consiglio di stato bis

Consiglio di Stato

sezione III

sentenza 8 aprile 2016, n. 1406

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Terza

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9334 del 2009, proposto da:

Ma. Ra., rappresentato e difeso dall’avv. Ma. Ba., con domicilio eletto presso Ma. Ba. in Roma, Via (…);

contro

Ministero dell’Interno, Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Dir.Centr.Risorse Umane – Uff. II Contenzioso, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura, domiciliata in Roma, Via (…);

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA – SEZ. STACCATA DI BRESCIA: SEZIONE I n. 00991/2008, resa tra le parti, concernente rimborso spese legali

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Interno e di Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Dir.Centr.Risorse Umane – Uff. II Contenzioso;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 giugno 2015 il Cons. Lydia Ada Orsola Spiezia e uditi per le parti gli avvocati Ba. e dello Stato Fe. Wa.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. L’appellante, Ma. Ra., già ricorrente in primo grado, all’epoca dei fatti dipendente della Polizia di Stato presso la Questura di Brescia, è stato imputato in un procedimento penale svoltosi davanti al Tribunale di Brescia, e definito con sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, pronunciata il 5 aprile 2005.

Dopo l’assoluzione l’interessato ha presentato all’amministrazione di appartenenza una domanda di rimborso delle spese difensive relative al processo penale, ai sensi dell’art. 18 del decreto legge 25.3.1997, n. 67, convertito con legge 23.5.1997 n. 235.

La norma citata dispone:

“Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato”.

L’istanza è stata respinta con nota ministeriale prot. 333.A/U.C.7207 TL 333, del 30 novembre 2007, motivata con la considerazione (in sintesi) che la fattispecie non rientrava nel campo di applicazione della norma invocata.

2. L’interessato ha proposto ricorso al T.A.R. della Lombardia, sezione staccata di Brescia (r.g. n. 150/2008) impugnando il provvedimento di diniego, unitamente agli atti preordinati, fra i quali i pareri dell’Avvocatura Generale dello Stato e dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Brescia; e chiedendo, altresì, l’accertamento del proprio diritto al beneficio in questione.

Il T.A.R. di Brescia, con sentenza n. 991/2008, ha innanzi tutto affrontato la questione se la posizione soggettiva del dipendente, in relazione alla pretesa controversa, si qualifichi come diritto oppure come interesse legittimo; e l’ha risolta nel senso che si tratta di diritto soggettivo. Peraltro ha ritenuto la propria giurisdizione, nell’ambito della giurisdizione esclusiva riguardante il pubblico impiego non contrattualizzato, ed ha, quindi, preso in esame la domanda di accertamento proposta dal ricorrente. Questi aspetti non sono ulteriormente controversi nella presente fase di appello.

Nel merito, il T.A.R. ha respinto la domanda. In primo luogo ha fatto sua una interpretazione restrittiva della disposizione invocata dal ricorrente (art. 18 del d.l. n. 67/1997) nella parte in cui essa si riferisce ai “fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali”; in secondo luogo, analizzando la vicenda di fatto che aveva dato motivo alle imputazioni penali (poi giudicate infondate dal giudice penale) ha giudicato che i comportamenti posti in essere dall’interessato – leciti o meno che fossero – risultavano estranei ai suoi compiti di servizio e ispirati a finalità ed interessi ugualmente non riferibili al servizio ed all’interesse dell’amministrazione. Donde, a giudizio del T.A.R., l’inapplicabilità della norma invocata.

3. L’interessato ha proposto appello a questo Consiglio, riproponendo le tesi già dedotte in primo grado. L’amministrazione della Polizia di Stato si è costituita con atto di mera forma.

L’appello viene ora in decisione.

