in altri casi previsti dalla legge – qual è sicuramente quello previsto dall’art. 42 bis – o il danno alla persona, o alla vita di relazione, o ancora, in generale, agli interessi non patrimonialmente valutabili, oggetto di protezione costituzionale, in forza di una ratio legis che ha come fondamento il particolare disvalore della condotta o la particolare pregnanza del bene attinto dal fatto illecito.
3.7. Altri argomenti spingono verso la conclusione qui accolta.
L’art. 43, predecessore dell’art. 42 bis e dichiarato incostituzionale solo per eccesso di delega, aveva un tenore (quanto meno nella sua parte introduttiva e più significativa) pressoché identico a quello dell’art. 42 bis, e tuttavia, a differenza di quest’ultimo, qualificava expressis verbis le somme dovute, quale oggetto di una obbligazione risarcitoria. Il semplice mutamento nominale (indennizzo in luogo di risarcimento) – tra l’altro parziale, ossia riferito soltanto ad alcune voci della più ampia obbligazione individuata in capo all’amministrazione – non può, di per sé solo, immutato il contesto normativo, deporre per uno stravolgimento dell’intera fattispecie. Né la precisazione, contenuta nel testo dell’art. 42 bis, in ordine all’efficacia non retroattiva del provvedimento di acquisizione aggiunge alcunché di innovativamente rilevante, atteso che: a) l’art. 43 non diceva espressamente il contrario (seppur vi fossero orientamenti giurisprudenziali che a tale conclusione erano giunti); b) la data del verificarsi dell’effetto traslativo nulla dice circa il carattere lecito o illecito della vicenda, essendo piuttosto elemento dirimente per: b.1) individuare il soggetto realmente danneggiato dalla perdita della proprietà, coincidente con il proprietario che sia tale al momento del provvedimento e non a quello dell’anteriore modificazione; b.2) fornire un aggancio temporale per garantire che il ristoro del danno sia effettivo ed integrale, essendo notorio che il valore venale dei suoli cresce nel tempo a causa della scarsità del suoli disponibili in area urbana e del lento ma graduale processo di urbanizzazione delle periferie.
3.8. Del pari ininfluenti sono le ulteriori plausibili considerazioni circa la non sicura integralità del ristoro assicurato dal legislatore rispetto a quanto ordinariamente ritraibile dal privato a mezzo dell’applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c.(si pensi ad es. al caso dei terreni sui quali insistano aziende agricole): infatti, anche ammesso che in alcuni casi possano profilarsi pregiudizi trascurati dal legislatore, ciò non toglie che nel quadro di un equo e generale contemperamento degli interessi, a fronte delle limitazioni suddette, il medesimo abbia concesso un trattamento “migliorativo” circa la garanzia del pagamento (l’effetto traslativo non si produce sino a quando le somme non sono state corrisposte), nonché in relazione ai pregiudizi di carattere “non patrimoniale”, ritenuti sempre esistenti a prescindere: a) dalla colpa dell’amministrazione; b) dalla prova della loro esistenza e del relativo ammontare. In ogni caso, la riconosciuta limitazione, in alcuni e peculiari fattispecie, del quantum risarcitorio, rispetto a quello astrattamente ritraibile a mezzo delle disposizioni civilistiche, se può fornire argomenti per una esame costituzionale alla luce del principio di ragionevolezza o delle norme CEDU interposte, è per altro verso inidoneo a mutare la matrice risarcitoria delle obbligazioni facenti capo alla PA, in vista ed in funzione del trattenimento dell’immobile già illegittimamente attinto da procedura espropriativa. L’eccezionale limitazione dell’area di risarcibilità del danno è infatti questione eterogenea, rispetto all’indennizzo da atto legittimo o lecito.
