Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 9 gennaio 2017, n. 23

Non sono sottoposte ad autorizzazione tutte indistintamente le attività sanitarie espletate da soggetti privati, ma solo quelle che danno luogo a una certa organizzazione di mezzi e di strutture del tipo indicato dalla norma, come ambulatori, case di cura, gabinetti di analisi

Consiglio di Stato

sezione III

sentenza 9 gennaio 2017, n. 23

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Terza

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9633 del 2015, proposto da:

Regione Lazio, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Ro. Ba. C.F. (omissis), anche domiciliataria in Roma, via (…);

contro

So. Vi. – As. di Vo. Onlus, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Bi. Ce. C.F. (omissis), Al. Ma. C.F. (omissis), Ma. Co. C.F. (omissis), con domicilio eletto presso Bi. Ma. Ce. in Roma, via (…);

nei confronti di

Commissario ad acta per la Sanità presso la Regione Lazio, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via (…);

Azienda Sanitaria Locale Rm/E, non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, Sez. III quater, n. 10402/2015, resa tra le parti, concernente diniego di prosecuzione dell’attività sanitaria e socio sanitaria presso un ambulatorio odontoiatrico;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di So. Vi. – As. di Vo. Onlus e di Commissario ad acta per la Sanità presso la Regione Lazio;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 novembre 2016 il Cons. Pierfrancesco Ungari e uditi per le parti gli avvocati Ro. Ba., Al. Ma. e l’avvocato dello Stato Ag. So.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. La controversia è originata dalla diffida alla prosecuzione dell’attività odontoiatrica adottata dalla Regione Lazio con nota prot. 272950/2014 nei confronti della Onlus odierna appellata, in quanto carente dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività sanitaria, che secondo la Regione sarebbe necessaria ai sensi degli artt. 8-ter, del d.lgs. 502/1992, e 4, della l.r. Lazio 4/2003.

2. Il TAR Lazio, con la sentenza appellata (III-quater, n. 10402/2015), ha accolto il ricorso proposto dalla Onlus, ritenendo che detta normativa, nel caso della ricorrente, non richiedesse l’autorizzazione.

3. E’ utile precisare subito che, secondo l’art. 4 della l.r. Lazio 4/2003 (nella formulazione modificata dalla l.r. 27/2006, applicabile alla controversia), la cui portata precettiva è sostanzialmente equivalente a quella dell’art. 8-ter, del d.lgs. 502/1992 (introdotto dal d.lgs. 229/1999), “Sono soggette alle autorizzazioni alla realizzazione e all’esercizio: a) le strutture che erogano prestazioni di assistenza specialistica, in regime ambulatoriale ivi comprese quelle riabilitative; …” (comma 1); e “Sono soggette all’autorizzazione all’esercizio, altresì, le attività di assistenza domiciliare, gli studi odontoiatrici, medici e di altre professioni sanitarie, ove attrezzati per erogare prestazioni di chirurgia ambulatoriale, ovvero procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che comportino un rischio per la sicurezza del paziente, nonché le strutture esclusivamente dedicate ad attività diagnostiche.”(comma 2).

4. Ad avviso del TAR, da dette disposizioni discende che l’elemento discriminante ai fini della necessità di autorizzazione è costituito, non già dalla prevalenza o meno del “profilo organizzativo (l’insieme delle risorse umane e materiali utilizzate per l’esercizio dell’attività) rispetto a quello professionale tipico degli studi medici professionali” (così, invece, la relazione prot. n. 664854 della Direzione Regionale Salute ed Integrazione Sociosanitaria in data 28 novembre 2014, acquisita al giudizio di primo grado), quanto, piuttosto, dalla natura dell’attività esercitata nell’ambito di studi odontoiatrici, medici e di altre professioni sanitarie.

E, nel caso in esame, non è stato accertato che presso lo studio medico della ricorrente si effettuassero procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che comportino un rischio per la sicurezza del paziente.

5. Nell’appello, la Regione Lazio ripropone la tesi interpretativa secondo la quale quella dell’appellante ha i connotati della “struttura” sanitaria che “eroga prestazioni di assistenza specialistica in regime ambulatoriale”, riconducibile alle (omologhe) previsioni dei commi 1, dell’art. 8-ter, del d.lgs. 502/1992 e dell’art. 4, della l.r. 4/2003, e non quelli dello studio medico odontoiatrico, riconducibile alle previsioni dei commi 2; pertanto, necessita di autorizzazione, a prescindere dallo svolgimento delle attività di particolare complessità o rischiosità.

