Clausola risolutiva espressa e la comunicazione di avvalersi della clausola stessa

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|8 aprile 2024| n. 9369.

Clausola risolutiva espressa e la comunicazione di avvalersi della clausola stessa

La risoluzione di diritto di un contratto, prevista dai contraenti con apposita pattuizione quale conseguenza dell’inadempimento – di qualsiasi entità – di una determinata obbligazione non si verifica automaticamente, ma solo nel momento in cui il contraente, nel cui interesse la clausola sia stata pattuita, comunichi all’altro contraente inadempiente che intende avvalersi della clausola stessa, tanto è vero che, quando il diritto potestativo di risolvere il contratto in forza di tale clausola risulti proposto con domanda giudiziale – non essendo, invero, necessario che sia fatto dalla parte fuori del giudizio e prima di questo, la risoluzione retroagisce al momento della domanda e non ad un momento anteriore.

Ordinanza|8 aprile 2024| n. 9369. Clausola risolutiva espressa e la comunicazione di avvalersi della clausola stessa

Data udienza 29 novembre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Atto di acquisto da parte del terzo – Anteriorità della trascrizione rispetto alla proposizione della domanda di condanna – Possibilità per il terzo di fondare l’opposizione all’esecuzione anche su difese che la sentenza preclude al debitore – Rigetto del ricorso

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RUBINO Lina – Presidente

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Rel. Consigliere

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso 30307-2021 proposto da:

(…) Spa, e per essa, in qualità di mandataria, (…) Spa, in persona del procuratore speciale Dott.ssa Cr. MO., domiciliata presso l’indirizzo di posta elettronica del proprio difensore, rappresentata e difesa dall’Avvocato Sa. GI.;

– ricorrente –

contro

(…) Sas DI Pa.Pe. E C., in persona del socio accomandatario e legale rappresentante “pro tempore”, domiciliata presso l’indirizzo di posta elettronica del proprio difensore, rappresentata e difesa dall’Avvocato Gi. RO.;

– controricorrente –

nonché contro

(…) Srl IN LIQUIDAZIONE, Va.Do., Va.St., Va.Vi.;

– intimati –

Avverso la sentenza n. 2012/20 della Corte d’appello di Bari, depositata il 26/11/2020;

udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 29/11/2023 dal Consigliere Dott. Stefano Giaime GUIZZI.

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FATTI DI CAUSA

1. La società (…) Spa, o meglio, per essa, la sua mandataria, (…) Spa, ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 2012/20, del 26 novembre 2020, della Corte d’appello di Bari, che – accogliendo, “per quanto di ragione” il gravame esperito, in via di principalità, dalla società (…) Sas di Pa.Pe. E C. (d’ora in poi, “(…)”), avverso la sentenza n. 1779/11, del 23 maggio 2011, del Tribunale della stessa città, respingendo quello incidentale dell’odierna ricorrente – ha così provveduto.

Essa, in particolare, ha condannato la società (…) Srl, “ove occorra in persona della sua mandataria (…) Spa” (poi fusa per incorporazione in (…) Spa, che ha contestualmente assunto la denominazione in (…) Spa), “alla restituzione, in favore dell’appellante principale, (…) Sas, della somma di Euro 98.262,06, al lordo dell’importo già liquidato in prime cure, oltre interessi legali dal 31 luglio 2007 al soddisfo, detratto quanto già versato dall’appellante incidentale e/o dalla sua mandataria, in ottemperanza della sentenza di primo grado”.

2. Dalla narrativa dei fatti di causa e dall’illustrazione dei motivi di impugnazione, contenute nel presente ricorso, emerge la seguente vicenda sostanziale e processuale.

2.1. La società (…), con atto di compravendita del 2 maggio 2002, diveniva proprietaria – per averlo acquistato dalla società (…) Srl – di un complesso immobiliare sito in agro di C, oggetto di ipoteca concessa in favore della società (…) Spa (d’ora in poi, “(…)”). L’ipoteca, in particolare, era stata conferita a garanzia del credito restitutorio spettante a (…) in relazione ad un finanziamento a medio termine, concesso a (…) ai sensi del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218, in virtù di scrittura privata dell’11 agosto 1988.

