Ai fini del condono del cambio di destinazione d’uso

Consiglio di Stato, Sentenza|18 gennaio 2021| n. 535.

Ai fini del condono del cambio di destinazione d’uso, occorre che la parte dimostri “quella “riconoscibile e inequivoca identità funzionale, che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso e, comunque, che i locali controversi avessero “caratteristiche oggettivamente ed univocamente idonee alla nuova destinazione, anche se gli interventi di finitura non risultano ancora completati.

Sentenza|18 gennaio 2021| n. 535

Data udienza 14 gennaio 2021

Integrale

Tag – parola chiave: Interventi edilizi – Cambio di destinazione d’uso – Condono edilizio – Presupposti – Individuazione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2760 del 2016, proposto da
Ma. Ro. Vi., titolare dell’omonima ditta individuale, rappresentata e difesa dall’avvocato prof. Fe. La., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato An. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Per l’annullamento o la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Terza n. 04564/2015, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore il Cons. Francesco De Luca nell’udienza pubblica del giorno 14 gennaio 2021 svoltasi ai sensi dell’art. 25 Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137. conv. in L. 18 dicembre 2020, n. 176, attraverso l’utilizzo della piattaforma “Microsoft teams”;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. L’odierna appellante, in qualità di esclusiva proprietaria degli immobili ubicati al piano terra degli edifici nn. 1, 2 e 4 del lotto R3 e dell’edificio n. 1 del lotto R7 del P.E.E.P. in località (omissis), interessati da istanze di condono del 1.3.1995, n. prot. 3493 e ss. presentate dalla società dante causa, con atto di diffida del 10.12.2013 indirizzato all’Amministrazione comunale appellata, deducendo di non avere avuto alcuna comunicazione in ordine alle relative istanze e di subire danni in conseguenza della condotta inerte del Comune, ha intimato il rilascio dei titoli abilitativi ex lege 724/1994.
Il Comune, richiesto con nota n. 2665 del 6.2.2014, riscontrando la diffida, ha rappresentato che le istanze di condono erano state rigettate con atti di diniego del 29.6.2004, che con atto n. 66 del 9.9.2004 era stata emessa ingiunzione per l’adeguamento alle prescrizioni della concessione edilizia n. 148 del 28.09.1990 (altezza interna dei locali mt 2,50) delle unità immobiliari poste al piano seminterrato dei fabbricati de quibus, nonché che con atto n. 53 del 20.10.2005, previo verbale n. 33 del 28.2.2004 di accertamento di inottemperanza all’ordinanza n. 66 del 28.2.2004, era stata dichiarata l’acquisizione al patrimonio comunale degli immobili in parola.
2. Con ricorso in primo grado l’odierna appellante ha impugnato la nota comunale n. 2665/14 cit., nonché tutti i provvedimenti ivi richiamati, aventi ad oggetto il rigetto delle istanze di condono presentate dalla società dante causa, oltre che l’ordine di adeguamento dei locali alle prescrizioni della concessione edilizia n. 148/90 e l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dei relativi immobili.
A fondamento del ricorso sono state censurate:
– la violazione delle garanzie partecipative di cui alla L. n. 241/90, non essendo stata assicurata la possibilità per la ricorrente di prendere parte ai procedimenti conclusisi con l’adozione degli atti impugnati, sebbene l’Amministrazione comunale fosse stata notiziata del trasferimento in proprio favore della proprietà dei locali oggetto di domanda di condono;
– la sussistenza dei presupposti per l’accoglimento delle istanze di condono, a fronte di una comunicazione comunale lacunosa, non recante l’indicazione delle ragioni di fatto e di diritto sottese alle determinazioni all’uopo assunte;
– la violazione delle garanzie partecipative, anche in relazione al procedimento conclusosi con l’ingiunzione di ripristino e, comunque, l’insussistenza dei presupposti per l’emissione del relativo provvedimento, facendosi questione di difformità non essenziali rispetto a quanto assentito con i titoli edilizi;
– l’impossibilità di esecuzione dell’ordine di rimozione, in ragione del pregiudizio per le opere conformi;
– la violazione dell’obbligo di sospensione dei procedimenti amministrativi in pendenza dell’istanza di condono;
– l’illegittimità del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale per la mancata comunicazione dell’ordinanza di demolizione al proprietario degli immobili de quibus.
