Corte di Cassazione, sezione terza civile, Ordinanza 4 giugno 2018, n. 14216.
La massima estrapolata:
Il precettore o il maestro d’arte, per liberarsi dalla presunzione di colpa posta a loro carico dall’articolo 2048 del Cc, hanno l’onere di provare che né loro, né alcun altro precettore diligente, ai sensi dell’articolo 1176, comma 2, avrebbe potuto nelle medesime circostanze evitare il danno.
Ordinanza 4 giugno 2018, n. 14216
Data udienza 17 aprile 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente
Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere
Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1929-2016 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS);
– intimati –
avverso la sentenza n. 5831/2014 del TRIBUNALE di NAPOLI SEZIONE DISTACCATA di MARANO DI NAPOLI, depositata il 17/04/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 17/04/2018 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI.
FATTI DI CAUSA
1. Nel 2005 (OMISSIS) e (OMISSIS), sia in proprio che quali rappresentanti ex articolo 320 c.c. del figlio minore (OMISSIS), convennero dinanzi al Tribunale di Napoli, articolazione territoriale di Marano, (OMISSIS) ed (OMISSIS), sia in proprio che nella qualita’ di genitori di (OMISSIS), nonche’ (OMISSIS), esponendo che:
-) il proprio figlio (OMISSIS), di anni 19, il (OMISSIS) venne assassinato da (OMISSIS), all’epoca dei fatti di anni 15;
-) l’omicidio venne commesso all’esito d’una lite scoppiata tra i due giovani per futili motivi (parrebbe, il furto di alcune sigarette), all’interno dell’esercizio commerciale di (OMISSIS), esercente attivita’ di barbiere, ove la vittima svolgeva l’attivita’ di apprendista;
-) dei danni causati dall’omicidio dovevano rispondere, oltre che l’autore materiale, i suoi genitori per culpa in educando, e (OMISSIS), per culpa in vigilando.
2. Tutti i convenuti si costituirono negando la propria responsabilita’.
3. Con sentenza 17.4.2014 n. 5831 il Tribunale di Napoli, articolazione territoriale di Marano, accolse la domanda nei confronti dei genitori dell’omicida ( (OMISSIS) ed (OMISSIS)), mentre la rigetto’ nei confronti di (OMISSIS).
4. La Corte d’appello di Napoli con ordinanza 10.11.2015 n. 2341, pronunciata ai sensi dell’articolo 348 bis c.p.c., dichiaro’ inammissibili gli appelli proposti da (OMISSIS) ed (OMISSIS).
5. La sentenza di primo grado e’ stata impugnata per cassazione da (OMISSIS) ed (OMISSIS), ai sensi dell’articolo 348 ter c.p.c., con ricorso fondato su cinque motivi ed illustrato da memoria.
(OMISSIS) ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli articoli 2697 e 2729 c.c.; articolo 115 c.p.c..
Deducono che il Tribunale avrebbe erroneamente escluso la ricorrenza, nel caso di specie, dell’esimente della legittima difesa. Sostengono che il Tribunale escluse la legittima difesa da parte di (OMISSIS) basandosi unicamente sulla perizia autoptica disposta durante le indagini penali, la quale tuttavia poteva costituire al piu’ un mero indizio, da solo insufficiente e che comunque il Tribunale non mise in relazione agli altri elementi di prova acquisiti al giudizio (una prova testimoniale e la Perizia disposta dal pubblico Ministero).
1.2. Il motivo e’ inammissibile per difetto di interesse, ex articolo 100 c.p.c..
La sussistenza d’una situazione di legittima difesa, in quanto fatto impeditivo della pretesa attorea, deve essere provata dal convenuto che la invoca.
Nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto esservi la prova positiva dell’assenza della legittima difesa, ed i ricorrenti contestano oggi tale valutazione, basata – essi sostengono – su un mero indizio.
Se, dunque, in ipotesi si accogliesse questo motivo di ricorso, l’unico risultato concreto che ne seguirebbe sarebbe la necessita’ di espungere dal novero delle prove utilizzabili il risultato dell’esame autoptico: il che lascerebbe comunque non assolto, da parte degli odierni ricorrenti, l’onere di provare l’effettiva sussistenza dei requisiti della legittima difesa.
