Ai fini della valutazione della ragionevole durata del processo

Corte di Cassazione, sezione seconda civile, Sentenza 21 maggio 2020, n. 9390.

La massima estrapolata:

ll tempo che intercorre tra la definizione della fase cognitiva e l’inizio di quella esecutiva non può essere conteggiato ai fini della valutazione della ragionevole durata del processo. Nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, da considerare unitamente ai fini del riconoscimento dell’indennizzo ex art. 2 Legge n. 89/2001, non deve essere conteggiato come “tempo del processo” quello intercorso tra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva. Detto spazio temporale può rilevare, invece, ai fini del ritardo di esecuzione come autonomo pregiudizio indennizzabile, in via diretta ed esclusiva in assenza di un rimedio interno, con ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.

Sentenza 21 maggio 2020, n. 9390

Data udienza 5 dicembre 2019

Tag/parola chiave: Equa riparazione – Unitarietà del processo di cognizione e di quello esecutivo – Tempo intercorso tra la definitività del processo di cognizione e l’inizio di quello esecutivo – Esclusione – Art. 2 legge n. 89/2001 – Ritardo dell’esecuzione del processo esecutivo – Ulteriore indennizzo – Sentenza della Corte di Cassazione n. 9142/2016 – Principi – Nozione di decisione definitiva – Nozione di tempo del processo – Fattispecie

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 25732/2016 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS) giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– ricorrente incidentale –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 30/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/12/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
udito il Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. MISTRI Corrado, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l’assorbimento di quello incidentale,
udito l’Avvocato (OMISSIS) per il ricorrente.

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. (OMISSIS), con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Firenze in data 16.4.2015, chiese la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento dell’indennizzo, pari ad Euro 1.312,50, per la irragionevole durata di un precedente giudizio di equo indennizzo, intrapreso dinanzi alla Corte d’Appello di Perugia e che si era protratto per oltre quattro anni, comprensivi della fase di merito dinanzi alla Corte d’Appello di Perugia, del successivo giudizio in cassazione e della fase di esecuzione dinanzi al Tribunale di Roma.
Il Consigliere delegato della Corte d’Appello, con decreto del 4 maggio 2015 accoglieva parzialmente il ricorso, ravvisando, a fronte di una durata ragionevole del processo, individuata in due anni e sei mesi, un ritardo di anni 1, mesi 8 e giorni 15, liquidando la somma di Euro 1.000,00.
A seguito di opposizione del Ministero della Giustizia, la Corte d’Appello, in composizione collegiale, con decreto n. 570 del 30/3/2016, accoglieva le doglianze dell’Amministrazione e rigettava integralmente la domanda del (OMISSIS).
Disattesa l’eccezione di incompetenza del giudice adito, essendo a tal fine irrilevante che si fosse svolta l’esecuzione dinanzi al Tribunale di Roma, nonche’ quella di decadenza per il decorso del termine semestrale di cui alla L. n. 89 del 2001, articolo 4, riteneva fondata la doglianza del Ministero che invocava la non computabilita’ ai fini della durata ragionevole del periodo di tempo intercorso tra la pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione e la successiva notifica del precetto.
Infatti, la Corte distrettuale riteneva che, anche a voler affermare l’unitarieta’ tra procedimento di cognizione e quello di esecuzione ai fini della Legge Pinto, come affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6312/2014, non poteva pero’ ritenersi che tale unitarieta’ imponesse di considerare anche il tempo trascorso prima dell’inizio della procedura esecutiva. Infatti, l’indennizzo di cui alla L. n. 89 del 2001, copre solo i ritardi da irragionevole durata dei processi, e quindi solo il ritardo successivo alla concreta promozione dell’esecuzione forzata.
Facendo applicazione di tale principio, risultava che il procedimento di equo indennizzo, in sede di cognizione aveva avuto una durata di anni 2 e giorni 20, mentre la procedura esecutiva si era esaurita in sei mesi e venti giorni, senza che quindi fosse maturato un ritardo meritevole di ristoro.
In ogni caso il cumulo tra la fase di cognizione e quella di esecuzione era superiore al termine di durata ragionevole di due anni, sei mesi e 5 giorni, come delineato dalla giurisprudenza, per un periodo inferiore a mesi sei, il che escludeva che potesse essere richiesto l’indennizzo.
Infine, la Corte distrettuale poneva le spese di lite a carico dell’originario ricorrente.