6. A dimostrazione di ciò, sottolinea che l’appellata era già in possesso di autorizzazione, rilasciata dal Comune di Roma in data 27 novembre 2003 ex art. 193 del T.U.LL.SS. di cui al r.d. 1265/1934, per gestire un “ambulatorio dentistico”, e che, con istanze in data 24 giugno 2007 e 31 gennaio 2013, ai fini della conferma dell’autorizzazione all’esercizio, aveva autocertificato che “nella struttura è presente un direttore sanitario preposto all’organizzazione dell’attività; … sono presenti n. 15 odontoiatri, n. 1 assistente di odontoiatria; n. 2 odontotecnici e n. 11 segretarie; … vengono erogate le seguenti prestazioni:… chirurgia orale…” – vale a dire, l’esistenza di connotati in base ai quali il profilo organizzativo risulta prevalente rispetto a quello professionale (mentre negli studi professionali è prevalente la componente di professione intellettuale, per esercitare personalmente ed in regime di autonomia la quale è unicamente necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi, ex artt. 2232 e 2229 c.c.).

7. Sottolinea inoltre che, anche sulla base della d.G.R. n. 447 in data 9 settembre 2015, gli ambulatori sono sottoposti ad una disciplina diversa da quella degli studi medici non sottoposti al regime autorizzatorio in quanto non eroganti prestazioni considerate invasive o rischiose per il paziente.

8. L’Onlus appellata si è costituita in giudizio e controdeduce puntualmente.

8.1. Anzitutto, sostiene l’inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi.

8.2. Quindi, ribadisce la propria tesi, sostanzialmente accolta dal TAR, secondo la quale la distinzione tra ambulatorio medico e studio medico va ridimensionata, in quanto la connotazione di “ambulatoriale”, nella normativa, è propria anche del secondo, e ciò che conta è la natura dell’attività esercitata, mentre nel suo caso non è stato dimostrato, né affermato che l’attività svolta ecceda i limiti consentiti allo studio medico.

In via subordinata, ribadisce che, anche prendendo in considerazione la distinzione di carattere organizzativo sostenuta dalla Regione, la sua situazione è comunque riconducibile a quella dello studio medico professionale.

Prospetta anche che l’autorizzazione ex art. 4 della l.r. 4/2003 sia necessaria solo per le strutture accreditate col SSR.

8.3. Ripropone le censure rimaste assorbite in primo grado, prospettando che:

(a) – è titolare di autorizzazione del Comune di Roma e in data 24 giugno 2007 ne ha chiesto, anche tuzioristicamente, la conferma dichiarando il possesso dei requisiti minimi previsti dall’art. 5 della l.r. 4/2003 e dal regolamento regionale 2/2007; pertanto, ai sensi di detta normativa, fino a quando non verrà adottato al riguardo un provvedimento espresso può continuare a svolgere l’attività;

(b) – ha inoltre presentato la domanda di conferma richiesta dall’art. 2, comma 17, della l.r. 9/2012, nonché, a pena di cessazione dell’attività, dal decreto commissariale n. 38/2012 – anche se la piattaforma informatica SASS non le ha consentito l’inoltro, e quindi ha dovuto trasmettere la domanda in forma cartacea entro il termine del 31 gennaio 2013 (al riguardo, invoca il principio di equivalenza delle forme e contesta la costituzionalità della previsione per contrasto con gli artt. 32 e 41 Cost., avendo comunque impugnato anche il decreto n. 38/2012 nella misura in cui commina detta cessazione dell’attività);

(c) – la diffida non tiene conto della necessità di consentire la regolarizzazione prevista dall’art. 11 della l.r. 4/2003;

(d) – è mancata la comunicazione di avvio del procedimento.

9. Con ordinanza n. 2680/2016, questa Sezione ha disposto l’acquisizione, da parte della Regione Lazio, di una relazione di documentati chiarimenti in ordine: (i) alla esistenza o meno di atti generali attuativi dell’art. 4 della l.r. 4/2003 e del regolamento regionale n. 2/2007, in materia di autorizzazioni all’esercizio dell’attività sanitaria; (ii) alla prassi seguita dagli uffici regionali nell’applicazione, nei confronti delle attività sanitarie private, dei criteri (sia funzionali, attinenti alla natura dell’attività svolta, sia strutturali, attinenti agli aspetti organizzativi) stabiliti dalle d.G.R. n. 73/2008, n. 368/2013 e n. 447/2015 e dagli altri eventuali atti generali rilevanti in materia, con riferimento ai casi (rispetto ai quali dovranno essere specificate le caratteristiche strutturali e funzionali rilevanti riscontrate) nei quali si è ravvisata la configurabilità in concreto della fattispecie riconducibile alla espressione “attrezzati per erogare prestazioni di chirurgia ambulatoriale”.

