Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 27 gennaio 2020, n. 632.
La massima estrapolata:
L’annullamento di un titolo edilizio a suo tempo rilasciato, qualora la potestà di autotutela venga esercitata non in base ad un apprezzamento relativo all’atto annullato, bensì a causa di opere realizzate abusivamente dal concessionario perché difformi dal relativo titolo, è illegittimo, essendo l’autotutela in tal caso rivolta a perseguire non lo scopo suo proprio (rimozione dell’atto originario), ma un fine prettamente sanzionatorio, per il quale la legge appronta altri strumenti.
Sentenza 27 gennaio 2020, n. 632
Data udienza 12 dicembre 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10306 del 2018, proposto da
Be. Ro. e Ma. Ro., rappresentati e difesi dall’avvocato Al. Ri., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Da. Va. e Fr. De Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Da. Va. in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, 3 ottobre 2018 n. 2200;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 12 dicembre 2019 il Cons. Diego Sabatino e uditi per le parti gli avvocati Pa. Vo., in sostituzione dell’avv. Ri., e Fr. De Ma.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso iscritto al n. 10306 del 2018, Be. Ro. e Ma. Ro. propongono appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, 3 ottobre 2018 n. 2200 con la quale è stato respinto il ricorso da loro proposto contro il Comune di (omissis) per l’annullamento
– dell’ordinanza n. 17 del 21 marzo 2017, notificata in pari data, con la quale il Comune di (omissis) ha parzialmente annullato, ai sensi dell’articolo 21-nonies della legge n. 241/1990, il permesso di costruire n. 143/2014 e successivi permessi in variante (n. 42/2015 e n. 92/2015), e per l’effetto ordinato ai ricorrenti di provvedere, entro i successivi 90 giorni, “alla integrale restituzione in pristino dell’altezza originaria dell’edificio come prevista prima degli interventi di cui ai titoli annullati”, con l’avvertenza che, in difetto, il bene e l’area di sedime verranno acquisite di diritto al patrimonio dell’Amministrazione, per tutte le conseguenze di legge;
– di ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale.
In primo grado, con ricorso notificato in data 22 maggio 2017 Ma. Ro. e Be. Ro. impugnano l’ordinanza n. 17 del 21 marzo 2017, con la quale il Comune di (omissis) annulla parzialmente, ai sensi dell’articolo 21-nonies della legge n. 241/1990, il permesso di costruire n. 143/2014 e successivi permessi in variante (n. 42/2015 e n. 92/2015), e per l’effetto ordina ai ricorrenti di provvedere, entro i successivi 90 giorni, “alla integrale restituzione in pristino dell’altezza originaria dell’edificio come prevista prima degli interventi di cui ai titoli annullati”, con l’avvertenza che, in difetto, il bene e l’area di sedime verranno acquisite di diritto al patrimonio dell’Amministrazione, per tutte le conseguenze di legge, nonché ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale.
In punto di fatto, i ricorrenti espongono:
– di essere proprietari, a far data dal 7 dicembre 2015, di un immobile a destinazione residenziale ubicato in (omissis), via (omissis), catastalmente identificato al N.C.E.U. al foglio n. (omissis), mappali n. (omissis), costituito da piano seminterrato, piano terra e primo piano, e classificato all’interno del vigente piano di governo del territorio in “ambito territoriale (omissis) – sistemi insediativi di rilevanza paesaggistica”, che si caratterizza per una morfologia urbana tipica delle zone di recente espansione abitativa (così l’articolo 97 del piano delle regole);
– che, in relazione a tale immobile, viene rilasciato ai loro danti causa permesso di costruire n. 143/2014, con il quale è autorizzata la ristrutturazione del fabbricato, e con essa, “il sopralzo della parte centrale del tetto come descritto nelle tavole progettuali”;
– che, successivamente sono emanati due titoli in variante costituiti dal permesso di costruire n. 42/2015 con il quale è assentita l’eliminazione della scala interna di collegamento al piano sottotetto e la formazione di nuovo ingresso pedonale su via (omissis), e il permesso di costruire n. 92/2015, avente ad oggetto, oltre ad alcune opere interne, l’abbassamento, rispettivamente, di 20 e 40 centimetri delle quote di imposta e di colmo del tetto;
– che, con nota del 12 dicembre 2016, il Comune comunica ai danti causa l’avvio del procedimento finalizzato all’accertamento di eventuali violazioni alle regole urbanistiche, in particolare, in ordine all’altezza della costruzione;
– che, in relazione a questo punto, i ricorrenti chiedono e ottengono la sanatoria delle difformità riscontrate nel corso del sopralluogo, ad eccezione di quelle relative al tetto;
– che l’Amministrazione, nonostante le osservazione formulate dai ricorrenti in sede procedimentale, annulla i titoli edilizi rilasciati ordinando ai ricorrenti il ripristino dell’altezza originaria dell’edificio.