Avendo (…) conseguito dal Tribunale di Bari, in data 12 novembre 2002, un decreto ingiuntivo – dell’importo di Euro 116.291,58 – nei confronti della predetta società Va.Vi. (e dei fideiussori, Ir.La., St.Vi. e Do.Vi.), in relazione al mancato adempimento delle obbligazioni nascenti dal suddetto contratto di finanziamento, tale provvedimento monitorio, non opposto e dunque dichiarato esecutivo, veniva messo in esecuzione attraverso procedura espropriativa immobiliare contro il terzo proprietario, ovvero la predetta (…). Questa, per parte propria, esperiva opposizione ex art. 615, comma 2, cod. proc. civ., invocando l’applicazione dell’art. 2859 cod. civ., e dunque per opporre a (…) – sul presupposto che la domanda monitoria diretta a ottenere la condanna del debitore fosse posteriore alla trascrizione del suo titolo di acquisto – le eccezioni non sollevate della debitrice, ovvero la predetta società (…), dalla quale (…) aveva acquistato il complesso immobiliare oggetto della procedura espropriativa. In particolare, l’opponente (…) eccepiva – a norma, appunto, dell’art. 2859 cod. civ. – l’insussistenza del credito azionato “in executivis”, in ragione dell’illegittimità della risoluzione del contratto di finanziamento, con decadenza del debitore dal beneficio del termine, con decorrenza dal 30 giugno 1995, risoluzione intimata dalla creditrice, in forza di clausola risolutiva espressa, solo con comunicazione del 21 maggio 1997, allorché residuavano da pagare unicamente le ultime due rate del concesso finanziamento. Con tale comunicazione, peraltro, era stata anche riconosciuta la disponibilità della creditrice a sospendere gli effetti della risoluzione, a condizione, però, che entro il 31 maggio 1997, fosse stata pagata la somma di Lire 164.147.635, corrispondente al debito, a quella data, di Va.Vi., per rate scadute ed interessi.

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Assumeva, inoltre, l’opponente che la società debitrice aveva corrisposto, in data 18 giugno 1997, la somma di Lire 140.000.000, provvedendo, infine, il 14 gennaio e il 29 maggio del 1998, al pagamento delle due ultime rate del concesso finanziamento. L’importo residuo della debitoria, pertanto, una volta esclusi gli effetti della risoluzione del contratto (con decorrenza dal momento dell’inadempimento e non, come invece sostenuto dall’opponente, dalla comunicazione di (…) di volersi avvalere della clausola risolutiva), risultava, dunque, notevolmente inferiore a quello indicato nel titolo portato ad esecuzione. Peraltro, secondo l’opponente, nemmeno erano dovuti gli interessi di mora praticati da (…), la quale aveva chiesto ed ottenuto – in sede monitoria – pure il riconoscimento degli interessi anatocistici, sebbene non spettanti. (…), dunque, chiedeva che fosse accertata la misura degli interessi moratori sia in applicazione di quanto previsto dalla legge 7 marzo 1996, n. 108, sia per effetto della riduzione ad equità degli stessi, ex art. 1384 cod. civ., e la non debenza degli interessi anatocistici contabilizzati in corso di rapporto.

Si costituiva nel giudizio di opposizione, per resistere all’iniziativa di (…), (…), il cui credito veniva poi ceduto – in corso di causa – alla società (…) e, di seguito, alla mandataria di questa, la società (…) (divenuta a propria volta, attraverso diverse vicende di trasformazione societaria, (…)).

Instaurata la fase di merito del giudizio di opposizione (dopo che la richiesta di sospensione dell’esecuzione era stata rigettata), esso veniva istruito anche mediante lo svolgimento di consulenza tecnica d’ufficio. L’esito del primo grado consisteva in un parziale accoglimento dell’opposizione, ritenendosi, innanzitutto, che (…) fosse abilitata a sollevare – a norma dell’art. 2859 cod. civ. – le eccezioni che, in relazione al contratto di finanziamento (fonte del credito azionato dapprima in via monitoria e poi esecutiva), avrebbe potuto far valere (…); nel merito, invece, si statuiva che il credito azionato “in executivis” ammontava, in realtà, a Euro 96.375,82 (e non Euro 116.291,58, come quantificato da (…) e risultante dal decreto ingiuntivo), donde il diritto dell’opponente “alla restituzione della somma di Euro 22.564,57”, pari alla differenza dei due importi, “oltre interessi legali”. A tale conclusione il giudice dell’opposizione perveniva sul rilievo che (…) aveva provveduto al versamento di tutte le somme dovute in forza dell’ordinanza emessa dal giudice dell’esecuzione a seguito della conversione del pignoramento ex art. 495 cod. proc. civ..