10. L’incombente è stato eseguito dalla Regione Lazio mediante nota prot. 393288 in data 26 luglio 2006.

10.1. L’appellata ha eccepito che i chiarimenti non riguardano la prassi generale applicata riguardo alla identificazione degli studi medici attrezzati per erogare prestazioni di chirurgia ambulatoriale, bensì la sua particolare situazione, e quindi non devono essere considerati.

10.2. Il Collegio osserva che la relazione contiene sia indicazioni sulla prassi applicativa seguita nel corso degli anni, sia considerazioni sulla posizione dell’appellata – non in tutto conseguenti ai chiarimenti richiesti, ma non per questo irrilevanti (anche se, in sostanza, riproduttive di quanto già prospettato).

11. Il Collegio, anche sulla base dei chiarimenti forniti, osserva che la rilevanza, ai fini della necessità dell’autorizzazione, dell’esistenza o meno, alla base dell’attività medica, di una “struttura” organizzata, è antecedente alle disposizioni sopra indicate.

11.1. Infatti, il primo comma dell’art. 193 del T.U.LL.SS. di cui al r.d. 1265/1934, disponeva che “Nessuno può aprire o mantenere in esercizio ambulatori, case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica, gabinetti di analisi per il pubblico a scopo di accertamento diagnostico, case o pensioni per gestanti, senza speciale autorizzazione del prefetto, il quale la concede dopo aver sentito il parere del consiglio provinciale di sanità.” (la competenza, riguardo agli ambulatori, è stata poi attribuita al sindaco dall’art. 23 del d.P.R. 854/1955, e quindi al medico provinciale dall’art. 6, quarto comma, del d.P.R. 296/1958).

Nel d.P.R. 121/1961, e poi nel d.P.R. 230/1991, concernenti le tariffe delle tasse sulle concessioni regionali, tra cui quelle per le “autorizzazioni per aprire o mantenere in esercizio ambulatori, case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica, gabinetti di analisi, per il pubblico a scopo di accertamento diagnostico…”, vi è una nota contenente una definizione degli “ambulatori”, quale forma di attività medica strutturata, e per differenza, dei “gabinetti” (studi) medici: “Sono ambulatori gli istituti aventi individualità e organizzazione propria ed autonoma e che, quindi, non costituiscono lo studio privato o personale in cui il medico esercita la professione. Essi presentano le stesse caratteristiche delle case ed istituti di cura che possono essere autorizzati anche a favore di chi non sia medico purché siano diretti da medici. Sono ambulatori anche quelli annessi a case ed istituti di cura medico-chirurgica, allorché vi si erogano prestazioni sanitarie che non comportano ricovero o degenza. Conseguentemente non sono soggetti ad autorizzazione, e quindi al pagamento della tassa sopraindicata, i gabinetti personali e privati, in cui i medici generici e specializzati esercitano la loro professione.”.

11.2. Con riferimento alla contrapposizione tra “ambulatorio” e “studio medico”, basata sull’elemento organizzativo-strutturale, la giurisprudenza ha affermato che nel sistema dell’art. 193, cit., non sono sottoposte ad autorizzazione tutte indistintamente le attività sanitarie espletate da soggetti privati, ma solo quelle che danno luogo a una certa organizzazione di mezzi e di strutture del tipo indicato dalla norma, come ambulatori, case di cura, gabinetti di analisi (cfr. Cons. Stato, n. 728/1984; vedi anche TAR Sicilia, Catania, II, n. 238/2008); ed ha ritenuto che l’attrezzatura sanitaria di cui era dotato un gabinetto di analisi nonché la pubblicità diretta a rappresentare i vari sistemi tecnologici e di diagnosi, comprovassero la natura imprenditoriale dell’attività esercitata, e la necessità dell’autorizzazione (cfr. Cons. Stato, V, n. 619/1992).