4. Appurato che trattasi di questioni risarcitorie, è agevole concludere nel senso della sussistenza della giurisdizione del Giudice amministrativo: il risarcimento del danno rientra a pieno titolo nell’ambito della giurisdizione amministrativa, sia esso derivante dalla lesione di interessi legittimi, sia esso derivante dalla lesione di diritti soggettivi ove la relativa tutela rientri nelle materie di giurisdizione esclusive. Non si pone del resto dubbio alcuno di costituzionalità, avendo la Corte Costituzionale già avuto modo di chiarire, tra l’altro proprio in materia espropriativa, che l’azione risarcitoria è tecnica di tutela della posizione giuridica lesa e non (o non solo) strumento di accertamento di un diritto di credito sorgente da un’autonoma fattispecie obbligatoria (Cfr. Corte Cost. 191/2006)
4.1. D’altronde non può non evidenziarsi che pur a volere, per assurdo, dare pregnante valenza al nomen iuris utilizzato dal legislatore, sino ad equipararlo, anche ai fini del riparto, all’indennità di esproprio, di certo rimarrebbe fuori, ciò che il legislatore ha espressamente qualificato come danno, ossia quello da indebita occupazione ed utilizzazione (il riferimento è ovviamente all’occupazione disposta in forza dei provvedimenti invalidi, antecedentemente al prodursi dell’effetto traslativo connesso al provvedimento di acquisizione ed al pagamento delle somme). L’effetto, perverso in termini di ragionevolezza e sostenibilità del sistema, sarebbe allora quello, non solo di suddividere la controversia nei suoi profili pubblicistici e patrimoniali, ma anche quello di spezzettare ulteriormente le questioni patrimoniali derivanti dal medesimo fatto storico: il Giudice ordinario dovrebbe occuparsi della congruità del quantum fissato dall’amministrazione per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale derivante dal trasferimento autoritativo della proprietà, mentre il Giudice amministrativo, delle somme dovute per il periodo di occupazione non giustificata da valido titolo, espressamente qualificate come di natura risarcitoria (art. 42 bis comma 3: il periodo di occupazione senza titolo e’ computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entita’ del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma).
Tali conclusioni in tema di giurisdizione sarebbero, come già accennato, contrastanti con il principio costituzionale di ragionevole durata del processo e con l’esigenza, strumentale rispetto al primo, della concentrazione delle tutele (Corte costituzionale, n. 191/2006).
4.2. Non va poi obliterato che, a differenza di quanto avviene in occasione dell’ “ordinario” procedimento di esproprio nel quale le contestazioni di carattere localizzativo e procedimentale si concentrano prevalentemente nella fase propedeutica di dichiarazione di pubblica utilità, lasciando spazio alle questioni indennitarie solo successivamente quando le prime sono ormai risolte, il contenzioso avente ad oggetto il provvedimento di acquisizione sanante di cui all’art. 42 bis coinvolge invece contestualmente an e quantum.
Il quarto comma della norma in esame pone infatti all’amministrazione stringenti obblighi motivazionali sulle circostanze di fatto, sulla valutazione delle attuali ed eccezionali ragioni di pubblico interesse, sulla recessività dei contrapposti interessi privati, sull’assenza di ragionevoli alternative. Ciascuno di questi presupposti, ovviamente sindacabile dal Giudice amministrativo, è pregiudiziale oltre che intrinsecamente connesso al quantum (ad es. laddove si contesti all’amministrazione di non aver esercitato l’acquisizione sanante su tutte le aree interessate dall’originaria dpu, ovvero si contesti l’intervenuta modifica del regime urbanistico delle aree con conseguenti incidenza sul valore venale). In queste, come in analoghe evenienze, il soggetto ablato sarebbe comunque costretto ad adire due giurisdizioni, ed il Giudice ordinario conseguentemente costretto a sospendere per pregiudizialità il giudizio sull’ “indennizzo”.
4.3. Potrebbe aggiungersi, per completare il quadro delle anomalie giurisdizionali, che in numerosi casi caratterizzati dalla riluttanza di amministrazioni pesantemente astrette dall’insufficienza dei bilanci finanziari, ad emettere il provvedimento di acquisizione sanante (ed a darne conseguente comunicazione alla Corte dei Conti in relazione agli intuibili profili di pregiudizio per l’erario, giusto il disposto dell’art. 42 bis comma 8), l’an ed il quantum potrebbero giungere in valutazione nella sede dell’ottemperanza, ove la giurisdizione esclusiva e di merito ne consentirebbe il congiunto radicamento. Con accentuazione delle discrasie tra la soluzione (qui sostenuta) che fa leva sulla necessità di concentrazione delle tutele di tutto il contenzioso ex art. 42 bis presso il Giudice amministrativo, e quella invece che, richiamando unicamente il tenore letterale dell’art. 133 primo comma lett. g) del c.p.a. e le assonanze con l’ “indennizzo” di cui al primo comma dell’art. 42 bis, sostiene il (ri)sorgere della giurisdizione del Giudice ordinario per il quantum in sede di cognizione.