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2.2. Esperito gravame da entrambe le parti, il giudice d’appello – all’esito di un’integrazione della consulenza tecnica d’ufficio – accoglieva, “per quanto di ragione”, solo quello principale esperito da (…). Tale decisione veniva assunta riconoscendo – diversamente da quanto statuito dal primo giudice – che gli effetti della risoluzione del contratto di finanziamento dovessero decorrere solo dal 21 maggio 1997 (data della comunicazione di (…) di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa), donde una nuova rideterminazione della debitoria per cui è causa in Euro 72.147,97; sicché, avendo l’appellante principale versato il maggiore importo di Euro 170.410,03, il suo credito restitutorio da indebito veniva determinato in Euro 98.262,06, oltre agli interessi legali, dal 31 luglio 2007.

3. Avverso la sentenza della Corte barese ha proposto ricorso per cassazione (…), sulla base – come detto – di due motivi.

3.1. Il primo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione del combinato disposto degli artt. 2859, 1375 e 2909 cod. civ..

Si censura la sentenza impugnata là dove ha affermato che, ai sensi dell’art. 2859 cod. civ., “se la domanda con la quale sia stata chiesta la condanna del debitore (datore di ipoteca), all’esito della quale si sia formato il titolo esecutivo, è anteriore alla trascrizione dell’acquisto del bene da parte del terzo acquirente dell’immobile ipotecato, quest’ultimo, potrà opporre al creditore in sede di opposizione all’esecuzione solo le difese che ancora spettano al debitore dopo la condanna”, mentre se, come nella specie, “la trascrizione dell’atto di acquisto da parte del terzo è anteriore alla proposizione della domanda di condanna, il terzo non è in alcun modo vincolato al contenuto della pronuncia che, contrariamente a quanto assunto dall’appellante incidentale, non forma giudicato nei suoi confronti”, sicché il terzo “può fondare l’opposizione all’esecuzione anche su difese che la sentenza preclude al debitore, quali appunto quelle rivenienti dal giudicato formatosi nei suoi confronti”.

Assume la ricorrente che la norma richiamata “non dice espressamente tutto quello che è stato dedotto dalla Corte di Appello”. Difatti, se per un verso “è assolutamente vero che l’art. 2859 cod. civ. disciplina il tipo di eccezioni che possono essere fatte dal terzo laddove il suo acquisto sia anteriore alla condanna, per altro verso è altrettanto innegabile che la norma, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello, non prevede espressamente il tipo di eccezioni sollevabili nel differente caso di acquisto posteriore alla condanna”.

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In realtà, prosegue la ricorrente, “la possibilità di mettere in discussione, con il meccanismo interpretativo dell’art. 2859 cod. civ., un provvedimento già passato in giudicato, è esclusa dalla stessa ratio di tale norma, da valutarsi nel contesto dell’intero ordinamento giuridico”, il quale non consente di derogare a principi come “quello della c.d. “certezza del diritto”, nonché quello della “buona fede” ex art. 1375 cod. civ e del rispetto del “giudicato” ex art. 2909 cod. civ.” (non potendo negarsi che, per pacifico principio giurisprudenziale, anche il decreto ingiuntivo, non opposto, passi in giudicato), a meno che non si tratti “di tutelare i terzi acquirenti di immobili ipotecati in buona fede”.