I ricorrenti articolano cinque motivi di ricorso.
Con il primo motivo (rubricato: “Violazione e falsa applicazione dell’articolo21-noniesdella legge n. 241/1990, per decorrenza del termine di diciotto mesi (relativamente al P.C. n. 143/2014 e al P.C. n. 42/2015) e/o comunque del termine ragionevole e per assenza di profili di illegittimità “), i ricorrenti ritengono che il potere amministrativo di annullamento degli atti debba ritenersi precluso dal decorso del termine di 18 mesi di cui all’articolo 21 nonies l. 241/1990 nella versione attuale, ritenuta vigente ratione temporis anche in considerazione dell’impossibilità di far decorrente il dies a quo dalla data di emanazione dell’ultimo permesso in variante.
Con il secondo motivo (rubricato: “Violazione degli articoli 7 e 8 della legge n. 241/1990; eccesso di potere per violazione del principio di partecipazione e trasparenza”), i ricorrenti lamentano: a) la mancata comunicazione di avvio del procedimento; b) l’adozione dell’ordinanza di demolizione contestualmente all’annullamento dei titoli edilizi, con conseguente impossibilità di partecipazione al procedimento.
Con il terzo motivo di ricorso (rubricato: “Violazione e falsa applicazione degli articoli 3 e21-nonies della legge n. 241/1990, per carenza di motivazione in punto di interesse pubblico e di mancata comparazione con l’interesse privato e di ragionevolezza del termine; violazione e falsa applicazione dell’articolo 10 della legge n. 241/1990; violazione del principio di legittimo affidamento, di buon andamento e di imparziali; eccesso di potere per carenza di istruttoria, carenza di motivazione e motivazione apparente”), i ricorrenti lamentano l’insussistenza di motivazione sulle ragioni di interesse pubblico e la mancata comparazione tra tale interesse e quello dei privati al mantenimento dei titoli, derivante dall’affidamento generato dal rilascio dei medesimi.
Con il quarto motivo di ricorso (rubricato: “Violazione dell’articolo e falsa applicazione dell’articolo21-nonies della legge n. 241/1990; eccesso di potere per carenza di istruttoria e difetto di motivazione”), i ricorrenti lamentano l’erroneità del computo dell’altezza dell’edificio misurata dal piano seminterrato e non dal piano terra, come accaduto in sede di rilascio dei titoli oggetto di annullamento.
Con il quinto motivo di ricorso (rubricato: “Violazione dell’articolo 1227 codice civile”), i ricorrenti eccepiscono il concorso colposo dell’Amministrazione nel patrocinare un’interpretazione dell’articolo 32 del piano delle regole, successivamente smentita dal provvedimento di annullamento in autotutela.
Le parti ricorrenti chiedono, inoltre, il risarcimento di tutti i danni patiti e patiendi, nella misura che sarà quantificata in corso di giudizio, “sussistendo tutti gli altri presupposti previsti dall’art. 2043 c.c. per il riconoscimento della responsabilità del Comune, stante l’evidente colpa da cui è connotato l’operato di quest’ultimo”.
Si costituisce in giudizio il Comune resistente chiedendo che il ricorso sia dichiarato irricevibile, inammissibile o improcedibile ovvero rigettato nel merito siccome infondato, e che sia rigettata, inoltre, l’istanza cautelare proposta.