Ovvero, che deve qualificarsi come ambulatorio, per il cui esercizio è richiesta l’autorizzazione da parte della competente azienda USL, ogni struttura aziendale destinata alla diagnosi e/o alla terapia medica extraospedaliera, mentre deve ritenersi semplice studio medico quello nel quale si eserciti un’attività sanitaria il cui profilo professionale si appalesi come assolutamente prevalente rispetto a quello organizzativo (conseguentemente, si è ritenuto che una struttura dovesse qualificarsi come ambulatorio, condividendo le osservazioni svolte dal giudice di merito in ordine alla complessità delle strutture diagnostiche e terapeutiche utilizzate, alla vastità ed al numero dei locali adibiti all’attività di dentista, alla evidente pubblicizzazione della struttura mediante targa stradale indicante l’apertura al pubblico in tutti i giorni feriali, alla presenza di un dipendente fisso – cfr. Cass. civ., I, n. 256/1998).

11.3. Anche ai fini del riscontro dell’esistenza del reato previsto (per la mancanza dell’autorizzazione) dal terzo comma dell’art. 193, cit., la giurisprudenza ha fatto riferimento all’elemento organizzativo-strutturale, quale elemento distintivo degli “ambulatori”, affermando che gli istituti sanitari disciplinati dall’art. 193 sono quelli caratterizzati da una minima organizzazione di mezzi e persone diretta al fine di gestire l’attività sanitaria (cfr. Cass. pen., II, n. 17923/2014); che, in base all’art. 193, le istituzioni sanitarie private che devono essere autorizzate (ambulatori, case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica, gabinetti di analisi, ecc.) sono quelle che abbiano un’interna organizzazione di mezzi e di personale, ancorché minima, che però assuma un’individualità propria distinta da quella dei sanitari che ivi prestano la propria opera; mentre sono esclusi dall’autorizzazione sanitaria gli studi dei liberi professionisti dove il singolo sanitario esercita la propria professione e dove si accede normalmente per appuntamento (cfr. Cass. pen., III, n. 21806/2007; n. 17434/2005).

12. Dunque, nel sistema autorizzatorio basato sull’art. 193 del T.U.LL.SS., gli studi medici – individuati come tali in base alla mancanza di un’organizzazione distinta dalla figura del medico, o quanto meno dalla assoluta prevalenza dell’elemento professionale rispetto a quello organizzativo – erano esentati dalla necessità di essere autorizzati, indipendentemente dal tipo di attività che svolgevano.

La ratio di una simile disciplina riposava probabilmente sulla presunzione secondo la quale soltanto in presenza di una minima organizzazione esterna al professionista medico, e della connessa disponibilità di mezzi tecnici ed ulteriore personale, si potesse verificare l’esercizio di attività comprendente prestazioni di chirurgia ambulatoriale ovvero procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità e rischiosità.

Coerentemente, nel d.P.R. 14 gennaio 1997, atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private, l'”ambulatorio” viene assimilato, come “struttura” soggetta ad autorizzazione, all’ospedale: “presidio: struttura fisica (ospedale, poliambulatorio, ambulatorio, ecc.) dove si effettuano le prestazioni e/o le attività sanitarie”.

13. Il d.lgs. 229/1999, introducendo l’art. 8-ter nel d.lgs. 502/1992, ha collegato la necessità dell’autorizzazione, non più soltanto all’esistenza di un ambulatorio anziché di uno studio medico, ma anche allo svolgimento da parte dello studio medico di determinate attività.

L’art. 8-ter prevede infatti che: “La realizzazione di strutture e l’esercizio di attività sanitarie e socio-sanitarie sono subordinate ad autorizzazione. Tali autorizzazioni si applicano alla costruzione di nuove strutture, all’adattamento di strutture già esistenti e alla loro diversa utilizzazione, all’ampliamento o alla trasformazione nonché al trasferimento in altra sede di strutture già autorizzate, con riferimento alle seguenti tipologie: a) strutture che erogano prestazioni in regime di ricovero ospedaliero a ciclo continuativo o diurno per acuti; b) strutture che erogano prestazioni di assistenza specialistica in regime ambulatoriale, ivi comprese quelle riabilitative, di diagnostica strumentale e di laboratorio; c) strutture sanitarie e socio-sanitarie che erogano prestazioni in regime residenziale, a ciclo continuativo o diurno.” (comma 1); e che “L’autorizzazione all’esercizio di attività sanitarie è, altresì, richiesta per gli studi odontoiatrici, medici e di altre professioni sanitarie, ove attrezzati per erogare prestazioni di chirurgia ambulatoriale, ovvero procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che comportino un rischio per la sicurezza del paziente, individuati ai sensi del comma 4, nonché per le strutture esclusivamente dedicate ad attività diagnostiche, svolte anche a favore di soggetti terzi” (comma 2).