Tale, tuttavia, non sarebbe il caso che occupa, nel quale (…) ha acquistato “un immobile per Euro 700.000,00, gravato da un vincolo ipotecario, senza pretendere dal suo dante causa la prova dell’estinzione di tutte le ragioni debitorie garantite, ma accontentandosi meramente di una dichiarazione non veritiera (cioè che il debito era estinto), resa nel rogito notarile”. Ciò che, peraltro, è facilmente spiegato “dalla circostanza, indubbiamente provata nel corso dei due gradi di giudizio in quanto mai smentita da controparte, che i soggetti acquirenti dell’immobile de quo erano i medesimi venditori”, sol che si ponga mente alla compagine sociale di (…) e (…); difatti, come da visura camerale in atti, soci della società acquirente erano Do.Vi., Ir.La. e Pa.Pe., i primi due anche soci della società venditrice, mentre il terzo è il figlio di altro socio (Fr.Pe., a suo tempo anche amministratore unico) di (…)

D’altra parte, nella medesima prospettiva, ovvero dell’assenza di buona fede della terza acquirente, rilevante sarebbe la circostanza che alla stessa data di conclusione del contratto di compravendita – il 2 maggio 2002 – e per ministero dello stesso Notaio, la società (…) venisse sciolta e posta in liquidazione. Così come, del resto, la sostanziale identità soggettiva tra chi ha comprato e chi ha venduto rende “difficile ritenere meritevole di tutela” – osserva la ricorrente – “chi ha comprato prima della formazione del decreto ingiuntivo (del quale era comunque a conoscenza, in quanto notificatogli in altra veste, quale garante della società alienante), consentendogli, ex art. 2859 cod. civ., di impugnarlo, pur essendo il medesimo già passato in giudicato da oltre quattro anni”.

3.2. Il secondo motivo denuncia – sempre ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione dell’art. 1456 cod. civ..

In questo caso si censura la sentenza impugnata per aver ricollegato la decorrenza della risoluzione del rapporto contrattuale “alla data del 21 maggio 1997”, ovvero quella “in cui l’originaria creditrice comunicò alla debitrice di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa prevista dall’art. 8 del contratto di mutuo”. La pronuncia in esame, pertanto, ha dato rilevanza, “rispetto all’antecedente dato obiettivo dell’inadempimento, al comportamento della creditrice, la quale accettando pagamenti in acconto, avrebbe manifestato implicitamente” – secondo la ricostruzione che la ricorrente fa del “dictum” della Corte territoriale – “il proprio intento di non volersi avvalere, sino a quella data, della clausola risolutiva espressa”.

Nel premettere che “la debitrice non ha approfittato della possibilità offertale di evitare la risoluzione del contratto”, non avendo provveduto “ad estinguere la propria debitoria, con nessuna delle due modalità contemplate nella suddetta nota del 21 maggio 1997” (tanto che la banca creditrice, stante il protrarsi dell’inadempimento, “si vedeva costretta nell’ottobre del 2002 a richiedere ingiunzione di pagamento per il saldo, alla data del 31 agosto 2002, di Euro 116.291,58”), la ricorrente sottolinea l’erroneità in diritto della tesi della Corte barese che attribuisce “carattere recettizio alla comunicazione di risoluzione, collegando tale risoluzione non al momento dell’inadempimento (30 giugno 1995), ma alla ricezione della raccomandata”. Difatti, la clausola suddetta prevedeva la risoluzione di diritto del contratto, “senza necessità di alcuna costituzione in mora”, nel caso di “mancato o ritardato adempimento, sia pure parziale, delle seguenti obbligazioni”, ovvero: “rimborso del finanziamento in linea capitale e pagamento degli interessi e degli eventuali accessori”. La risoluzione ex art. 1456 cod. civ. opera di diritto, sicché i suoi effetti erano destinati a prodursi dal momento dell’inadempimento, e non dalla comunicazione con cui la creditrice dichiarava di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa.

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Né, d’altra parte, in senso contrario, potrebbe attribuirsi rilievo – come ha fatto la sentenza impugnata – ad un “presunto comportamento tollerante” della creditrice (di cui, peraltro, “non è stata fornita alcuna prova durante i due gradi di giudizio”), tale “da giustificare i ritardati pagamenti, e rendere, per l’effetto, inoperante la clausola risolutiva espressa”. Simili comportamenti, infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità – sottolinea sempre la ricorrente – “non comportano il venir meno dell’operatività della detta clausola né costituiscono, di per sé, prova della sua rinunzia tacita”.

Infine, si contestano anche “le risultanze della integrazione di C.T.U.”, espletata in grado di appello, al riguardo la ricorrente “riportandosi integralmente, per motivi di sintesi di esposizione, a tutto quanto argomentato negli atti di causa depositati in uno al presente ricorso”.