Le ulteriori deduzioni svolte dai ricorrenti alle pp. 30-32 del proprio ricorso, nelle quali sostengono che la prova della legittima difesa si sarebbe dovuta trarre aliunde, investono la valutazione delle prove e sono dunque inammissibili in questa sede, noto essendo che non e’ consentita in sede di legittimita’ una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e cosi’ via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermo’ il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioe’ che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte e’ incensurabile in Cassazione”).
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli articoli 2048 e 2697 c.c..
Deducono che il Tribunale avrebbe errato nell’escludere che essi non avessero fornito la prova liberatoria richiesta dall’articolo 2048 c.c.. Sostengono, da un lato, di avere ampiamente dimostrato, nel giudizio di merito, di avere impartito al proprio figlio minore una buona educazione; e dall’altro che il Tribunale non avrebbe potuto, come invece fece, trarre la prova della culpa in educando dalle sole modalita’ con cui venne commesso il fatto illecito.
2.2. Il motivo e’ inammissibile.
Stabilire se dei genitori abbiano o non abbiano diligentemente assolto l’onere di educazione dei figli, ad essi imposto dall’articolo 147 c.c., e’ un accertamento di fatto, non una valutazione in diritto. Da un lato, pertanto, l’articolo 2048 c.c. non puo’ dirsi violato sol perche’ il giudice di merito abbia ritenuto sussistente od insussistente la prova d’una adeguata educazione; dall’altro lato quella valutazione sfugge al sindacato di legittimita’.
Ne’ ha pregio la deduzione dei ricorrenti, secondo cui non sarebbe consentito al giudice di merito ritenere dimostrata la mala educacion sulla base delle sole modalita’ del fatto illecito. Questa Corte, infatti, ha in verita’ affermato sempre un principio esattamente opposto, e cioe’ che “l’inadeguatezza dell’educazione impartita puo’ essere desunta dalle modalita’ dello stesso fatto illecito” (Sez. 3, Sentenza n. 26200 del 06/12/2011, Rv. 620325 – 01; nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 24475 del 18/11/2014, invocata dagli stessi ricorrenti a p. 34 del proprio ricorso, ma evidentemente fraintesa; ne’ sara’ superfluo soggiungere che tale principio e’ assolutamente pacifico da oltre mezzo secolo, essendo stato affermato gia’ da Sez. 3, Sentenza n. 1518 del 09/06/1960, Rv. 882259 – 01).
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli articoli 1127, 1123 e 2056 c.c..
Deducono che il Tribunale avrebbe erroneamente liquidato il danno, senza tenere conto del concorso di colpa della vittima, consistito in una provocazione.
3.2. Va premesso come deve ritenersi un evidente lapsus calami la deduzione, a p. 37 del ricorso, della violazione degli articoli “1127 e 1123” c.c., evidente essendo che i ricorrenti intesero riferirsi agli articoli 1223 e 1227 c.c..
3.3. Il motivo, sebbene formalmente denunci una violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, nell’illustrazione prospetta in realta’ un error in procedendo, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4.
Vi si sostiene infatti che:
(a) la provocazione da parte della vittima era stata eccepita in primo grado dagli odierni ricorrenti, e comunque non era stata contestata;
(b) essa pertanto doveva darsi per ammessa;
(c) il Tribunale non ne tenne debito conto, come invece avrebbe dovuto fare ai sensi dell’articolo 1227 c.c..
3.4. Prima di esaminare il motivo nel merito, v’e’ da rilevare come lo iato tra il suo contenuto e la sua intitolazione non e’ d’ostacolo alla sua ammissibilita’.
Infatti, nel caso in cui il ricorrente incorra nel c.d. “vizio di sussunzione” (e cioe’ erri nell’inquadrare l’errore commesso dal giudice di merito in una delle cinque categorie previste dall’articolo 360 c.p.c.), il ricorso non puo’ per cio’ solo dirsi inammissibile, quando dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile l’errore di cui si duole, come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013).
Nel caso di specie, l’illustrazione contenuta nelle pp. 37-39 del ricorso e’ sufficientemente chiara nel prospettare la violazione, da parte della Corte d’appello, del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e dunque il motivo e’ ammissibile.
