Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione III

sentenza 24 marzo 2015, n. 1574

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO
IN SEDE GIURISDIZIONALE
SEZIONE TERZA
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9329 del 2011, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’Avv. Fr.Sa., con domicilio eletto presso lo stesso Avv. Fr.Sa. in Roma, Via (…);
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE I TER n. 03462/2011, resa tra le parti, concernente la destituzione dal servizio per sanzione disciplinare
visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero dell’Interno;
viste le memorie difensive;
visti tutti gli atti della causa;
visto l’art. 52, commi 1 e 2, del d. lgs. 196/2003;
relatore nell’udienza pubblica del giorno 12 febbraio 2015 il Cons. Massimiliano Noccelli e udito, per il Ministero appellato, l’Avv. dello Stato Lo.D’A.;
ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
 

FATTO e DIRITTO

 
1. Con decreto del Capo della Polizia del 18.5.2004 l’Assistente della Polizia di Stato, sig. -OMISSIS-, è stato destituito dall’Amministrazione della Pubblica Sicurezza, a decorrere dal 19.3.2004, ai sensi dell’art. 7 nn. 1 e 2 del d.P.R. 737/1981, per essersi appropriato indebitamente, in qualità di capopattuglia durante un intervento per il tentativo di suicidio da parte di una donna, del telefono cellulare di questa, telefono che il predetto Assistente consegnava spontaneamente, dopo averne fatto uso, solo prima dell’esecuzione di un decreto di perquisizione nei suoi confronti.
2. Avverso il provvedimento di destituzione l’interessato ha proposto ricorso al T.A.R. Lazio, lamentandone l’illegittimità sotto diversi profili, e ne ha chiesto l’annullamento.
3. Si è costituita nel primo grado di giudizio l’Amministrazione per resistere al ricorso.
4. Il T.A.R. Lazio, con sentenza n. 3462 del 19.4.2011, ha respinto il ricorso.
5. Contro questa sentenza ha proposto appello l’interessato, deducendo due distinti motivi di censura che saranno di seguito esaminati, e ne ha chiesto la riforma, con conseguente accoglimento del ricorso proposto in primo grado.
6. Si è costituito il Ministero dell’Interno per resistere all’avversario gravame.
7. Nella pubblica udienza del 12.2.2015 il Collegio, udita la sola difesa erariale comparsa, ha trattenuto la causa in decisione.
8. L’appello è infondato e va respinto.
9. Con il primo motivo (pp. 3-10 del ricorso) l’appellante lamenta la violazione del d.P.R. n. 737/1981, l’eccesso di potere per travisamento dei fatti, per illogicità e per ingiustizia manifesta, nonché la violazione del principio di gradualità nell’applicazione della sanzione disciplinare.
9.1. Sostiene il sig. -OMISSIS-, più in particolare, che il giudice di primo grado ha considerato fondati gli addebiti contestati all’incolpato e, quindi, prive di ragionevole credibilità tutte le argomentazioni difensive da quest’ultimo prospettate e, in particolare, quella del casuale ritrovamento di un telefonino cellulare, senza batterie e privo di SIM card, posto in un cespuglio nelle vicinanze del luogo dove si era verificato il presunto incidente stradale, per il quale era stato prestato il servizio di soccorso stradale in favore di una signora, ferita e riversa supina sulla strada a seguito di un apparente tentativo di suicidio.
9.2. Il T.A.R. capitolino, secondo l’appellante, avrebbe trascurato che dagli atti di causa non emergeva prova alcuna, né testimoniale né documentale, che potesse smentire la tesi dell’incolpato e, cioè, che il telefonino veniva da lui casualmente trovato per terra ben lontano dall’auto della vittima.
9.3. In sostanza, dagli atti, compresi quelli relativi al procedimento penale, poi conclusosi nel 2004 con la sentenza di non luogo a procedere per mancanza di querela, emergeva che l’ipotesi di furto del telefonino cellulare, così come contestata, doveva ritenersi comunque esclusa, proprio perché non risultava in alcun modo comprovato che l’incolpato se ne fosse impossessato, prelevandolo dalla borsetta della vittima posta sul sedile dell’automobile di questa.
10. La tesi è priva di fondamento.
10.1. Dagli atti delle indagini preliminari e dell’accurata istruttoria svolta in sede disciplinare, infatti, è emerso che, in seguito alla denuncia del furto del cellulare, sporta dal marito della donna, e ai conseguenti accertamenti effettuati sui tabulati del gestore TIM, l’apparecchio risultava abbinato all’utenza telefonica intestata al medesimo sig. -OMISSIS- e, solo prima della perquisizione personale disposta nei suoi riguardi, questo “spontaneamente estraeva da una tasca del giubbino che indossava un telefono cellulare marca Nokia modello 3330 di colore grigio chiaro con rifiniture blu contraddistinto dal codice IMEI […]ovvero il cellulare oggetto delle indagini”.
10.2. Appare dunque evidente che, in occasione dell’intervento, egli si sia impossessato del cellulare – al di là delle modalità, del tutto irrilevanti, con le quali ciò si è verificato – e che, solo di fronte alla ineluttabile prospettiva di subire la perquisizione personale, si sia indotto a riconsegnare il cellulare sottratto alla proprietaria, che versava in stato di incoscienza, alle forze dell’ordine che gliene facevano richiesta.
10.3. La circostanza che, successivamente, l’interessato sia stato prosciolto per mancanza di querela da parte della persona offesa nulla toglie alla gravità del fatto, sul piano disciplinare, poiché la sottrazione del cellulare, in situazione, peraltro, di minorata difesa della sua proprietaria, che giaceva supina in terra, costituisce, come ha correttamente ritenuto il provvedimento di destituzione, atto di estrema gravità, che rivela mancanza del senso dell’onore e del senso morale, oltre che in contrasto con i doveri assunti con il giuramento, e pienamente giustifica, ai sensi dell’art. 7, nn. 1 e 2, del d.P.R. 737/1981, la destituzione dell’incolpato.