3. A seguito della costituzione in giudizio dell’Amministrazione comunale e dell’acquisita conoscenza dei provvedimenti lesivi richiamati nella nota n. 2665/14 cit., la parte ricorrente ha proposto motivi aggiunti, svolgendo ulteriori censure a sostegno dell’illegittimità degli atti impugnati.
In particolare, secondo quanto dedotto con i motivi aggiunti:
– risultavano violate le garanzie partecipative, non essendo stati comunicati alla ricorrente, proprietaria degli immobili, i motivi ostativi all’accoglimento delle istanze di condono, sebbene il Comune fosse a conoscenza dell’intervenuto trasferimento di proprietà ;
– doveva intendersi formato il silenzio assenso ex art. 35 L. n. 47/85, con la conseguente necessità di qualificare gli atti di diniego quale intervento in autotutela, in assenza dei presupposti di legge;
– sussistevano i presupposti per la sanatoria degli abusi edilizi, in quanto l’immobile era stato funzionalmente completato, sicché la circostanza per cui i locali non risultassero all’attualità adibiti a destinazione commerciale non poteva essere invocata per negare la sanatoria del cambio di destinazione d’uso (da non residenziale a commerciale);
– la maggiore altezza interna realizzata rispetto a quella prescritta dalla variante 148/1990 non avrebbe potuto configurare un abuso riconducibile alla tipologia 1 richiamata nell’atto comunale, non facendosi questione di immobili abusivi al momento della loro edificazione (stante la conformità alla concessione edilizia n. 62/87, soltanto successivamente variata con titolo n. 148/1990); inoltre, non si faceva questione di box, come erroneamente ritenuto dall’Amministrazione comunale; né nelle istanze risultava riportata una infedele rappresentazione dei luoghi;
– l’atto di diniego si presentava quale atto di secondo grado, perché teso a riesaminare la precedente nota n. 10471/98, ragion per cui avrebbe dovuto essere corredato da una motivazione rafforzata propria degli atti di annullamento d’ufficio;
– le garanzie procedimentali risultavano violate anche in relazione all’ordine di ripristino;
– in ogni caso, si faceva questione di difformità non essenziali e non rimuovibili senza pregiudizio per le parti dell’immobile non abusive;
– il provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale non risultava preceduto dalla notificazione al proprietario dell’ordine di ripristino asseritamente non ottemperato.
4. Il Comune intimato si è costituito in giudizio, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso.
5. Il Tar, rigettate le eccezioni di rito opposte dalla difesa comunale, ha accolto il ricorso principale e i motivi aggiunti limitatamente alle censure svolte contro l’atto di acquisizione gratuita degli immobili al patrimonio comunale, rilevando che tale effetto non avrebbe potuto prodursi in assenza della previa notificazione al proprietario dell’ordine di ripristino.
6. La ricorrente in primo grado ha appellato la sentenza di prime cure, censurandone l’erroneità e reiterando, in forma di specifica critica alle statuizioni impugnate, le doglianze disattese dal Tar.
7. Il Comune intimato si è costituito in giudizio in resistenza all’appello, affidando le proprie articolate controdeduzioni alla memoria conclusionale depositata in data 15.12.2020 in vista dell’udienza di discussione.
8. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza del 14 gennaio 2021.

DIRITTO

1. Con il primo motivo di appello si censura l’erroneità della sentenza di prime cure nella parte in cui, da un lato, ha limitato la legittimazione a ricevere gli atti del procedimento di condono alla parte istante, dall’altro, ha escluso l’idoneità della violazione dell’art. 10 bis L. n. 241 del 1990 a determinare l’annullamento degli atti impugnati.