Dopo la previa adozione di misure cautelari, dapprima con decreto presidenziale e poi con data alla camera di consiglio del 29 giugno 2017, all’udienza del 25 settembre 2018 la causa veniva discussa e decisa con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R. riteneva infondate le censure proposte, sottolineando la correttezza dell’operato della pubblica amministrazione, in relazione all’esistenza dei presupposti per l’applicazione della sanzione e alla inapplicabilità ratione temporis del disposto dell’art 21 nonies della legge 241 del 1990, nella più recente formulazione.
Contestando le statuizioni del primo giudice, le parti appellanti evidenziano l’errata ricostruzione in fatto e in diritto operata dal giudice di prime cure, riproponendo come motivi di appello le proprie originarie censure, meglio descritte in parte motiva.
Nel giudizio di appello, si è costituito il Comune di (omissis), chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso.
All’udienza del 14 febbraio 2019, l’istanza cautelare veniva accolta con ordinanza della stessa data n. 780.
Alla pubblica udienza del 12 dicembre 2019, il ricorso è stato discusso e assunto in decisione.
DIRITTO
1. – L’appello non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
2. – In via preliminare, la Sezione, pur vincolata all’esame delle questioni secondo il rispetto del principio devolutivo, non può esimersi dall’evidenziare come la fattispecie de qua presenti alcuni peculiari profili di fatto e di diritto, che possono essere ricondotti ad ordine solo con una più stringente interpretazione del provvedimento gravato.
Occorre in primo luogo ricordare che l’annullamento di un titolo edilizio a suo tempo rilasciato, qualora la potestà di autotutela venga esercitata non in base ad un apprezzamento relativo all’atto annullato, bensì a causa di opere realizzate abusivamente dal concessionario perché difformi dal relativo titolo, è illegittimo (Cons. Stato, V, 10 gennaio 1997, n. 28), essendo l’autotutela in tal caso rivolta a perseguire non lo scopo suo proprio (rimozione dell’atto originario), ma un fine prettamente sanzionatorio, per il quale la legge appronta altri strumenti.
Sulla base di questa prima pacifica osservazione, possono segnalarsi due ulteriori questioni di fatto.
La prima attiene al contenuto dell’ordinanza qui gravata, ossia l’ordinanza 21 marzo 2017 n. 17 del Comune di (omissis), ha annullato “il titolo abilitativo formatosi con i titoli edilizi da ultimo rilasciati”, ossia il permesso di costruire n. 143/2014 e i successivi permessi in variante n. 42/2015 e n. 92/2015 “nella parte in cui prevedono il superamento dell’altezza massima di mt. 8 dell’edificio interessato dai lavori medesimi”.
L’atto di autoannullamento ha preso di mira l’effetto prodottosi dal susseguirsi dei tre diversi permessi, l’ultimo dei quali (permesso n. 92/2015, rilasciato in data 23 settembre 2015) aveva ad oggetto “Recupero del sottotetto esistente e frazionamento delle due unità abitative” ed era stato seguito da un verbale di sopralluogo, del 29 novembre 2016, dal quale era emersa la violazione delle distanze massime consentite per l’immobile.
La seconda attiene al comportamento delle parti processuali, che non hanno aggredito l’atto gravato sotto il profilo della perplessità del potere esercitato, ma hanno sindacato la sua legittimità intrinseca, interna al potere in concreto esercitato. In questo senso, anche il giudice di prime cure ha ritenuto che la vicenda de qua dovesse essere letta tra i confini di una fattispecie in cui, sulla base dei tre diversi permessi di costruire, lo stesso Comune avesse consentito la realizzazione di un manufatto in violazione della disciplina edilizia applicabile.
A valle delle pregresse constatazioni, è possibile allora fissare compiutamente il thema decidendum della questione proposta, che riguarda l’ordinanza de qua e il suo presupposto, ossia che l’edificio sia stato realizzato nelle dimensioni attuali sulla scorta di un titolo abilitativo derivante dai tre permessi di costruire citati. In questo senso, l’ordinanza appare esercizio di un potere coerente con i suoi presupposti, in quanto se, al contrario, si ritenesse che la contestata sopraelevazione sia avvenuta in assenza di titoli, il Comune avrebbe dovuto agire con gli ordinari strumenti repressivi.