3.5. Nel merito il motivo e’ infondato.
Se pure e’ vero, infatti, che il Tribunale nella sua sentenza non fa cenno alla questione del concorso di colpa della vittima, e’ altresi’ vero che, se avesse esaminato l’eccezione sollevata dai convenuti, non avrebbe potuto fare altro che rigettarla in iure, in virtu’ del consolidato principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui nel giudizio di risarcimento del danno da fatto illecito la sussistenza d’una provocazione da parte della vittima non interrompe ne’ elide il nesso di causa tra azione lesiva e danno (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 5679 del 23/03/2016, Rv. 639388; Sez. 3, Sentenza n. 20137 del 18/10/2005, Rv. 585230 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9209 del 30/08/1995, Rv. 493829 – 01, e cosi’ gia’ Sez. 3, Sentenza n. 1445 del 03/05/1958, Rv. 880674 01).
4. Il quarto motivo di ricorso.
4.1. Col quarto motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’articolo 2048 c.c..
Deducono che il Tribunale ha violato l’articolo 2048 c.c., nel rigettare la domanda di manleva (rectius, regresso) da loro formulata nei confronti di (OMISSIS), datore di lavoro o comunque maestro d’arte del proprio figlio minore.
Osservano come (OMISSIS) era gravato dalla presunzione di cui all’articolo 2048 c.c.; che per vincere tale presunzione avrebbe dovuto dare la prova delle misure organizzative adottate per evitare il danno; che il Tribunale accerto’ in concreto che al momento del fatto (OMISSIS) non era presente nel suo esercizio commerciale, ove i due ragazzi protagonisti della tragedia vennero lasciati soli.
Soggiungono che il Tribunale avrebbe altresi’ erroneamente reputato irrilevanti le prove da essi richieste, e volte a dimostrare la culpa in vigilando di (OMISSIS).
4.2. Il motivo e’ fondato.
Il Tribunale ha accertato in facto che al momento dell’omicidio, avvenuto all’interno del negozio di barbiere dove l’omicida svolgeva le funzioni di apprendista, il titolare non era presente.
Ha tuttavia ritenuto in iure che questi non versasse in colpa in vigilando, perche’ “arrivato solo dieci minuti dopo i fatti”.
Cosi’ giudicando, il Tribunale e’ incorso effettivamente in una falsa applicazione dell’articolo 2048 c.c., consistita nel non applicare la presunzione ivi prevista ad una fattispecie concreta che, cosi’ come ricostruita in fatto dallo stesso Tribunale, imponeva l’applicazione della suddetta norma.
4.3. Il terzo comma del ricordato articolo 2048 c.c. stabilisce infatti che, nel caso di fatto illecito commesso dall’apprendista, spetta al precettore od al maestro d’arte dimostrare “di non aver potuto impedire il fatto”.
La prova “di non avere potuto impedire il fatto” consiste nella dimostrazione che il fatto produttivo di danno fu o imprevedibile, inevitabile: e dunque fu un caso fortuito.
Questo principio discende da una tradizione millenaria.
Gia’ un rescritto dell’imperatore Augusto, inviato ai prefetti del pretorio Fusco e Destro (e tramandato dal Codex Iustiniani, Libro IV, Titolo XXIV, § 6, De casu fortuito) sanci’ che “quae fortuitis casibus accidunt, cum praevideri non potuerint (..), nullo bonae fideijudicio praestantur”.
Il precetto passo’ tal quale nel diritto intermedio (casus fortuitus non est sperandus, et nemo tenetur divinare), e da questo pervenne immutato all’eta’ delle codificazioni, ed ai codici attuali.
In questi, tuttavia, fu conservato il precetto (il debitore e’ liberato dal caso fortuito: si vedano ad esempio l’articolo 1492 c.c., comma 3, in tema di perimento della cosa venduta; articolo 1637 c.c., in tema di accollo da parte dell’affittuario del rischio di caso fortuito; articolo 1686 c.c., comma 3, in tema di responsabilita’ del vettore; articolo 1805 c.c., in tema di responsabilita’ del comodatario), ma se ne oblio’ la giustificazione (il “cum praevideri non potuerint” del rescritto augusteo), probabilmente perche’ ritenuta dal legislatore ovvia e scontata.
4.4. La prova di “non aver potuto impedire il fatto” consiste dunque nella dimostrazione dell’imprevedibilita’ o dell’inevitabilita’ del fatto produttivo di danno.
La prevedibilita’ e la prevenibilita’ costituiscono l’essenza della colpa.