4. Il Collegio ritiene opportuno sintetizzare innanzi tutto la vicenda di fatto che ha dato luogo al processo penale che ha visto quale imputato l’attuale appellante, unitamente ad un altro appartenente alla Polizia di Stato, l’agente Sacco (autore a sua volta di un analogo giudizio amministrativo, discusso ugualmente alla udienza odierna), e una cittadina straniera, Da. I.. Ci si baserà sulla esposizione dei fatti contenuta nella sentenza penale di assoluzione.

La vicenda aveva tratto origine da un’azione di polizia, tendente alla repressione del fenomeno della prostituzione esercitata da immigrate clandestine, nell’agosto 1998. Detta azione era culminata nell’accompagnamento in Questura, per accertamenti, di circa 70 prostitute prive di documenti o comunque in posizione irregolare dal punto di vista amministrativo. Fra queste vi era una straniera priva di documenti, presentatasi con il nome di Mi. S., di nazionalità rumena (all’epoca extracomunitaria). Costei era stata sottoposta – al pari delle altre – alle procedure di “fotosegnalazione” e prelievo delle impronte digitali con la conseguente schedatura cartacea ed informatica.

Diversi mesi più tardi altri agenti della Questura scoprivano – grazie ad accurate ricerche da loro intraprese sulla base di un sospetto originato da un caso fortuito – che la scheda cartacea relativa alla Mi. S. era scomparsa e quella informatica era stata cancellata; che ciò non impediva, in senso assoluto, che le relative informazioni venissero recuperate, ma produceva l’effetto che la straniera era intanto sottratta ai controlli di routine; che nel frattempo costei, con il nominativo di Da. I., aveva presentato domanda di regolarizzazione ai sensi del d.P.C.M. 16 ottobre 1998; che nella presentazione di tale domanda e nel reperimento della documentazione occorrente la straniera era stata “aiutata” dall’ispettore Ranieri e dall’agente Sacco. Questi ultimi, interpellati in proposito, avevano senz’altro ammesso – sostenendo di avere operato a fini investigativi – di essersi interessati alla procedura di regolarizzazione della Da. I., e anche di avere asportato la scheda di fotosegnalazione, che prontamente restituivano.

Era seguita l’imputazione dei due agenti di P.S., per plurimi reati di falso (avere occultato la scheda di fotosegnalazione; avere procurato alla straniera attestazioni non veritiere ai fini della regolarizzazione) e per il reato di omessa denuncia (non avere denunciato Da. I. per il reato di falsa dichiarazione di generalità essendosi originariamente presentata come Mi. S.); la straniera era stata a sua volta imputata per avere utilizzato, ai fini della regolarizzazione, attestazioni non veritiere.

Il Tribunale penale ha assolto gli imputati, con la formula “il fatto non sussiste”. La sentenza è motivata con la considerazione che i supposti illeciti per diversi profili non erano adeguatamente provati, e per altri profili non integravano condotte penalmente rilevanti (quest’ultimo, fra l’altro, era il caso dell’asportazione della scheda segnaletica: secondo il giudice penale, tale fatto non integrava il reato di falso per occultamento, di cui all’art. 490 c.p., perché la scheda stessa era rimasta custodita nel cassetto della scrivania di uno dei due agenti all’interno dell’ufficio ed era stata esibita appena altri agenti ne avevano segnalata la scomparsa).

5. Così sommariamente esposti i fatti, si passa all’esame delle questioni di diritto.

5.1. La prima questione è se sia corretta l’interpretazione restrittiva data dal T.A.R. alla disposizione che limita il beneficio (rimborso delle spese difensive) alle imputazioni penali conseguenti a “fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali”.

In proposito il T.A.R. ha affermato che “il fatto oggetto del giudizio penale deve essere stato compiuto nell’esercizio delle attribuzioni affidate al dipendente e deve esservi un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere ed il compimento dell’atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non ponendo in essere quella determinata condotta”.

Questo principio di diritto è stato enunciato dal T.A.R. a conclusione di uno sviluppo argomentativo ragionevole e coerente, suffragato da numerosi precedenti giurisprudenziali. L’atto di appello non contrappone alcun argomento, limitandosi a riprodurre le motivazioni del ricorso di primo grado.