Peraltro, con una osservazione che sarà poi sviluppata in relazione al quarto motivo di ricorso, a valle dell’autoannullamento e nello stesso provvedimento, il Comune ha altresì disposto l’integrale “riduzione in pristino dell’altezza originaria dell’edificio, come prevista prima degli interventi di cui ai titoli edilizi annullati”, evidenziando plasticamente come nello stesso atto siano confluiti profili diversi di attuazione del dovere di controllo dell’attività edilizia.
Pertanto, nei limiti per cui non è contestato che i tre permessi de qua avessero autorizzato i richiedenti alla realizzazione di un tale manufatto, l’ordinanza di autoannullamento dei titoli può essere vagliata con le censure proposte in grado di appello.
3. – Venendo alle censure di merito, può essere esaminato il primo motivo di diritto, motivato “per violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 e dell’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale; violazione del principio di legalità “, con il quale viene aggredito il paragrafo 3.7. della sentenza, dove il primo giudice ha ritenuto che l’articolo 11 delle preleggi imporrebbe di circoscrivere l’applicazione del termine decadenziale di diciotto mesi all’annullamento dei provvedimenti di primo grado emanati dopo l’entrata in vigore della legge n. 124/2015. Lamenta la parte appellante che tale conclusione non sarebbe condivisibile per tre diversi ordini di motivi. In particolare, sotto un primo profilo, va affermato che, in quanto espressione di un potere attuale, se non diversamente stabilito dalla legge, il provvedimento amministrativo deve uniformarsi al regime giuridico coevo alla sua adozione; sotto un secondo profilo, si darebbe vita ad una sorta di doppio regime dei provvedimenti, in ragione della data della loro adozione; sotto un terzo profilo, si verrebbe a ledere l’intento legislativo di garantire maggiore certezza giuridica a tutte le posizioni di vantaggio conseguite a seguito dell’emanazione di un provvedimento ampliativo.
3.1. – La censura non può essere condivisa.
In via di fatto, dall’esame delle considerazioni prima svolte sul contenuto dell’ordinanza gravata deriva che la vicenda su cui è intervenuto il provvedimento de qua, ossia l’assentita realizzazione di un edificio di altezza superiore a quella consentita dalla regolazione urbanistica ivi presente, si è concretizzata nella sua interezza solo con il rilascio del terzo permesso di costruire, attinente proprie i lavori da svolgere nel sottotetto e quindi interessando la dimensione finale dell’ultimo piano, su cui è intervenuto il provvedimento di autotutela.
Calcolando quindi il termine di 18 mesi previsto dall’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990, nella formulazione valevole a far data dal 28 agosto 2015, come decorrente dal perfezionamento della fattispecie, ossia dalla data del rilascio dell’ultimo permesso di costruire avutosi il 23 settembre 2015, questo verrebbe a scadere in data 23 marzo 2017, ossia dopo l’emissione dell’ordinanza gravata, che sarebbe quindi tempestiva.
Ma quand’anche si accedesse alla diversa interpretazione, suffragata dalla posizione delle parti e seguita dal primo giudice (che riporta la posizione dell’originaria ricorrente sulla “impossibilità di far decorrente il dies a quo dalla data di emanazione dell’ultimo permesso in variante”), ossia che l’oggetto dell’annullamento dovesse essere principalmente il permesso di costruire rilasciato in data 26 gennaio 2015, va parimenti condivisa la lettura data dal T.A.R. in ordine al momento della decorrenza del citato periodo.
Infatti, la giurisprudenza ha ormai chiarito, dopo le iniziali oscillazioni richiamate anche dalla parte appellante, i criteri di applicazione della citata disposizione, con argomentazioni che la Sezione condivide e fa proprie.