14. Dopo la modifica del Titolo V della Costituzione, l’art. 4 della l.r. Lazio 4/2003, come esposto, ha sostanzialmente riprodotto la disposizione statale.

Il testo originario considerava gli studi medici al comma 1, dopo le categorie delle “strutture” soggette ad autorizzazione: “e) gli studi odontoiatrici, medici e di altre professioni sanitarie che erogano prestazioni di chirurgia ambulatoriale o svolgono procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o comportanti un rischio per la sicurezza del paziente, nonché le strutture esclusivamente dedicate ad attività diagnostiche”.

L’art. 27 della l.r. 26/2007 ha trasferito detta previsione al comma 2, con la formulazione sopra riportata (al punto 3.), che risulta anche testualmente pressoché allineata alla omologa disposizione statale, così rimarcando la distinzione tra le “strutture” (tra cui, gli ambulatori) e gli studi medici.

14.1. In attuazione dell’art. 5 della l.r. 4/2003, i requisiti minimi per il rilascio dell’autorizzazione, anche integrativi di quelli previsti dal d.P.R. 14 gennaio 1997, sono stati individuati dalla d.G.R. Lazio n. 424/2006 (poi sostituita dalle d.C.A. n. 90/2010 e n. 8/2011, quest’ultima attualmente vigente); mentre i termini e le modalità procedimentali sono stati disciplinati dal regolamento regionale 2/2007 (modificato dal regolamento 11/2007).

14.2. La d.G.R. n. 426/2006 ha fissato i requisiti minimi strutturali, tecnologici ed organizzativi specifici per le tipologie di strutture sanitarie e socio-sanitarie considerate dagli artt. 8-ter e 4, citt., compresi “gli studi odontoiatrici medici e di altre professioni sanitarie che erogano prestazioni di chirurgia ambulatoriale o svolgono procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o comportanti un rischio per la sicurezza del paziente…” (come esposto, all’epoca ancora menzionati nel comma 1, alla lettera e), e trasferiti nel comma 2 dalla riscrittura dell’art. 4 disposta dalla l.r. 27/2006).

I requisiti sono previsti distinguendo, in particolare, i “Requisiti di carattere generale per tutte le strutture sanitarie e socio-sanitarie” (punti 0.1., 0.2. e 0.3.), e quelli specifici per le diverse categorie ivi definite, tra le quali, per quanto più interessa ai fini della presente controversia, nell’ambito delle “strutture odontoiatriche”, lo “studio odontoiatrico” (punti 6.1.1.. ss.) – “Si definisce studio odontoiatrico privato l’ambiente privato e personale in cui l’odontoiatra esercita la sua libera attività professionale di diagnosi e terapia, in forma singola o associata. La titolarità dello studio odontoiatrico privato s’identifica col singolo odontoiatra o con gli odontoiatri associati, prestatori dell’opera professionale cui sono abilitati: non è prevista quindi la presenza del Direttore Sanitario Responsabile. Lo studio odontoiatrico privato non è “tecnicamente” aperto al pubblico perché compete al titolare ogni decisione discrezionale in ordine ai giorni e agli orari d’apertura, e all’erogazione delle prestazioni previo appuntamento” – e l'”ambulatorio odontoiatrico” (punti 6.1.2. ss) – “Per ambulatorio odontoiatrico si intende un Presidio odontoiatrico privato o pubblico, qualificato come impresa autonoma, che può essere gestita dal singolo imprenditore, da una società o da una associazione professionale, e distinta dai sanitari che ivi operano, preposto alla erogazione di prestazioni sanitarie di prevenzione, diagnosi, terapia e riabilitazione a favore di tutti i pazienti richiedenti nelle situazioni che non richiedono ricovero neanche a ciclo diurno.”.

Anche il regolamento 2/2007, all’art. 1, comma 2, ha precisato che “Non rientra nella normativa contenuta nel presente regolamento lo svolgimento dell’attività professionale medica o sanitaria in ambito sanitario o socio-sanitario presso studi non ricompresi all’interno delle tipologie di cui all’articolo 4, comma 2, della L.R. n. 4/2003, cui si applicano le specifiche disposizioni vigenti in materia”.