In particolare, si assume che l’ausiliario avrebbe “errato nella individuazione dei tassi soglia”, avendo “fatto riferimento a quelli convenzionali, ben diversi da quelli moratori, applicabili in caso di risoluzione del rapporto contrattuale, come nel nostro caso”. Assume, sul punto, la ricorrente “che il tasso soglia per gli interessi di mora deve essere stabilito nella percentuale pari al tasso effettivo globale medio maggiorato di 2.1 punti, aumentata della metà”, rinviando “alla tabella contenuta a pag. 5 delle osservazioni, trasmesse a mezzo “pec” del 1° aprile 2019, alla bozza di C.T.U. integrativa formulate dal consulente di parte appellata”, nonché “allegate alla relazione definitiva del 2 aprile 2019”.

Inoltre, sempre “ai fini del corretto calcolo degli interessi moratori, si evidenzia un ulteriore errore” in cui sarebbe incorso il C.T.U., giacché “per tutto il periodo di ricalcolo, ha utilizzato il tasso soglia previsto per la categoria dei mutui a tasso variabile e non, come correttamente rilevato dal consulente di parte appellata”, “quello della categoria dei mutui a tasso fisso a partire dal 1 luglio 2004”, giacché “fino al 30 giugno 2004 i bollettini della Banca d’Italia non prevedevano alcuna distinzione tra i mutui a tasso fisso e quelli a tasso variabili”.

4. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, (…), chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.

In via preliminare, peraltro, essa ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità dell’impugnazione per difetto di legittimazione attiva – o comunque per carenza di interesse – in capo all’odierna ricorrente.

A sostegno di tale eccezione, la controricorrente osserva come nello stesso atto di impugnazione – pag. 24, conclusioni sub 2) – si affermi che, qualunque sia il criterio con cui debbono essere computate le somme a credito della (…), quest’ultima risulterebbe comunque debitrice della (…). E ciò, secondo i più favorevoli criteri di computo per la stessa (…), solo per Euro 351,62, nell’ipotesi in cui la risoluzione del contratto di mutuo avesse prodotto i suoi effetti dal 30 giugno 1995 (e non dal 21 maggio 1997) e gli interessi spettanti alla allora (…) fossero calcolati sulla base di parametri diversi da quelli adottati dal CTU nelle sedi di merito.

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Orbene, dal momento che essa (…) ha completato il versamento delle somme dovute in forza dell’ordinanza emessa ex art. 495 cod. proc. civ. dal giudice dell’esecuzione, nessun credito di (…) – del quale l’odierna ricorrente è divenuta titolare, in forza delle vicende successorie sopra illustrate – residuerebbe in capo a (…), che alcuna utilità, pertanto, ricaverebbe dall’accoglimento dell’impugnazione, donde il difetto di legittimazione della ricorrente e, comunque, la sua carenza di interesse.

5. Sono rimasti solo intimati la società (…) Srl, in liquidazione, nonché Stella e Do.Vi., entrambi evocati nel presente giudizio sia in proprio che come eredi di Ir.La., nonché, il secondo, pure quale tutore di Do.Vi., anch’egli erede della La..

6. La trattazione del presente ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ..

7. La controricorrente ha depositato memoria.

8. Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.

RAGIONI DELLA DECISIONE

9. In via preliminare, va disattesa la (duplice) eccezione, sollevata dalla controricorrente di carenza di legittimazione attiva e di difetto di interesse in capo a (…).

Difatti, le conclusioni formulate dalla ricorrente a pag. 24, sub 2), dalle quali (…) trae la conclusione secondo cui, nella stessa prospettazione di chi impugna, non sussisterebbe alcun credito idoneo a giustificare l’esecuzione, sono, per vero, solo quelle proposte in via di subordine. In relazione, pertanto, alle conclusioni rassegnate in via di principalità, che mettono in discussione l’ammissibilità stessa dell’opposizione proposta da (…) (nonché la correttezza della decisione assunta dalla Corte territoriale sia di far decorrere l’effetto della risoluzione dalla comunicazione del 21 maggio 1997, sia di conteggiare gli interessi secondo il calcolo compiuto dall’ausiliario), sussiste tanto la legittimazione che l’interesse ad impugnare.