In particolare, secondo la prospettazione dell’appellante:
– la legittimazione a ricevere gli atti procedimentali e il provvedimento conclusivo non potrebbe essere limitata al richiedente, ma dovrebbe essere riconosciuta in capo a chi, nelle more della decisione amministrativa, abbia acquistato la proprietà degli immobili oggetto di domanda di condono con atto regolarmente comunicato all’Amministrazione procedente; né potrebbe diversamente argomentarsi sulla base del dato letterale o della ratio di tutela sottesa al disposto dell’art. 35 L. n. 47/1985, tenuto conto che lo stesso impianto normativo riferito al condono di opere abusive ammetterebbe la trasferibilità degli immobili oggetto di domanda di condono e, comunque, le esigenze di certezza giuridica sottese alla comunicazione del provvedimento conclusivo imporrebbero di garantire la partecipazione procedimentale della parte effettivamente incisa dalla relativa determinazione provvedimentale, in quanto titolare, per atto sopravvenuto in pendenza del procedimento, della proprietà dei beni oggetto di istanza di condono; nella specie, peraltro, il Comune era stato notiziato prima dell’adozione del diniego di condono non soltanto dell’avvenuto trasferimento della proprietà degli immobili per cui è causa, ma anche della richiesta dell’acquirente di essere destinataria dei relativi atti procedimentali;
– l’omessa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di condono avrebbe inciso sull’effettività delle garanzie partecipative previste dal legislatore in favore dell’appellante, impedendo, peraltro, di assicurare un contraddittorio procedimentale funzionale alla migliore ricostruzione dei presupposti del provvedere.
Il motivo di appello è infondato.
Ragioni letterali e teleologiche impongono di ritenere dovuta la comunicazione del diniego di sanatoria nei soli confronti del soggetto richiedente, anche ove, nelle more del procedimento, l’istante abbia traferito la proprietà dei beni oggetto della domanda di condono in favore di soggetti terzi.
L’art. 35 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 stabilisce, infatti, espressamente che “il diniego di sanatoria è notificato al richiedente”, sicché non impone all’Amministrazione di verificare chi sia l’attuale proprietario del bene immobile, prevedendo la comunicazione del provvedimento negativo nei soli confronti del richiedente e, dunque, della parte che, attraverso la propria iniziativa, abbia avviato il procedimento di sanatoria.
Sotto il profilo teleologico, come precisato da questo Consiglio (cfr. sez. II, 2 dicembre 2020, n. 7637, 2 novembre 2020, n. 6709 e 23 ottobre 2020, n. 6436), una simile stringente applicazione del dato normativo trova ragionevole rispondenza in evidenti esigenze di certezza e celerità che devono assistere procedimenti e provvedimenti riguardanti beni ed interessi di rilevanza generale, come la tutela del territorio, soprattutto ove con la stessa venga ad interferire un regime derogatorio, quale quello introdotto da norme di sanatoria di interventi realizzati in assenza di titolo edilizio o in difformità dalla disciplina urbanistica vigente.
Ne discende che, del tutto ragionevolmente, il legislatore ha indicato il solo richiedente come soggetto interlocutore del procedimento di condono, nonché quale formale destinatario del provvedimento finale, affidando alla tutela predisposta dal diritto civile ogni questione che possa sorgere da eventuali vicende traslative di diritti dominicali interessanti le opere e gli immobili per cui è stato richiesto il beneficio urbanistico.
Il trasferimento del bene oggetto di domanda di condono, in altri termini, anche ove comunicato all’Amministrazione procedente, non comporta un mutamento soggettivo del rapporto amministrativo, permanendo la sua titolarità in capo alla parte istante.
Fermi rimanendo i rimedi azionabili in ambito civile a fronte di eventuali inadempienze contestabili al dante causa, l’acquirente, in quanto titolare di una posizione qualificata in relazione al bene oggetto della domanda di condono, deve ritenersi legittimato ad intervenire nel procedimento, in qualità di parte interessata al suo esito, producendo memorie e documenti al fine di orientare in senso a sé favorevole l’esercizio del pubblico potere; ma non può vantare una pretesa procedimentale avente ad oggetto la ricezione degli atti infraprocedimentali (quale il preavviso di rigetto ex art. 10 bis. L. n. 241 del 1990) e del provvedimento finale assumibili dall’Amministrazione procedente, la cui omessa comunicazione, dunque, non dà luogo ad una violazione di legge inficiante il diniego di sanatoria all’uopo emesso.