15. La modifica dell’ambito dell’autorizzazione introdotta dalla legge 229/1999 trae origine dall’ampliamento delle possibilità di svolgere attività terapeutica al di fuori degli istituti di cura tradizionali, ormai consentite dagli strumenti tecnologici a prescindere dall’esistenza di una organizzazione complessa, e quindi alla portata di molti professionisti.

Infatti, come si legge nella d.G.R. n. 73/2008 e n. 368/2008 (di cui si dirà appresso), “… è innegabile tuttavia che, con il trascorrere del tempo e l’evolversi della tecnologia in campo sanitario, il termine “studio professionale” medico si è venuto ad applicare ad attività molto diverse: da quelle di carattere strettamente diagnostico, improntate sul rapporto professionista-utente senza la necessità dell’utilizzo di particolari attrezzature, a quelle di carattere più complesso, riguardanti – ad esempio – l’utilizzo di tecniche chirurgiche.”.

Se dall’autorizzazione – e con essa dalla verifica del possesso di requisiti minimi di carattere strutturale, tecnologico ed organizzativo, quali indice della correttezza delle attività svolte a tutela della salute dei pazienti – si poteva prescindere per attività sanitarie consistenti nella semplice visita medica, la prospettiva è cambiata, una volta evidente che il professionista medico è in grado di erogare autonomamente prestazioni diagnostiche e terapeutiche, sempre più complesse.

16. Come ammette la Regione Lazio nella relazione istruttoria – nonostante la circolare assessorile prot. n. 37627/4V/03 in data 2 aprile 2007, le Linee guida adottate con d.G.R. n. 73/2008, la circolare prot. n. 83572 in data 16 luglio 2009, le modifiche delle Linee guida adottate con la d.G.R. n. 368/2013 – sono a lungo rimasti dubbi applicativi in ordine ai presupposti dell’assoggettabilità o meno dello studio medico al regime autorizzativo.

In particolare, merita di essere sottolineato che le d.G.R. n. 73/2008 e n. 368/2013 hanno proposto una interpretazione della legge che, sostanzialmente, privava di rilevanza la distinzione tra strutture/ambulatori e studi medici, per incentrare l’effetto distintivo sul tipo di prestazioni offerte ai pazienti.

Infatti, quanto alla “Definizione di studio medico e relativa distinzione con l’ambulatorio medico”, nei due provvedimenti si legge, subito dopo la premessa sopra riportata al punto 15, che

“… Siffatto scenario di riferimento è stato perfettamente colto dal Legislatore che, nel disciplinare le tipologie di studi medici sottoposti ad autorizzazione all’esercizio, trascura di soffermarsi sulla generale definizione degli stessi, soffermando la propria attenzione sulla complessità e pericolosità per il paziente sulle tipologie di prestazioni erogate presso la struttura, indipendentemente dalla categoria astratta di relativa assegnazione. Ai sensi, pertanto, della sopra richiamata normativa di livello nazionale e regionale, perde rilevanza la questione fin qui trattata circa la differenza tra lo studio e l’ambulatorio medico, dovendosi ritenere sottoposta a specifica autorizzazione all’esercizio ogni struttura che eserciti prestazioni di chirurgia ambulatoriale ovvero procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che comportino un rischio per la sicurezza del paziente. Ciò comporta, ai fini dell’applicazione delle procedure autorizzative, lo spostamento dell’oggetto della questione in esame ad un diverso livello, dovendosi non più distinguere tra studi e ambulatori medici, quanto piuttosto tra studi medici sottoposti o meno ad autorizzazione all’esercizio.”.

17. Invece nella d.G.R. n. 447/2015, sopravvenuta al provvedimento impugnato in primo grado, si torna a valorizzare, ai fini distintivi, gli aspetti organizzativo-strutturali. La suddetta premessa non compare più, e l'”ambulatorio” e lo “studio medico” sono definiti con riferimento ad aspetti organizzativi, prima che si prendano in esame e si elenchino le prestazioni di maggior rischiosità che, qualora erogate dal secondo, comportano la necessità dell’autorizzazione.