10.4. Bene ha rilevato nella sua deliberazione del 5.5.2004 il Consiglio Provinciale di Disciplina di Brescia che l’interessato si sia reso responsabile di un fatto gravissimo, minimo nella sostanza economica, ma devastante sotto il profilo dell’immagine e dell’affidabilità della Polizia di Stato nei confronti di tutti i cittadini e, soprattutto, di coloro che per qualsiasi ragione si trovino in uno stato di bisogno e necessitino di soccorso.
10.5. Nel comminare la più grave sanzione espulsiva, infatti, il Consiglio ha posto in rilievo che la riprovevolezza dei fatti contestati è acuita dal grado di responsabilità del capopattuglia, dall’aver agito durante un servizio di soccorso stradale, approfittando del fatto di dover esperire ricerche di cose e tracce inerenti all’incidente, e soprattutto dal fatto che la vittima era ferita e in stato di choc, “tutte circostanze che evidenziano ancor più il basso profilo morale del dipendente” e, per quanto accertato sia in fase di indagini preliminare che in seno al procedimento disciplinare, il Consiglio ha ritenuto, ragionevolmente, di non proporre una sanzione di minore entità rispetto alla destituzione, pur tenendo conto dello stato di servizio dell’incolpato, della mancanza di precedenti disciplinari a suo carico, della resipiscenza, pur tardiva, mostrata per il gesto compiuto nell’ambito del procedimento disciplinare.
10.6. Per le ragioni esposte non giova all’appellante lamentare quindi, in questa sede, la mancanza di proporzionalità dell’estrema sanzione disciplinare comminatagli, a suo dire eccessiva e ingiustificata, poiché l’essersi impossessato del cellulare, l’averlo usato per quasi due mesi senza denunciare il ritrovamento, l’averlo riconsegnato solo di fronte all’imminenza della perquisizione personale ormai preannunciatagli, sono tutte condotte di particolare gravità, rispetto alle quali la destituzione appare proporzionata e ragionevole, non potendo dette condotte essere assimilate a “leggerezze” degne di una mera deplorazione o punibili con la sola sospensione dal servizio, ma costituendo atti radicalmente incompatibili con la permanenza dell’interessato in Polizia, come si legge correttamente nel provvedimento di destituzione, in quanto “assolutamente inconciliabile con le funzioni proprie di un operatore di polizia”.
11. Deve essere rigettato anche il secondo motivo di appello (pp. 10-13 del ricorso), con il quale l’interessato lamenta la violazione dell’art. 11, comma secondo, del d.P.R. 737/1981, in quanto assume che l’Amministrazione ha avviato e rapidamente concluso il procedimento disciplinare a suo carico, il 18.5.2014, senza preoccuparsi della pendenza e della conclusione del procedimento penale, definito dal G.U.P. presso il Tribunale di Brescia con sentenza n. 720/2004, depositata il 1.7.2004, con sentenza di non luogo a procedere per mancanza della querela e, quindi, per difetto di una condizione di procedibilità.
11.1. Al riguardo si deve rilevare, conformemente, del resto, alla consolidata giurisprudenza della Sezione (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 30.10.2013, n. 5228), che sulla questione se il procedimento disciplinare non possa essere iniziato o, se iniziato, vada sospeso solo dopo l’esercizio dell’azione penale o anche in pendenza delle indagini preliminari, si è pronunciata l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, nella sentenza n. 1 del 29.1.2009, la quale ha interpretato l’art. 11 del d.P.R. n. 737 del 1981, in combinato disposto con l’art. 117 del d.P.R. 3/1957, concludendo che il dovere dell’Amministrazione di non dare inizio al procedimento disciplinare o di sospendere il procedimento già avviato sorge solo nel momento in cui viene esercitata l’azione penale (con gli atti tipizzati dal vigente c.p.p. ai quali segue l’assunzione della qualità di imputato), con conseguente assunzione della qualifica di imputato da parte del soggetto sottoposto anche al procedimento disciplinare, mentre nel caso di specie l’interessato mai ha assunto la qualifica di imputato o, se tale qualifica ha assunto, come egli sostiene, nel rito abbreviato al quale ha chiesto di accedere, è stato comunque e ormai solo successivamente all’emissione del provvedimento destitutorio, emesso il 18.5.2004.
11.2. Quel che è certo e solo rileva, ai fini del presente giudizio, è infatti la circostanza che il 18.5.2014, allorché egli fu destituito, non aveva assunto la qualifica di imputato.
11.3. Ne segue che anche il secondo motivo, in quanto destituito di fondamento in fatto e in diritto, deve essere respinto.
12. In conclusione l’appello va rigettato, meritando piena conferma la sentenza impugnata.
13. Le spese del presente grado di giudizio, attesa la particolarità della vicenda umana qui considerata, possono essere interamente compensate tra le parti.
 

P.Q.M.

 
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1, del d. lgs. 196/2003, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, per procedere all’oscuramento delle generalità degli altri dati identificativi di -OMISSIS-, manda alla Segreteria di procedere all’annotazione, di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini indicati.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 febbraio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Carlo Deodato – Presidente FF
Vittorio Stelo – Consigliere
Roberto Capuzzi – Consigliere
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Massimiliano Noccelli – Consigliere, Estensore
Depositata in Segreteria il 24 marzo 2015

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