Peraltro, una tale conclusione non potrebbe neanche ritenersi incompatibile con le esigenze di tutela giurisdizionale, tenuto conto che, come correttamente rilevato dal primo giudice, il proprietario, da un lato, in quanto titolare del bene immobile oggetto del diniego di condono, è inciso nella propria sfera giuridica dall’esercizio del pubblico potere e, come tale, risulta legittimato alla proposizione del ricorso in sede giurisdizionale (non risentendo, peraltro, ai sensi di quanto infra si osserverà, degli effetti riconducibili all’altrui iniziativa giurisdizionale); dall’altro, ove non abbia ricevuto la notificazione del provvedimento negativo, non decade dalla proposizione del ricorso giurisdizionale, proponibile fintantoché non abbia avuto la sua effettiva conoscenza.
2. Con il secondo motivo di appello viene censurata l’erroneità della sentenza di prime cure nella parte in cui, argomentando sulla base della sussistenza nell’area di edificazione di un vincolo paesaggistico, ha escluso la sussistenza dei presupposti per la formazione del silenzio assenso.
Secondo la prospettazione dell’appellante, tuttavia, nel caso di specie, la Soprintendenza si era pronunciata favorevolmente e, comunque, facendosi questione di mere opere interne, l’acquisizione dei relativi pareri sarebbe stata irrilevante ai fini della formazione del silenzio assenso sulle istanze di condono.
Il motivo di appello è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio (ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 18 luglio 2019, n. 5061):
– ai fini della formazione del titolo abilitativo per silentium sono necessari sia il pagamento dell’oblazione e degli oneri di concessione dovuti, sia il deposito di tutta la documentazione prevista per la sanatoria, non potendo altrimenti determinarsi l’effetto sanate per il decorso del termine previsto dall’art. 39, comma 4, della l. 724 del 1994 (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 6 febbraio 2019 n. 897).
– non sono suscettibili di sanatoria tacita gli immobili siti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo all’uopo in ogni caso richiesto il parere espresso dell’Autorità competente alla gestione del vincolo.
Ne deriva che il silenzio assenso invocato dall’appellante non poteva ritenersi formato nel caso di specie, non essendo dimostrati la completezza della documentazione depositata e, soprattutto, l’integrale pagamento dell’oblazione dovuta, né risultando acquisito il parere dell’organo preposto alla tutela paesaggistica.
In particolare, l’istanza di condono era volta ad ottenere sia il cambio di destinazione d’uso dei locali di proprietà dell’odierna appellante, sia l’incremento dell’altezza di siffatti locali rispetto alla misura prevista nel titolo edilizio rilasciato in variante dall’Amministrazione comunale. L’area in esame risultava gravata dal vincolo paesaggistico.
Avuto riguardo al pagamento dell’oblazione, ai fini della formazione del silenzio assenso, occorre l’integrale pagamento di quanto dovuto dal richiedente (Consiglio di Stato, sez. II, 28 settembre 2020, n. 5693).
Nel caso in esame non emerge dagli atti del giudizio neanche l’esatto ammontare dell’importo dovuto, tenuto conto che la stessa Amministrazione comunale, nel pronunciare sulla maggiore altezza dei locali per cui è controversia, con il provvedimento n. 10471 del 1998 (doc. f motivi aggiunti di primo grado) aveva espressamente rilevato che “per quanto concerne gli aumenti di volume, dovranno solo essere verificate le congruità delle oblazioni versate e degli oneri concessori”.
Pertanto, non poteva ritenersi provato l’integrale pagamento dell’oblazione ai fini della formazione del silenzio assenso, essendo incerto perfino il relativo importo all’uopo da corrispondere.