2. Per la cassazione di tale decreto (OMISSIS) ha proposto ricorso, sulla base di due motivi.
Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale condizionato affidato a due motivi.
3. Il primo motivo di ricorso principale lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, articolo 2, nella parte in cui i giudici di merito hanno escluso che potesse considerarsi ai fini della irragionevole durata del processo anche il periodo di tempo trascorso tra la data di pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione e la definizione del processo esecutivo.
Si sostiene che e’ erronea l’affermazione secondo cui la fase di esecuzione, suscettibile di essere presa in esame ai fini della L. n. 896 del 2001, sia solo quella che inizia con la notifica del pignoramento, occorrendo invece valorizzare i principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6312/2014 in punto di unitarieta’ tra fase di cognizione e fase di esecuzione. Per tale ipotesi, pur tenendo conto del periodo di sei mesi e cinque giorni assegnato all’Amministrazione per provvedere al pagamento del debito scaturente dalla sentenza che accolga la domanda di equo indennizzo, la durata complessiva deve tenere conto come dies a quo del giorno a partire dal quale diviene esecutivo il provvedimento che accorda l’indennizzo. Inoltre non deve trascurarsi che ai sensi del Decreto Legge n. 669 del 1996, articolo 14, e’ stato concesso alle Pubbliche Amministrazioni un termine di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo che preclude prima del suo decorso la notifica del precetto, termine che deve essere preso in esame anche ai fini oggetto di causa.
3.1 Il motivo e’ infondato.
Ritiene il Collegio che debba darsi continuita’ al principio di recente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 19833/2019, secondo cui nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, da considerare unitariamente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo L. n. 89 del 2001, ex articolo 2, non va considerato come “tempo del processo” quello intercorso fra la definitivita’ della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva, quest’ultimo invece potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
In tale sentenza Le Sezioni Unite, hanno fornito risposta all’ordinanza interlocutoria di questa Sezione (n. 802/2019), offrendo una ricostruzione del sistema che questo Collegio ritiene di dover condividere.
La Corte, dopo aver richiamato la ricostruzione dei precedenti di legittimita’ offerta dall’ordinanza interlocutoria, ha sottolineato come una valutazione diacronica di tali pronunzie consenta di affermare che le Sezioni Unite abbiano fin dall’inizio avuto come obiettivo la conformazione di un sistema di protezione del diritto alla ragionevole durata del processo destinato progressivamente ad armonizzarsi con la disciplina concretamente declinata dall’articolo 6 CEDU e dal diritto vivente della Corte Edu.
In primo luogo, l’introduzione, all’interno della L. n. 89 del 2001, di un termine, previsto a pena di decadenza, di sei mesi per la proposizione dell’azione “Pinto”, decorrente secondo quanto previsto dall’articolo 4, qui in rilievo nella formulazione modificata dal Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 55, comma 1, lettera d), conv. nella L. n. 134 del 2012, pure oggetto di una pronunzia parzialmente caducatoria resa dalla Corte costituzionale (sent. n. 88/2018) – dalla definitivita’ della decisione che conclude il procedimento, ha imposto alla Corte di delineare i rapporti fra fase di cognizione e fase di esecuzione ai fini della ragionevole durata del processo.
Quindi, percorso l’iter giurisprudenziale succedutosi nel tempo, le Sezioni Unite hanno richiamato le sette sentenze del 19 marzo 2014 (dalla n. 6312 alla 6318) delle stesse S.U. con le quali e’ stata riconosciuta l’unita’ funzionale fra fase di cognizione e fase esecutiva, e proprio con specifico riferimento ai giudizi di equo indennizzo, ritenuti essere degli ordinari processi di cognizione soggetti all’esigenza di una definizione in tempi ragionevoli, la quale e’ tanto piu’ pressante in quanto finalizzata all’accertamento della violazione di un diritto fondamentale nel giudizio presupposto, la cui lesione genera di per se’ una condizione di sofferenza e un patema d’animo che sarebbe ingiustificato non riconoscere anche per i procedimenti di cui alla L. n. 89 del 2001.