E’ infatti in colpa chi, pur potendo prevedere o prevenire l’evento dannoso, non se lo prefiguri o non lo prevenga. E converso, non puo’ dirsi in colpa chi non pote’ prevedere un evento imprevedibile, ne’ prevenire un evento inevitabile (Sez. 3, Sentenza n. 2463 del 03/03/1995, Rv. 490899 – 01).
Se dunque l’imprevedibilita’ e l’imprevenibilita’ costituiscono l’essenza della colpa, la loro sussistenza od insussistenza deve essere valutata coi criteri dettati dall’ordinamento a tal fine.
Principale criterio di valutazione della colpa professionale (tale essendo quella del precettore o maestro d’arte), tanto contrattuale quanto extracontrattuale, e’ quello della diligenza, dettato dall’articolo 1176 c.c., comma 2.
Tale criterio consiste nel comparare la condotta effettivamente tenuta dal preteso responsabile con quella che avrebbe tenuto, al suo posto, eiusdem generis et condicionis: ovvero il maestro d’arte serio, coscienzioso ed avveduto.
Ora, primo dovere di precettori e maestri e’ quello della presenza, come ripetutamente affermato da questa Corte in tema di infortuni scolastici (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 9742 del 07/10/1997, Rv. 508597 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2342 del 07/06/1977, Rv. 386057 – 01).
In particolare, per l’imprenditore o l’artigiano che assuma un apprendista, tale dovere oltre che desumibile dal generale precetto di cui all’articolo 1176 c.c., era altresi’ desumibile dalla L. 19 gennaio 1955, n. 25, articolo 11, comma 1, lettera (a), (recante “Disciplina dell’apprendistato”), oggi abrogata dal Decreto Legislativo 14 settembre 2011, n. 167, articolo 7, comma 6, (legge anch’essa successivamente abrogata), ma vigente nel 2005, all’epoca dei fatti oggetto del presente giudizio. Tale norma infatti, imponendo al datore di lavoro l’obbligo di “impartire o di far impartire nella sua impresa all’apprendista alle sue dipendenze l’insegnamento necessario perche’ possa conseguire la capacita’ per diventare lavoratore qualificato”, implica necessariamente un dovere di vigilanza, non potendo ovviamente l'”insegnamento” richiesto dalla legge avvenire inter absentes.
In conclusione, per liberarsi dalla presunzione di cui all’articolo 2048 c.c. il precettore o maestro d’arte deve provare che ne’ lui, ne’ alcun altro precettore “diligente” ai sensi dell’articolo 1176 c.c., comma 2, nella medesima situazione, avrebbe potuto evitare il danno.
Per quanto detto, tuttavia, il “precettore medio” di cui all’articolo 1176, comma 2, c.c., non avrebbe mai lasciato solo un apprendista minorenne.
Il Tribunale dunque ha trascurato di applicare la presunzione di cui all’articolo 2048 c.c. in un caso in cui non solo la prova liberatoria era mancata, ma anzi esso stesso aveva accertato in concreto che il precettore tenne una condotta non conforme al canone della diligenza. La sentenza deve dunque essere cassata su questo punto, in applicazione del seguente principio di diritto:
“Il precettore od il maestro d’arte, per liberarsi dalla presunzione di colpa posta a loro carico dall’articolo 2048 c.c., hanno l’onere di provare che ne’ loro, ne’ alcun altro precettore diligente, ai sensi dell’articolo 1176 c.c., comma 2, avrebbe potuto, nelle medesime circostanze, evitare il danno”.
5. Il quinto motivo di ricorso.
5.1. Col quinto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, (si lamenta, in particolare, la violazione degli articoli 168, 347 c.p.c.; articoli 36 e 123 bis disp. att. c.p.c.); sia dal un vizio di nullita’ processuale, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4.
Deducono che la Corte d’appello ha rigettato il loro gravame senza essere in possesso del fascicolo di primo grado, e quindi senza esaminare tutte le prove.
5.2. Il motivo e’ inammissibile, in quanto l’ordinanza ex articolo 348 ter c.p.c., conclusiva del giudizio d’appello non e’ impugnabile se non per vizi suoi propri (ovvero per essere stata pronunciata al di fuori dei casi in cui la legge consente la definizione dell’appello con la forma dell’ordinanza: cosi’ Sez. U, Sentenza n. 1914 del 02/02/2016, Rv. 638369 – 01).
6. Le spese.
Le spese del presente giudizio di legittimita’ saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
(-) accoglie il quarto motivo di ricorso; rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Napoli, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimita’.
Leave a Reply