In relazione alla mancanza del parere reso dall’autorità preposta alla gestione del vincolo paesaggistico, in primo luogo, si rileva che la legge non contempla eccezioni in termini di “visibilità ” – o meno – delle opere al fine di escludere la necessità di acquisire il parere di cui all’art. 32 della l. 47 del 1985 di competenza dell’autorità preposta alla vigilanza sui vincoli ambientali-paesaggistici (Consiglio di Stato, sez. II, 18 luglio 2019, n. 5061); il che è, di per sé, dirimente per ritenere comunque necessario il parere dell’autorità competente, potendo incidere la tipologia di abuso sull’esito della valutazione paesaggistica, ma non sulla sua necessità .
In ogni caso, nella specie, non può escludersi che l’abuso commesso dal dante causa dell’odierna appellante – realizzazione di opere connotate da una maggiore altezza rispetto a quella dovuta -, non fosse idoneo ad influire sulle parti esterne dell’intero edificio, in specie sull’altezza del fabbricato.
Il che è desumibile dalle stesse deduzioni svolte in primo grado dalla ricorrente, interessata ad ottenere l’annullamento dell’ordine di rispristino anche in ragione della sua impossibile esecuzione.
A pag. 18 dei motivi aggiunti, la ricorrente, pur deducendo la non essenzialità delle difformità censurate, ha comunque rilevato “l’impossibilità di rimuovere le stesse senza pregiudizio per le opere conformi (visto che non è possibile “segare” un edificio in cemento armato)”: sicché, se il ripristino delle opere fosse idoneo ad influire sull’intero edificio, da ridurre in altezza per essere ricondotto a conformità rispetto alle prescrizioni del titolo edilizio, allora l’abuso de quo non influirebbe soltanto sulle parti interne del fabbricato, ma anche sulla sua altezza complessiva e, dunque, sull’impatto esterno sul territorio circostante; profilo certamente da sottoporre alla valutazione paesaggistica dell’organo competente.
Il prescritto parere paesaggistico, diversamente da quanto censurato in appello, non risulta acquisito agli atti del procedimento di condono: l’appellante argomenta le proprie difese sulla base di quanto dedotto nella relazione tecnica allegata ai motivi aggiunti in prime cure che, tuttavia, fa riferimento a “procedure paesaggistiche” concluse nel 1987 e nel 1994, a fronte di una domanda di condono del 1995; il che evidenzia come nell’ambito del procedimento di condono non sia stato acquisito il favorevole parere dell’organo preposto alla gestione del vincolo paesaggistico; con conseguente insussistenza (anche per tale autonoma ragione) dei presupposti per la formazione del silenzio assenso.
3. Con il terzo motivo di appello è censurata l’erroneità della sentenza di prime cure nella parte in cui ha ritenuto precluso, in quanto coperto dal giudicato formatosi sulla sentenza emessa nei rapporti tra il Comune e la propria dante causa, il motivo di ricorso indirizzato contro il provvedimento di parziale diniego n. 10471/1998, riguardante il mutamento della destinazione d’uso dei locali da non residenziale a commerciale.
Secondo la prospettazione dell’appellante, il giudicato potrebbe produrre effetti preclusivi soltanto tra le stesse parti ovvero nei confronti degli aventi causa in virtù di un titolo successivo alla formazione della cosa giudicata; nella specie, invece, il giudicato si era formato successivamente al titolo di acquisto degli immobili per cui è causa, sicché non avrebbe potuto essere opposto alla ricorrente.
Il Tar avrebbe, dunque, dovuto esaminare il merito della doglianza, ritenendo che, ai fini della sanatoria del cambio di destinazione d’uso, non fosse necessario il concreto diverso utilizzo dei locali, ma soltanto il loro completamento funzionale e la loro compatibilità, sotto il profilo dell’oggettiva conformazione strutturale, con l’uso per il quale era stata avanzata la domanda; requisiti nella specie ricorrenti.
Il motivo di appello, pur contestando fondatamente, in rito, l’insussistenza di un giudicato opponibile all’appellante, è incentrato su una censura infondata nel merito.
L’effetto preclusivo del giudicato, ostativo alla riproposizione della medesima domanda già decisa in via irretrattabile, è suscettibile di operare non soltanto tra le stesse parti processuali, ma anche nei confronti degli aventi causa.
In subiecta materia deve trovare applicazione l’art. 111, ult. comma, c.p.c., secondo cui “La sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione”.