10. Ciò detto, il ricorso va rigettato.

10.1. Il primo motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato.

10.1.1. La prima censura proposta dal ricorrente è quella di violazione dell’art. 2859 cod. civ., norma che – si sostiene – “non dice espressamente tutto quello che è stato dedotto dalla Corte di Appello”, giacché, se per un verso “è assolutamente vero” che essa “disciplina il tipo di eccezioni che possono essere fatte dal terzo laddove il suo acquisto sia anteriore alla condanna, per altro verso è altrettanto innegabile che la norma, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello, non prevede espressamente il tipo di eccezioni sollevabili nel differente caso di acquisto posteriore alla condanna”.

La censura non coglie l’effettiva “ratio decidendi” della sentenza impugnata (donde la sua inammissibilità; cfr. Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01; in senso conforme Cass. Sez. 6-3, ord. 3 luglio 2020, n. 13735, Rv. 658411-01), secondo cui, quando, “come nella specie, la trascrizione dell’atto di acquisto da parte del terzo è anteriore alla proposizione della domanda di condanna, il terzo non è in alcun modo vincolato al contenuto della pronuncia che, contrariamente a quanto assunto dall’appellante incidentale, non forma giudicato nei suoi confronti sicché può fondare l’opposizione all’esecuzione anche su difese che la sentenza preclude al debitore, quali appunto quelle rivenienti dal giudicato formatosi nei suoi confronti”.

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La sentenza, dunque, non prende affatto posizione sulla questione relativa alle “eccezioni sollevabili nel differente caso di acquisto posteriore alla condanna”. E ciò per l’evidente ragione che la fattispecie da essa esaminata era proprio quella, contemplata dal comma 1 dell’art. 2859 cod. civ., di una domanda – proposta in sede monitoria, a suo tempo, da (…) – posteriore alla trascrizione del titolo del terzo acquirente. Difatti, è la stessa ricorrente ad affermare (pag. 18 del proprio atto di impugnazione) che “la banca creditrice, stante il protrarsi dell’inadempimento, si vedeva costretta nell’ottobre del 2002 a richiedere ingiunzione di pagamento”, con ciò confermando la posteriorità della domanda monitoria rispetto alla trascrizione dell’atto di acquisto di (…), risalente al 2 maggio 2002. Ancora recentissimamente, infatti, questa Corte ha ribadito che “in relazione al deposito del ricorso per decreto ingiuntivo, opera il principio secondo cui il procedimento monitorio pende in esito alla notifica del ricorso e del decreto, ma gli effetti processuali e sostanziali della domanda (e tra essi quelli legati alla litispendenza e continenza) retroagiscono al momento del deposito del ricorso”, sempre che, beninteso, “la domanda monitoria sia stata formulata davanti a giudice che, alla data della presentazione, era competente a conoscerla” (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 26 settembre 2023, n. 27346, Rv. 668985-01, non massimata sul punto, che richiama Cass. Sez. Un., ord. 1° ottobre 2007, n. 20596, Rv. 599253-01).

È, dunque, l’anteriorità della trascrizione del titolo di acquisto di (…) rispetto al deposito del ricorso monitorio di (…) (tale deposito integrando il momento della proposizione della “domanda”, rilevante ai fini ed effetti di cui all’art. 2859, comma 1, cod. civ.), ad aver legittimato (…) a sollevare, mediante opposizione esecutiva, quelle eccezioni che alla creditrice esecutante avrebbe potuto opporre la debitrice (…), senza che possa operare la preclusione “di giudicato”, costituito, nella specie, dall’inopponibilità del decreto ingiuntivo conseguito, verso di essa, da (…). Da ciò deriva, dunque, la non fondatezza della seconda censura formulata con il presente motivo di ricorso, quella di violazione dell’art. 2909 cod. civ..

10.1.2. Difatti, come si è osservato in dottrina, a rigor di termini, il giudicato ottenuto dal creditore nei confronti del debitore dovrebbe fare stato anche nei confronti del terzo acquirente (ex art. 2909 cod. civ.), salvo il caso di collusioni a suo danno, che lo legittimano all’esercizio dell’azione ex art. 404 cod. proc. civ.; ciò che discende dall’applicazione del principio di accessorietà delle garanzie prestate da terzi, per cui il debito per il quale il terzo è chiamato a rispondere risente immediatamente di tutte le modificazioni e di tutti gli accertamenti che ineriscano al rapporto principale. Nei confronti del terzo acquirente, però, il principio trova un limite – come, parimenti, sottolineato in dottrina – proprio nella previsione normativa di cui all’art. 2859 cod. civ., la cui ragion d’essere va individuata nel fatto che il giudicato copre il dedotto ma non anche il deducibile, non potendosi far pagare al terzo le conseguenze negative dell’inerzia del debitore, con danno alla circolazione dei beni.