Con tali sentenze le Sezioni Unite affermarono che in un’ottica costituzionale e convenzionale – protesa a realizzare l’interesse della parte alla concreta e piena soddisfazione del diritto riconosciuto giudizialmente, i due processi (di merito e di esecuzione) non potevano che considerarsi avvinti all’interno di un unico procedimento “(…) che, cioe’, ha inizio con l’accesso al giudice e fine con l’esecuzione della decisione, definitiva ed obbligatoria, dallo stesso pronunciata in favore del soggetto riconosciuto titolare della situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio fatta valere nel processo medesimo”. Pertanto, laddove la decisione presa in sede di cognizione non sia stata spontaneamente ottemperata dall’obbligato ed il titolare abbia scelto di promuovere l’esecuzione del titolo cosi’ ottenuto (fase processuale dell’esecuzione forzata o dell’ottemperanza) – la garanzia costituzionale di effettivita’ della tutela giurisdizionale e l’articolo 6, par. 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, impongono di considerare tale articolato e complesso procedimento come un unico processo scandito, appunto, da fasi consequenziali e complementari.
Quindi, le sentenze del 2014 hanno ritenuto che in caso di ritardo della P.A. nel pagamento delle somme riconosciute in forza di decreto di condanna “Pinto” definitivo, pronunciato ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, articolo 3, l’interessato, ove il versamento delle somme spettanti non sia intervenuto entro il termine dilatorio di mesi sei e giorni cinque dalla data in cui il provvedimento e’ divenuto esecutivo, ha diritto – sia che abbia esperito azione esecutiva per il conseguimento delle somme a lui spettanti, sia che si sia limitato ad attendere l’adempimento spontaneo della P.A. – ad un ulteriore indennizzo commisurato al ritardo nel soddisfacimento della sua pretesa eccedente al suddetto termine nonche’, ove intrapresa, all’intervenuta promozione dell’azione esecutiva, che, tuttavia, puo’ essere fatto valere esclusivamente con ricorso diretto alla CEDU (in relazione all’articolo 41 della Convenzione EDU) e non con le forme e i termini della L. n. 89 del 2001, articolo 2, comma 1, la cui portata non si estende alla tutela del diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive.
E’ poi intervenuta la sentenza n. 9142/2016, sempre delle Sezioni Unite che ha temperato il principio dell’unitarieta’ delle fasi (di cognizione ed esecuzione), riconoscendolo unicamente nel caso in cui la parte di un processo civile concluso con il riconoscimento di un diritto avesse iniziato entro il termine di decadenza previsto dalla L. n. 89 del 2001, articolo 4, la fase esecutiva.
In tal modo il termine per promuovere il giudizio Pinto poteva farsi coincidere con la definitivita’ della fase esecutiva, decorrendo dalla piena soddisfazione del diritto stesso, purche’ tale fase fosse iniziata prima della scadenza del termine semestrale per promuovere l’azione Pinto in seguito alla definitivita’ della sentenza che accerta l’esistenza del diritto. In mancanza di attivazione della fase esecutiva nel termine di decadenza previsto dall’articolo 4, non era quindi possibile sommare, ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo, il tempo occorso per la definizione della fase di cognizione, potendosi invece profilare un’irragionevole durata del processo unicamente per la durata della fase esecutiva.
Tuttavia, successivamente e’ intervenuta la sentenza della Corte Edu nel caso Bozza c. Italia resa il 14 settembre 2017, la quale nel fornire risposta al problema circa l’incidenza della fase esecutiva ai fini del rispetto del termine decadenziale rapportato alla definizione della fase di cognizione, ha ricordato come la propria giurisprudenza riconosca l’esecuzione quale parte integrante del “processo” ai sensi dell’articolo 6 CEDU affermando testualmente che “…. il diritto a un tribunale sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva e vincolante rimanesse inoperante a scapito di una delle parti. L’esecuzione di una sentenza, indipendentemente da quale giudice l’abbia pronunciata, deve essere dunque considerata come facente parte integrante del processo ai sensi dell’articolo 6 (si veda anche Bourdov c. Russia (n. 2), ric. n. 33509/04, p. 65, CEDU 2009)”.
Tuttavia la Corte Edu individua una netta differenza tra debitore-privato e debitore-pubblica amministrazione, in quanto nel primo caso quando il privato o la persona sono inadempienti, spetta agli Stati contraenti garantire l’assistenza necessaria affinche’ il diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione, potendo questi essere considerati responsabili per quanto riguarda l’esecuzione di una sentenza da parte di una persona di diritto privato soltanto se le autorita’ pubbliche implicate nelle procedure di esecuzione non danno prova della diligenza richiesta o se impediscono l’esecuzione.