Relativamente alla questione di massima la sentenza appellata deve, dunque, essere confermata.

5.2. Ciò posto, si deve ora applicare alla fattispecie concreta il principio ora affermato.

Ciò posto, il Collegio deve, dunque, valutare se i comportamenti, per i quali i due agenti sono stati processati e poi assolti, siano stati posti in essere nell’adempimento dei compiti di servizio e nell’interesse dell’amministrazione.

Nel caso di specie i suddetti comportamenti non appaiono corrispondere né all’adempimento di compiti di servizio né all’interesse dell’amministrazione.

Gli appellati, una volta scoperti, hanno dichiarato di avere aiutato e favorito la straniera Da. I., alias Mi. S., per finalità investigative, e più precisamente per ottenere da costei utili informazione sull’organizzazione e sullo sfruttamento della prostituzione. Tuttavia è pacifico (non avendo essi mai affermato il contrario) che avevano agito di loro esclusiva iniziativa, per di più senza informarne in alcun modo i loro superiori. Ne hanno parlato solo nel momento in cui si sono visti scoperti; il che era avvenuto grazie ad un caso fortuito che aveva suscitato i sospetti di altri colleghi e aveva indotto questi ultimi a fare ricerche che in caso contrario nessuno avrebbe pensato di effettuare.

5.3. E’ significativa la relazione riservata, indirizzata al Questore il 17 febbraio 1999 dall’Ispettore Ranieri (anche nel’interesse dell’agente Sacco). L’Ispettore vi esponeva minuziosamente la sua versione dei fatti, ammettendo che entrambi, di comune accordo, avevano in vari modi “aiutato” la straniera nel suo tentativo di ottenere la regolarizzazione, sia per asserite finalità umanitarie, sia per indurla a collaborare alle indagini. Fra l’altro, le avevano procurato anche attestazioni (di dubbia veridicità, come ha ammesso anche il giudice penale pur pronunciando, nel dubbio, l’assoluzione) della sua presenza in Italia nel periodo richiesto per la sanatoria. Tuttavia, pur nell’evidente sforzo di giustificare, con profusione di particolari, l’operato degli agenti, la relazione non giunge ad indicare alcun elemento utile acquisito per questa via – benché dall’inizio della vicenda fossero trascorsi circa sei mesi.

5.4.Premesso quanto sopra, ai fini del presente giudizio, è sufficiente constatare che quelle motivazioni erano, comunque, manifestamente estranee ai doveri di ufficio ed agli interessi dell’amministrazione.

Si trattava di iniziative esclusivamente personali, assunte per il perseguimento di interessi ugualmente personali ancorché presuntivamente leciti; lo dimostra, fra l’altro, il fatto che tali iniziative hanno riguardato una sola straniera ben individuata, laddove l’operazione di polizia dell’agosto 1998 aveva prodotto l’accompagnamento in Questura, per accertamenti, di ben 70 straniere colte nell’esercizio della prostituzione, senza che sia stata evidenziata alcuna ragione oggettiva di tale preferenza.

6. In conclusione, l’appello va respinto e la sentenza appellata va confermata.

Le spese di questo grado di giudizio, liquidate in euro 2.000,00 oltre gli accessori di legge, seguono la soccombenza e, pertanto, sono poste a carico dellàappellante.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Terza) respinge l’appello in epigrafe e, per l’effetto, conferma la sentenza di primo grado.

Pone le spese di questo grado di giudizio, liquidate in euro 2.000,00 oltre gli accessori di legge, a carico dell’appellante.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 giugno 2015 con l’intervento dei magistrati:

Pier Giorgio Lignani – Presidente

Vittorio Stelo – Consigliere

Roberto Capuzzi – Consigliere

Lydia Ada Orsola Spiezia – Consigliere, Estensore

Paola Alba Aurora Puliatti – Consigliere

Depositata in Segreteria il 08 aprile 2016.

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