Di conseguenza, le eccezioni non fatte valere in giudizio in assenza del terzo acquirente, possono sempre essere opposte da quest’ultimo, purché il titolo di acquisto del terzo sia stato reso pubblico mediante la trascrizione prima dell’inizio del giudizio contro il debitore. Ciò evidentemente allo scopo di tutelare anche la posizione del creditore, che potrebbe ignorare l’alienazione e trovarsi pertanto esposto alle lungaggini ed alle spese di un nuovo giudizio.

Si tratta di affermazioni – queste illustrate – che hanno trovato riscontro anche nella giurisprudenza costituzionale, la quale ha sottolineato che “la norma di cui all’art. 2859 cod. civ.” riconosce al terzo acquirente il bene ipotecato, “il quale abbia trascritto il proprio titolo d’acquisto anteriormente alla proposizione della domanda di condanna nei confronti del debitore, e non abbia poi preso parte al relativo giudizio, la possibilità di opporre al creditore procedente anche in sede di espropriazione qualsiasi eccezione non opposta dal debitore e quelle che spetterebbero a questo dopo la condanna”, accordandogli “una autonoma legittimazione processuale” che “è diretta ad evitare che il giudizio relativo all’obbligazione garantita possa comportare, a causa della negligenza o della malafede del debitore, effetti pregiudizievoli per il terzo al quale, in quanto avente causa del debitore, tali effetti sarebbero, in via di principio, senz’altro opponibili (art. 2909 cod. civ.)”. (così Corte Cost., sent. 11 ottobre 1999, n. 386).

10.1.3. Escluso, dunque, che l’art. 2909 cod. civ. possa fungere da limite all’operatività dell’art. 2859 cod. civ., alla medesima conclusione deve giungersi quanto all’art. 1375 cod. civ., sicché anche tale censura deve ritenersi non fondata.

Invero, l’art. 2859 cod. civ. – diversamente, ad esempio, dall’art. 2652 cod. civ., che dà rilievo alla buona fede ai fini della tutela del terzo acquirente in situazioni di conflitto tra titoli trascritti (“bona fides”, peraltro, da intendere comunque in senso soggettivo, ovvero come ignoranza di ledere l’altrui diritto, e non secondo la nozione oggettiva delineata dall’art. 1375 cod. civ., ovvero come correttezza comportamentale e salvaguardia dell’altrui interesse, nei limiti di un non apprezzabile sacrificio di quello proprio) – non subordina alla buona fede del terzo acquirente, ma al solo fatto dell’anteriorità della trascrizione del suo atto di acquisto rispetto alla domanda fatta valere nei confronti del debitore, la possibilità di avvalersi delle eccezioni che costui avrebbe potuto opporre nel giudizio in cui si è formato il giudicato. Ciò che rende inconferenti le doglianze della ricorrente circa la sostanziale “sovrapponibilità” delle persone fisiche socie di (…) e (…) e in merito alla messa in liquidazione di quest’ultima alla stessa data di conclusione del contratto di compravendita dell’immobile ipotecato. Circostanze, queste, a ben vedere, rispetto alle quali la creditrice (…) – al pari delle cessionarie del suo credito – non era sprovvista di mezzi di tutela, sol che si pensi alla possibilità di agire a norma dell’art. 2901 cod. civ., privando di efficacia nei suoi confronti tale compravendita (e, dunque, incidendo sulla stessa legittimazione di (…) ad avvalersi dell’art. 2859 cod. civ.).

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In conclusione, sotto nessuno dei profili da esso evocati, il primo motivo può trovare accoglimento.