Infatti, prima dell'”Elenco delle discipline mediche e delle relative prestazioni considerate a minore invasività”, si legge (punto 1.1.) che “Lo studio è la sede di espletamento dell’attività del professionista il quale la esercita personalmente in regime di autonomia. Lo studio non ha rilevanza giuridica autonoma e, in quanto strettamente collegato al professionista, cessa di avere efficacia al cessare dell’attività del professionista stesso. Nello studio professionale è, infatti, prevalente la componente di professione intellettuale, per esercitare la quale è unicamente necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi (Art. 2229 Codice Civile). […]Lo studio non è un locale “tecnicamente” aperto al pubblico, nel senso che non è accessibile dalla generalità indistinta degli utenti, ma solo dai pazienti del professionista, che con lui hanno un rapporto contrattuale basato sulla fiducia perché compete al titolare ogni decisione discrezionale in ordine ai giorni e agli orari d’apertura e all’erogazione delle prestazioni previo appuntamento.”; e che (punto 1.3. ss.) “Al solo fine di meglio definire la distinzione tra lo studio medico (singolo o associato) e l’ambulatorio e il poliambulatorio, si ritiene opportuno fornire, alla luce delle numerose pronunzie giurisdizionali che hanno chiarito “deve intendersi come semplice studio medico quello in cui si esercita un’attività sanitaria nel quale il profilo professionale prevale assolutamente su quello organizzativo, mentre deve qualificarsi ambulatorio ogni struttura in cui si svolgano prestazioni di natura sanitaria caratterizzate dalla complessità dell’insieme delle risorse umane, materiali ed organizzative utilizzate per l’esercizio dell’attività”, anche le definizioni di tali strutture. […]Sia l’ambulatorio che il poliambulatorio si configurano quali imprese ai sensi degli artt. 2082 e segg. del Codice Civile e sono quindi caratterizzate da un’imputabilità giuridica propria, con la conseguenza di una netta e chiara separazione tra una responsabilità di tipo imprenditoriale (che fa capo all’imprenditore titolare del provvedimento di autorizzazione), una responsabilità di tipo tecnico-organizzativo (che fa capo al direttore sanitario) ed una responsabilità di ordine professionale, che fa capo all’esecutore della prestazione (il medico). In questo caso, l’avvicendamento dei medici lascia inalterata nel tempo l’impresa ed eventualmente anche la sua ragione sociale. Gli ambulatori e i poliambulatori sono presidi sanitari aperti al pubblico aventi individualità ed organizzazione propria ed autonoma, in cui sono erogate prestazioni a favore di tutti i pazienti richiedenti. Essi presentano le stesse caratteristiche di strutture più complesse nelle quali deve essere garantita la presenza di un direttore sanitario responsabile. Gli ambulatori e i poliambulatori sono strutture disciplinate dall’art. 4, comma 1, lettera a), della L.R. n. 4/2003 e, pertanto, sono comunque soggette ad autorizzazione all’esercizio.”.

18. Riassumendo, secondo la normativa, l’elemento organizzativo-strutturale ha sempre mantenuto un autonomo rilievo ai fini della distinzione tra le attività sanitarie che richiedono una previa autorizzazione all’esercizio e quelle che non la richiedono.

Riguardo alla ratio di tale rilievo, si è detto che, dapprima, all’esistenza di una organizzazione complessa e autonoma rispetto alla figura del professionista medico si è attribuito un significato presuntivo dello svolgimento o meno di attività che comportassero un particolare rischio per il paziente, così da richiedere la previa verifica in sede di autorizzazione del possesso di determinati requisiti minimi.

Ma tale significato è rimasto anche dopo che (nel 1999) per gli studi medici è stata introdotta la distinzione basata sull’offerta o meno di procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o rischiosità – vale a dire su un presupposto avente un significato presuntivo del rischio sanitario più robusto (o meno approssimato) di quello organizzativo-strutturale – in quanto un sistema di autorizzazioni basato anzitutto sul discrimine organizzativo-strutturale, legato alla “capacità potenziale” di offrire procedure diagnostiche e terapeutiche complesse o rischiose (nella presunzione ragionevole, secondo la quale non si attiva una struttura, affrontando i relativi costi di impianto e di gestione, senza sfruttarne appieno sul mercato le potenzialità), offre maggiori garanzie, consentendo di valutare preventivamente i requisiti rispetto ad un ambito più vasto di operatori sanitari; infatti, occorre considerare che la esenzione dall’autorizzazione non può che fondarsi sulla dichiarazione del responsabile dello studio medico di non praticare tali procedure, e la corrispondenza dell’attività svolta a quella consentita in regime di esonero dall’autorizzazione è affidata ai controlli sul territorio, che possono rivelarsi non sempre capillari e tempestivi.