In questo senso, il nuovo termine di 18 mesi – introdotto dall’art. 6, comma 1, lett. d) della legge 7 agosto 2015 n. 124 – resta predicabile nella sua rigida previsione solo in relazione ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano, anch’essi, successivi all’entrata in vigore della nuova disposizione.
Nel caso, invece, di provvedimenti già adottati il termine suddetto integra un parametro di riferimento per valutare la ragionevolezza del termine dell’intervento di riesame. Il nuovo termine legislativamente predeterminato non sostituisce in toto il termine ragionevole (e indeterminato) il quale, presente fin dall’originaria formulazione della disposizione delineata dalla legge n. 15 del 2005, continua a costituire il parametro normativo di riferimento laddove non possa trovare applicazione, ratione temporis, il termine di mesi 18 (ex multis, Cons. Stato, III, 2 novembre 2019, n. 7476; id., V, 29 maggio 2019, n. 3583; id., IV, 18 luglio 2018, n. 4374; id., VI, 19 gennaio 2017, n. 250; id., IV, 9 giugno 2017, n. 2789; id., VI, 13 luglio 2017, n. 3462; id., VI, 18 luglio 2017, n. 3524; id., VI, 20 luglio 2017, n. 3586; id., III, 28 luglio 2017, n. 3780).
Tale consolidato orientamento consente di superare agevolmente i tre profili delineati dall’appellante, evidenziando: che proprio la stessa legge non impone il rigido adeguamento del provvedimento amministrativo di secondo grado al regime giuridico coevo alla sua adozione, consentendo l’articolata disciplina appena rammentata; che il doppio regime dei provvedimenti, in ragione della data della loro adozione, appare consono alla disciplina normativa, essendo “il fluire del tempo valido discrimine di situazioni giuridiche analoghe” (Corte costituzionale, 24 giugno 2010 n. 228); che l’intento legislativo di garantire maggiore certezza giuridica è stato garantito proprio differenziando le situazioni in ragione della data del provvedimento e dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione.
Vale, poi, soggiungere che il termine ragionevole decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro (Cons. Stato, ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 8), circostanza che, nel caso in esame, va individuata nella data del sopralluogo effettuato, ossia il 29 novembre 2016.
Ne deriva quindi la tempestività dell’ordinanza gravata.
4. – Con il secondo motivo, in censura del paragrafo 3.9. della sentenza “per violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990”, si lamenta l’assenza di alcuna correlazione logico-giuridica tra la ragionevolezza del termine entro il quale si è proceduto all’annullamento del permesso di costruire e la opacità della documentazione, come riscontrata dal primo giudice.
4.1. – La censura non può essere condivisa.
Come correttamente evidenziato dal primo giudice, il titolo abilitativo rilasciato dal Comune si è fondato su un apporto documentale di parte oggettivamente perplesso, atteso che le richieste di permesso di costruire e la documentazione ivi allegata non avevano chiarito che l’intervento avesse di mira la realizzazione di un edificio di altezza superiore a mt. 8 metri, “dato indicato esclusivamente nella tavola n. 3 con l’apposizione di un rigo di misura accanto alla sagoma dell’edificio”.
Pertanto, non può che condividersi l’affermazione per cui l’intervento in autotutela è stato esercitato in termini coerenti con l’intervenuta conoscenza della situazione di fatto, avutasi, come sopra già rimarcato, solo con il sopralluogo del 29 novembre 2016.
Per altro verso, anche qui correttamente, il primo giudice richiama l’obbligo di chiarire in modo espresso i termini della richiesta di permesso di costruire, come esito di quei doveri di buona fede e correttezza che permeano i rapporti con l’amministrazione anche dal lato del privato e che non possono portare a ritenere che la mancata richiesta di documentazione integrativa comporti la decadenza dal potere sanzionatorio.
5. – Con il terzo motivo di ricorso, in relazione al paragrafo 5.2. della sentenza e motivato “per violazione degli artt. 1, 10 e 21-nonies del la legge n. 241/1990”, viene lamentata la carenza di motivazione del provvedimento, sia in ragione dell’utilizzo di “stereotipate frasi di maniera” che per la mancata comparazione tra l’interesse pubblico all’annullamento in autotutela e l’interesse privato al mantenimento dei titoli.