10.2. Anche il secondo motivo – che si articola in due censure, la seconda riguardando, in particolare, il computo degli interessi, come effettuato dall’espletata CTU (doglianza che si pone alla stregua di un autonomo motivo, ciò che impone di disattendere l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla controricorrente, per “mescolanza” di doglianze eterogenee; cfr. Cass. Sez. Un., sent. 6 maggio 2015, n. 9100, Rv. 635452-01) – è in parte non fondato e in parte inammissibile.

10.2.1. In particolare, la prima censura (di violazione dell’art. 1456 cod. civ.), svolta con riferimento alla decisione della Corte d’appello di far decorrere gli effetti della risoluzione dalla comunicazione del 21 maggio 1997, e non dal momento dell’inadempimento, ovvero dal 30 giugno 1995, non è fondata.

Nel pervenire a tale conclusione la sentenza impugnata si è attenuta al principio, affermato da questa Corte già da tempo, secondo cui “la risoluzione di diritto di un contratto, prevista dai contraenti con apposita pattuizione quale conseguenza dell’inadempimento – di qualsiasi entità – di una determinata obbligazione non si verifica automaticamente, ma solo nel momento in cui il contraente, nel cui interesse la clausola sia stata pattuita, comunichi all’altro contraente inadempiente che intende avvalersi della clausola stessa” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 18 giugno 1997, n. 5455, Rv. 505282-01; in senso conforme Cass. Sez. 1, sent. 16 maggio 2002, n. 7178, Rv. 554492-01), tanto è vero che, quando il diritto potestativo di risolvere il contratto in forza di tale clausola risulti proposto con domanda giudiziale – non essendo, invero, necessario che sia fatto dalla parte fuori del giudizio e prima di questo (cfr., sul punto, da ultimo Cass. Sez. 3, sent. 4 maggio 2005, n. 9275, Rv. 581338-01) – “la risoluzione retroagisce al momento della domanda e non ad un momento anteriore” (così Cass. Sez. Lav., sent. 27 ottobre 1975, n. 3575, Rv. 377770-01).

Né contrasta con tale conclusione il disposto – peraltro, neppure evocato dalla ricorrente – dell’art. 1458 cod. civ., giacché se è vero che tale norma si applica pure alla risoluzione ex art. 1456 cod. civ. (cfr., in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 20 febbraio 2015, n. 3455, Rv. 634453-01), essa, nello stabilire che la risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, non si applica ai contratti ad esecuzione continuata e periodica, quale deve ritenersi quello di finanziamento da cui derivava il credito azionato in via esecutiva.

10.2.2. Quanto, invece, alla seconda censura, che investe il computo degli interessi come effettuato dal CTU (e recepito in sentenza), essa risulta inammissibile.

Invero, le critiche rivolte all’elaborato del consulente d’ufficio non sono riprodotte nell’atto di impugnazione, “riportandosi integralmente” la ricorrente, “per motivi di sintesi di esposizione, a tutto quanto argomentato negli atti di causa depositati in uno al presente ricorso in ricorso”. La censura, dunque, non è formulata nel rispetto dell’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ., se è vero che “la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso” – ciò che nella specie non risulta avvenuto – “almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione” (Cass. Sez. 3, ord. 13 luglio 2021, n. 19989, Rv. 661839-01).

Infine, neppure può sottacersi la circostanza – evidenziata dalla controricorrente – che, in relazione all’errore “ulteriore” in cui si assume sarebbe incorso il C.T.U. (l’utilizzazione del tasso soglia previsto per la categoria dei mutui a tasso variabile e non quello della categoria dei mutui a tasso fisso a partire dal 1 luglio 2004), la Corte barese aveva rilevato la tardività dell’eccezione, avvenuta solo in sede di comparsa conclusionale d’appello, assumendo che essa “avrebbe dovuto essere denunciata con il proposto gravame incidentale”; affermazione, questa, che la ricorrente non si è data carico di confutare, come avrebbe dovuto, perché nella sostanza prospettante l’esistenza di un giudicato “interno”.

11. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico della ricorrente e liquidate come da dispositivo.

12. A carico della ricorrente, stante il rigetto del ricorso, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

Clausola risolutiva espressa e la comunicazione di avvalersi della clausola stessa

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condannando la società (…) Spa a rifondere, alla società (…) Sas di Pa.Pe. E C., le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 8.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma il 29 novembre 2023.

Depositata in Cancelleria l’8 aprile 2024.

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