Nel secondo, invece, “il privato che ha ottenuto una sentenza contro quest’ultimo non deve di norma avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata, essendo sufficiente che la sentenza sia regolarmente notificata all’autorita’ nazionale interessata o che siano espletati alcuni adempimenti processuali di natura formale.
Pertanto, avuto riguardo alla fattispecie sottoposta al suo esame, la Corte EDU ha ritenuto che, una volta divenuta definitiva la decisione del tribunale, in assenza di sua notifica, a partire da tale data, l’autorita’ convenuta sapeva o era tenuta a sapere che doveva versare alla ricorrente la somma dovuta, cosi’ che la ricorrente non era tenuta a intentare una qualsiasi azione di esecuzione, poiche’ si trattava, nella fattispecie, di una sentenza ottenuta contro lo Stato.
La Corte Edu ha altresi’ esaminato la sentenza delle Sezioni Unite n. 9142 del 2016, osservando che era stato “operato (…) un capovolgimento giurisprudenziale in materia (…)”. E benche’ i fatti all’origine della sentenza n. 9142/2016 potessero ritenersi simili ai fatti esaminati dal giudice di Strasburgo, la Corte ha ritenuto che “pur non essendo perfettamente allineata ai principi fissati nella sua giurisprudenza, questa sentenza si prestava a una lettura globale secondo la quale “e’ possibile considerare il procedimento come un tutt’uno, ai fini del calcolo della durata (del procedimento stesso)”.
I principi della sentenza Bozza, possono essere quindi cosi’ riassunti:
a) la fase processuale di cognizione e quella di esecuzione hanno natura unitaria rispetto alla parte che abbia ottenuto il riconoscimento del diritto all’indennizzo nei confronti dello Stato per l’irragionevole durata del processo;
b) il privato che abbia ottenuto il riconoscimento di un credito da una sentenza emessa contro lo Stato-debitore non ha alcun onere, di norma, di avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata;
c) la tutela accordata dall’articolo 6, par. 1, CEDU alla ragionevole durata del processo va riconosciuta in modo pieno ed integrale anche se la parte abbia attivato la domanda indennitaria considerando come epoca finale quella della decisione definitiva resa in sede esecutiva.
Alla luce della piena efficacia e vincolativita’ della decisione della Corte Edu, ricavabile dal successive comportamento del Governo italiano in analoghe controversie dinanzi alla Corte EDU, le Sezioni Unite nella sentenza del 2019 hanno sostenuto che l’approdo al quale era giunta la sentenza n. 9142/2016 debba essere in parte rivisitato, cosi’ che il raccordo fra fase di cognizione ed esecutiva introdotta in quell’occasione attraverso il meccanismo della proposizione dell’azione esecutiva entro il termine semestrale dalla definitivita’ del giudizio di cognizione non puo’ trovare alcuna giustificazione se il soggetto debitore e’ lo Stato, essendo questi tenuto ad adempiere l’obbligazione pecuniaria senza che sia possibile individuare una condotta abusiva da parte del creditore che rimanga inerte, in attesa dell’adempimento spontaneo del debitore – Stato.
Quindi il concetto di “decisione definitiva” al quale si aggancia il termine di decadenza previsto dalla L. n. 89 del 2001, articolo 4, deve essere riferito alla definitivita’ della decisione che conclude la fase di esecuzione eventualmente azionata dal creditore, senza che l’inerzia eventualmente protrattasi fra la definitivita’ della fase di cognizione e l’inizio di quella esecutiva possa ridondare in pregiudizio del creditore, impedendogli di ottenere l’indennizzo integrale per l’irragionevole durata anche del processo di merito a suo tempo definito.
L’unitarieta’ incondizionata fra le fasi di cognizione e di esecuzione ai fini della individuazione dell’irragionevole durata del processo affermata nel 2014 va circoscritta ai soli casi nei quali il soggetto debitore coincide con lo Stato.
Sebbene nella fattispecie oggetto del presente ricorso si controverta di un ricorso di equo indennizzo per il ritardo di una precedente procedura di cui alla L. n. 89 del 2001, il punto oggetto delle censure non attiene all’individuazione del termine di decadenza, ma all’incidenza sulla durata del processo anche del periodo di tempo in cui, in assenza di un’iniziativa esecutiva del creditore, lo Stato sia rimasto inerte nel soddisfare il proprio obbligo.