19. Anche la lettura dei provvedimenti depositati in esito all’ordinanza istruttoria, concernenti altre strutture sanitarie, conferma – seppur attraverso incertezze negli atti amministrativi generali e nella prassi applicativa (che, come esposto, per un certo periodo si è focalizzata sulla tipologia delle prestazioni erogate, ponendo in ombra la distinzione organizzativa) – la tesi interpretativa oggi sostenuta della Regione appellante.

20. Nemmeno può convenirsi con l’appellata sul rilievo secondo il quale le espressioni “ambulatorio” o “ambulatoriale” non riguardano un aspetto organizzativo ma la tipologia della prestazione. Invero, dal punto di vista lessicale, dette espressioni stanno ad indicare, rispettivamente, un luogo di cure mediche che non prevede degenza e la cura stessa che con tale modalità viene praticata; nelle disposizioni sopra ricordate, invece, a tale significato tradizionale di “ambulatorio” (ormai non utile a distinguerlo da uno studio medico), si sovrappone la definizione giuridica, di struttura sanitaria in cui si svolgano prestazioni caratterizzate dalla complessità dell’insieme delle risorse umane, materiali ed organizzative utilizzate per l’esercizio dell’attività, e che, mettendo in ombra l’attività medico professionale, configura un’impresa ai sensi dell’art. 2082 c.c..

21. Ciò detto, tuttavia, il Collegio non condivide l’applicazione di tali principi che la Regione Lazio ha ritenuto di fare, alla luce delle caratteristiche organizzative ed operative della Onlus appellata.

21.1. La Regione ha sottolineato (anche, analiticamente, nella relazione istruttoria) che la struttura è gestita da un’associazione di volontariato, che vi sono presenti “vari studi medici”, “un cospicuo numero” di professionisti, un direttore sanitario, e che nell’autorizzazione del Comune di Roma del 27 novembre 2003 era qualificata come “ambulatorio dentistico” e lo stesso rappresentante legale ai fini della conferma dell’autorizzazione aveva dichiarato in data 24 giugno 2007 e 31 gennaio 2013 che trattasi di “attività ambulatoriale”.

21.2. Tuttavia, di contro, non viene confutato quanto affermato dall’appellata nel senso che: la gestione da parte dell’associazione di volontariato è limitata alle attività di supporto ai singoli medici; in due sole stanze sono ubicati due “riuniti odontoiatrici” utilizzati alternativamente dai medici volontari che offrono a turno gratuitamente prestazioni ai pazienti presentati dalle Pa., dagli assistenti sociali e (informalmente) dalle ASL; i medici hanno un rapporto diretto con i pazienti e stabiliscono in totale autonomia le prestazioni da effettuare ed il calendario degli appuntamenti, provvedendo in proprio all’assicurazione dei rischi professionali; gli odontotecnici sono presenti solo per consegnare le protesi mobili ordinate dai medici e realizzate presso i propri laboratori; esiste, sì, un direttore sanitario, ma costui svolge esclusivamente il coordinamento delle richieste dei medici di materiali ed attrezzature e cura la manutenzione delle apparecchiature.

22. Sembra al Collegio che l’insieme di tali elementi denoti un quadro organizzativo tale da ricondurre l’appellata tra gli studi odontoiatrici, anziché tra gli ambulatori odontoiatrici.

La qualificazione sottesa ai pregressi provvedimenti autorizzatori ed alle istanze di conferma, non può condurre a diversa conclusione, in quanto contrasta con quello che (almeno attualmente) è il dato sostanziale, e comunque poiché occorre tener conto dell’incertezza della portata applicativa della normativa e della comprensibile tendenza ad assumere, per quanto possibile, un atteggiamento prudenziale e cautelativo.

D’altro canto, non sembra che sia stato specificamente confutato che presso lo studio medico dell’appellata non vengano effettuate prestazioni di impiantologia (peraltro, non catalogata come attività invasiva) e che comunque le prestazioni erogate non rientrino tra quelle per le quali è necessaria l’autorizzazione.

23. L’appello della Regione risulta pertanto infondato, meritando conferma, con le motivazioni parzialmente diverse, sopra esposte, le conclusioni raggiunte dal TAR.

24. Non vi è conseguentemente interesse ad esaminare le altre censure riproposte dall’appellata.

25. Le spese del grado di giudizio, stante la complessità e novità di alcuni aspetti delle questioni affrontate, possono essere compensate tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge, confermando, con motivazione parzialmente diversa, la sentenza appellata

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