5.1. – La censura va respinta.
Al contrario di quanto affermato dalla parte appellante, il Comune ha valutato la situazione in maniera analitica e il primo giudice ne ha dato contezza in sentenza, evidenziando come le ragioni di interesse pubblico siano state evidenziata in ragione del vizio di carattere sostanziale dell’intervento, ossia per l’altezza dell’edificio come determinatasi dal susseguirsi degli interventi.
Per altro verso, il Comune ha parimenti tenute presenti le memorie presentate dai danti causa degli attuali appellanti, anche se in maniera sintetica, in aderenza al principio per cui non si impone una dettagliata confutazione degli argomenti ma unicamente la rappresentazione dell’iter motivazionale sul mancato accoglimento delle osservazioni dei privati.
6. – Con il quarto motivo di ricorso, in relazione ai paragrafi 6.2 e 6.3. “per violazione dell’art. 21-nonies della legge 241/1990; violazione dell’art. 1227 c.c.”, in relazione alla erroneità del modo di calcolo dell’altezza.
6.1. – La doglianza non può essere condivisa, nei limiti appresso precisati.
Come in precedenza rilevato, l’ordinanza gravata contiene due diversi comandi: il primo attiene all’autoannullamento del titolo, in relazione alla circostanza che questo sia stato dato consentendo la sopraelevazione al di sopra del non contestato limite di altezza per mt. 8; il secondo riguarda la demolizione e il conseguente ripristino dell’altezza del fabbricato entro i detti limiti consentiti.
Questo distinguo permette di inquadrare correttamente la censura, evidentemente proposta avverso tale secondo profilo. Infatti, questa sarebbe inammissibile se fosse disposta in relazione al mero annullamento (in questo caso, si sarebbe dovuta contestare l’esistenza di questo limite), mentre invece appare pianamente coerente avverso la determinazione demolitoria.
In relazione a tale secondo profilo, tuttavia, la detta censura non appare fondata nel merito.
Come correttamente evidenziato dal primo giudice, è desumibile dall’articolo 32 del Piano delle regole del P.G.T. “che l’altezza massima sia la misura verticale fra il piede dell’edificio e la sua sommità, dove per piede di edificio si intende l’intersezione fra l’involucro esterno ed il suolo (escluse solo scale esterne e rampe) e per sommità l’imposta del tetto a falde inclinate. Del pari l’art. 24 del Regolamento Edilizio prevede che l’altezza sia misurata dal piano di spiccato dell’edificio”.
Non è quindi condivisibile la lettura proposta dalla parte appellante che vede nel caso la possibilità di adozione di un diverso criterio, evincibile unicamente dal verbale di sopralluogo che, in fase descrittiva, computa altresì l’altezza “dal piano terra”, senza peraltro che tale rilievo venga a fondarsi su un altro dato normativo o a incidere sulla valutazione dell’altezza dell’edificio.
Infatti, ciò che fa testo, come correttamente si rileva in sentenza, è la misurazione fatta dalla base dell’edificio posta sulla via Monte Bianco, cui si accede all’edificio esistente pari, a seconda delle posizioni, a metri 8,70 oppure a mt. 9,33 e, comunque, superiore ai citati mt. 8.
Si può quindi concludere sulla correttezza delle conclusioni a cui è pervenuto il primo giudice, con contestuale rigetto del motivo di ricorso.
7. – L’appello va quindi respinto. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Sussistono peraltro motivi per compensare integralmente tra le parti le spese processuali, determinati dalle oggettive difficoltà di accertamenti in fatto, idonee a incidere sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti e dall’esistenza di oscillazioni giurisprudenziali in relazione al tema della decorrenza del termine per l’esercizio del potere di autotutela (così da ultimo, Cass. civ., sez. un., 30 luglio 2008 n. 20598; Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede:
1. Respinge l’appello n. 10306 del 2018;
2. Compensa integralmente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 dicembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere, Estensore
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Paolo Carpentieri – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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