Ed, invero le Sezioni Unite del 2019 hanno affermato che ai fini della verifica del termine di decadenza, l’inizio della fase esecutiva entro il termine di sei mesi dalla definitivita’ della fase di cognizione per consentire la valutazione unitaria del ritardo, come affermato nella sentenza n. 9142/2016, deve avvenire nei soli casi in cui il soggetto debitore di un obbligo accertato giudizialmente non coincide con lo Stato.
Tuttavia la ricondotta unita’ fra le due fasi nel caso dello Stato – debitore dell’indennizzo Pinto non comprende, ai fini del riconoscimento del tempo processo, anche il tempo relativo all’inerzia che il creditore ha mantenuto fra la definitivita’ della fase di cognizione e l’inizio del procedimento esecutivo.
Invero come gia’ chiarito dalle Sezioni Unite nelle sette sentenze del 2014, si tratta di un autonomo pregiudizio che, pur risultando protetto dall’articolo 6, par.1 CEDU, riguarda il ritardo nell’esecuzione della decisione favorevole eccedente lo spatium adimplendi di mesi sei e giorni 5 e che e’ estraneo alla tutela approntata dal rimedio interno introdotto dalla legge c.d. Pinto, indirizzata inequivocabilmente a riconoscere un indennizzo per i tempi del processo, siano essi collegati al protrarsi irragionevole della fase di cognizione che di quella esecutiva, ma non idoneo, in assenza di un apposito rimedio interno, ad offrire tutela per il diverso ed autonomo pregiudizio sofferto con riguardo al ritardo nell’esecuzione della decisione favorevole.
Trattasi di conclusione che trova il conforto anche della giurisprudenza convenzionale, come risulta dalla sentenza Gaglione e a. c. Italia – Corte dir. uomo, 21 dicembre 2010 che ne ha riconosciuto la ricorribilita’ immediata innanzi alla Corte di Strasburgo, senza dovere proporre un autonomo giudizio in ambito interno (cfr. anche sent. Simaldone c. Italia, p. 44) per ottenere il relativo indennizzo, riconoscendolo peraltro in modo forfetario e predeterminato nella misura di Euro 200,00, cosi’ dimostrando la diversa natura rispetto a quella relativa al pregiudizio connesso alla non ragionevole durata del processo.
A supporto di tale convincimento e’ stata apportata anche la circostanza che il pregiudizio correlato alla tutela apprestata dalla L. n. 89 del 2001, e’ quello relativo al processo svolto davanti ad un giudice, non quello che attiene ad un ritardo attribuibile allo Stato amministrazione, come si e’ detto autonomamente risarcibile (cfr. Cass. S.U. n. 4429/2014, con riferimento ad un procedimento amministrativo precedente all’instaurazione del processo).
Conforta tale conclusione anche la previsione di cui alla L. n. 89 del 2001, articolo 2 quater, che esclude dalla somma delle due fasi (come gia’ affermato dalle sentenze delle S.U. del 2014) i periodi intermedi.
Le Sezioni Unite hanno poi avuto modo di affrontare la questione attinente alla rilevanza del termine di 120 giorni di cui al Decreto Legge 31 dicembre 1996, n. 669, articolo 14, conv. dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30, ai fini della durata ragionevole del processo, osservando che detto termine, pur ponendosi in una prospettiva diversa rispetto alla specificita’ della procedura liquidatoria degli indennizzi per equa riparazione della non ragionevole durata del processo rispetto alle procedure di pagamento degli altri debiti della p.a. (Corte Cost. n. 135/2018) laddove impedisce prima del suo decorso l’azione esecutiva, potra’ eventualmente rilevare come ritardo nell’esecuzione, dando luogo all’indennizzo autonomamente richiedibile innanzi alla Corte edu, non potendo in alcun modo produrre un effetto incidente sul tema della ragionevole durata del processo successivamente promosso ne’ sullo spatium adimplendi che la giurisprudenza nazionale, in modo coerente con quella della Corte Edu, ha riconosciuto allo Stato per l’esecuzione del pagamento dell’indennizzo.
Ancora, quanto alla questione dell’inizio del procedimento esecutivo, le Sezioni Unite hanno ribadito che non puo’ che rilevare la data della notifica del pignoramento ai sensi dell’articolo 491 c.p.c., come del resto gia’ riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte – Cass. n. 12690/2017 – non potendo certo riconoscersi alcun valore alla data di notifica del titolo esecutivo e/o del precetto, proprio in relazione alla natura neutra di tali atti rispetto all’inizio della fase esecutiva che va invece collegata alla disposizione processuale presente nel codice di procedura civile appena richiamata.