4.4. Appare pertanto maggiormente coerente e non solo con gli anzidetti principi costituzionali di ragionevole durata e di concentrazione, ma anche con gli ordinari criteri di riparto della giurisdizione, concludere nel senso che, al di là del nomen iuris attribuito dal legislatore del 42 bis, l’ “indennizzo” costituisca nella sua eziologia, come già argomentato, un risarcimento del danno cagionato da fatto illecito della PA, e che dunque, alle luce delle chiare affermazioni del Giudice delle leggi (v. dec. 204/2004 punto 3.4.1. e dec. 191/2006 cit., punti 4.2 e 4.3.) sia del tutto compatibile con il dettato costituzionale la sua attribuzione al Giudice amministrativo in veste esclusiva, in attuazione della delega di cui all’art. 44 l. 69/2009.
Conseguentemente, per i provvedimenti adottati ex art. 42 bis deve essere affermata in parte qua la giurisdizione esclusiva del G.A. in materia espropriativa ex 133 primo comma lett. g) c.p.a., e quella parimenti esclusiva in tema di risarcimento dei danni ex art. 30 sesto comma.
5. Accertata la giurisdizione, nonché l’obbligo in capo all’amministrazione di riconoscere un risarcimento nella misura derivante dall’applicazione dei criteri liquidatori di cui all’art.42 bis, non rimane che quantificare il danno.
Sia l’appellante principale, in via subordinata, che gli appellanti incidentali, censurano in vario modo le statuizioni di prime cure nella parte in cui dettano criteri per la liquidazione risolvendo all’uopo questioni urbanistiche che ne costituiscono l’antecedente logico.
Si tratta di attività per la quale si impone un supplemento di istruttoria che, posto un punto fermo in ordine agli aspetti preliminari nel modo innanzi chiarito, può essere acquisito nel prosieguo del processo.
Le parti in proposito convengono circa la necessità di assumere CTU finalizzata ad individuare l’esatta, attuale e remota qualificazione urbanistica dell’area, nonché a ricercare il reale valore di mercato del suolo, parametri indispensabili a liquidare il danno da perdita della proprietà, sulla base del quale sarà poi agevole, grazie ai criteri forfettari descritti all’art. 42 bis, calcolare l’ammontare da corrispondere per il danno da abusiva occupazione e per quello non patrimoniale.
4.1. Il Collegio ritiene in proposito opportuno disporre verificazione tecnica da affidare alla Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del suolo della Regione Lombardia.
L’Organismo incaricato della verificazione dovrà stabilire il valore di mercato dell’immobile ad oggi, così come influenzato dalle previsioni di zonizzazione, non considerando la sussistenza dei vincoli preordinati all’esproprio per la realizzazione dell’opera stradale. Dovrà altresì, sulla base della documentazione di causa, e sentite le parti, ricostruire l’evoluzione della vicenda anche al fine di accertare l’eventuale versamento di somme in forza di accordi, nonché descrivere la consistenza dei beni reliquati e l’eventuale pregiudizio ad essi derivanti dall’opera pubblica. Proporre, sulla base della ricostruzione operata, un prospetto liquidatorio che tenga conto di tutti i fattori e criteri previsti dall’art. 42 bis, eccezion fatta per il danno non patrimoniale, avendo cura di evidenziare le componenti di danno su cui insistono contestazioni delle parti, annotando, in particolare, le conclusioni, in termini quantitativi, cui le stesse giungono.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) non definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge nei limiti e con le precisazioni di cui in motivazione.
In via istruttoria dispone, ai fini dell’esatta quantificazione del risarcimento del danno, verificazione a cura della Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del suolo della Regione Lombardia, da svolgersi secondo i criteri di cui all’art. 66 c.p.a., in ordine ai quesiti esplicitati in parte motiva, con facoltà di delega.
Le operazioni di verificazione avranno termine il 30 giugno 2014, la relazione conclusiva sarà depositata entro il termine del 30 ottobre 2014.
E’ disposto il versamento di un anticipo sul compenso spettante all’Organismo di verificazione, nella misura di €.1.500,00, posto provvisoriamente a carico delle sig.re Lucia Corna, Rosa Lazzarini, originarie ricorrenti.
Fissa, per la prosecuzione della trattazione, la prima udienza utile del mese di gennaio 2015, secondo il calendario che sarà predisposto dal Presidente.
Spese al definitivo.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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