Infine, quanto alla piena equiparabilita’ del giudizio di ottemperanza al procedimento esecutivo, e’ stata data risposta positiva al quesito, atteso che la pronunzia adottata in tema di indennizzo Pinto, pur non avendo la forma di sentenza, ha pienamente e sostanzialmente il contenuto di un provvedimento decisorio in materia di diritti soggettivi, idoneo ad assumere valore ed efficacia di giudicato, ai fini della ammissibilita’ del ricorso per ottemperanza (assumendosi altresi’ l’equiparabilita’ del giudizio di ottemperanza a quello esecutivo – cfr. Cass., S.U., nn. 27365 e 27364 del 2009).
Ne discende che, poiche’ nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, da considerare unitariamente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo L. n. 89 del 2001, ex articolo 2, non va considerato come “tempo del processo” quello intercorso fra la definitivita’ della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva, quest’ultimo invece potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, il motivo si rivela come infondato, e deve quindi essere rigettato.
Ed invero, il giudice di merito, nel considerare unitariamente la fase di cognizione e quella di esecuzione si e’ pienamente uniformato ai principi espressi in punto di unitarieta’ delle fasi sopra fissati, escludendo che la durata del processo ulteriore a quella indicata come ragionevole (in anni due mesi sei e giorni cinque) superasse la soglia minima prevista dalla L. n. 89 del 2001, articolo 2 bis.
Parimenti coerente e’ la decisione gravata con la ricostruzione operata dalle Sezioni Unite, a proposito dell’irrilevanza del tempo d’inerzia protrattosi fra la definitivita’ del giudizio di cognizione e quella dell’esecuzione (sebbene erroneamente, e comunque in senso favorevole al ricorrente, fatta coincidere con la notifica del precetto), avendo la Corte di appello computato il tempo delle due fasi processuali, essendo tale conclusione ancora una volta in piena sintonia con il principio dell’irrilevanza, quale “tempo del processo”, del lasso temporale intercorso fra le due fasi, non potendo avere alcun rilievo il termine di 120 giorni di cui al Decreto Legge n. 699 del 1996, articolo 14, conv. dalla L. n. 30 del 1997.
4. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c. e del Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, censurando il decreto impugnato per non aver disposto la compensazione delle spese di giudizio dovendo tener conto del mutamento giurisprudenziale su questioni dirimenti.
Anche tale motivo di ricorso e’ infondato.
La giurisprudenza di questa Corte e’ ferma nel ritenere che in tema di spese processuali, la facolta’ di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non e’ tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facolta’, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualita’ di una compensazione, non puo’ essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione – cfr., da ultimo, Cass. n. 11329/2019.
Ne’ tale statuizione puo’ determinare un vulnus rispetto ai principi espressi dalla Corte Edu che si e’ limitata a riconoscere il diritto della parte vittoriosa al rimborso delle spese processuali che si affrontano quando viene presentato un ricorso se il loro ricorso e’ considerato fondato (cfr. Corte Edu, Scordino c. Italia, cit., p. 201).
A tale principio si e’ attenuto il giudice di appello, addossando alla parte soccombente il peso delle spese processuali.
Sulla base di tali considerazioni, il ricorso principale va rigettato.
5. Il rigetto del ricorso principale impone poi di dover dichiarare assorbito il ricorso incidentale, espressamente qualificato come condizionato, con il quale deduceva, da un lato, la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, articolo 4, quanto all’individuazione del termine di decadenza dalla domanda ex lege n. 89 del 2001 e, dall’altro, la violazione della L. n. 89 del 2001, articolo 3, comma 1, per non essersi tenuto conto, ai fini della competenza della Corte d’Appello adita che la procedura esecutiva era stata instaurata dinanzi al Tribunale di Roma, con la conseguente competenza della Corte d’Appello di Perugia.
6. Attesa la novita’ della questione di diritto sottesa ai rapporti tra giudizio di cognizione e giudizio di esecuzione, allorquando e’ debitrice un’amministrazione statale, che ha richiesto l’intervento delle Sezioni Unite, si ritiene che sussistano le condizioni per compensare le spese.
7. Non sussistono i presupposti di legge sul raddoppio del contributo unificato (Cass. n. 2273/2019) come si desume dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 10.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale.
Compensa le spese del presente giudizio.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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