Trattasi di una disposizione espressiva di un principio processuale generale, concernente l’ambito soggettivo del giudicato, operante anche con riferimento al processo impugnatorio amministrativo ai sensi dell’art. 39, comma 1, c.p.a. (cfr. Cons. Stato Sez. VI, Sent., 28 luglio 2015, n. 3727).
Anche la giurisdizione amministrativa si connota, infatti, per la natura soggettiva, tutelando, anziché l’astratta legittimità dell’azione amministrativa, la posizione giuridica della parte ricorrente.
La legittimazione ad agire dinnanzi al giudice amministrativo, salve le fattispecie eccezionali di azioni popolari nella specie non riscontrabili, non può prescindere dalla titolarità di una situazione giuridica soggettiva sostanziale coinvolta nell’esercizio del pubblico potere.
Agendo in giudizio, il ricorrente, in particolare, tende a realizzare un interesse sostanziale, correlato ad un bene della vita, che aspira a conservare – a fronte di azioni amministrative sacrificative della propria sfera giuridica – ovvero a conseguire – qualora l’utilità agognata è soggetta ad intermediazione amministrativa.
Anche in ambito amministrativo, dunque, rilevano i fenomeni successori nel diritto controverso, inteso, più che come diritto litigioso oggetto di contesa, come diritto coinvolto nell’esercizio del pubblico potere, costituente il titolo di legittimazione all’azione giudiziaria.
In applicazione dell’art. 111 c.p.c., pertanto, anche l’avente causa in forza di un titolo di acquisto anteriore alla formazione del giudicato, sopravvenuto in pendenza di giudizio, risente degli effetti dell’azione giudiziaria intrapresa dal proprio dante causa, potendo tutelare la propria posizione soggettiva sia intervenendo nel giudizio, sia impugnando la sentenza emessa a sua definizione.
Tale regola processuale, tuttavia, non opera qualora la successione nel diritto coinvolto nell’esercizio del pubblico potere avvenga prima dell’introduzione del giudizio, non potendo l’avente causa risentire degli effetti giuridici dell’azione successivamente proposta dal proprio dante causa.
In siffatte ipotesi, qualora l’avente causa e il dante causa siano parimenti legittimati al ricorso, emerge una posizione di cointeresse all’azione giudiziaria, tale da permettere a ciascuna parte di agire in giudizio, ponendo in essere atti di impulso processuale suscettibili di produrre effetti esclusivamente sulla propria sfera giuridica.
Tale fattispecie si è realizzata nel caso in esame, in cui l’odierna appellante ha acquistato dalla SO.FI. COOP. SpA la proprietà dei beni coinvolti nell’esercizio del pubblico potere (di sanatoria di abusi edilizi) in data 31.12.1996, anteriormente alla data del primo diniego di condono, sopravvenuto in data 9.7.1998.
In tali ipotesi, l’azione proposta dal cointeressato all’impugnazione non potrebbe dispiegare i propri effetti giuridici nei confronti di chi sia autonomamente legittimato all’impugnazione in virtù di un titolo di acquisto già concluso alla data della proposizione del ricorso.
La società richiedente il condono edilizio, in particolare, quando ha adito la sede giurisdizionale, per chiedere l’annullamento del diniego del 9 luglio 1998, non era più proprietaria dei beni per cui è odiernamente controversia; sicché la posizione dell’attuale appellante non poteva qualificarsi come dipendente da quella vantata dalla SO.. SpA, in quanto, quando la dante causa ha assunto la qualità di parte processuale, attraverso la proposizione del ricorso, la Sig.ra Vi. era già autonomamente legittimata all’azione, perché già proprietaria dei beni non condonati.
L’insussistenza, alla data del ricorso della SO.. SpA, di un rapporto di dipendenza tra il ricorrente e la Sig.ra Vi. impedisce di applicare l’art. 111 c.p.c. e, di conseguenza, rende la sfera giuridica dell’odierna appellante insensibile alle iniziative processuale intraprese dal proprio dante causa successivamente alla conclusione del contratto di compravendita.
Ciò premesso in punto di rito, posto che l’omessa pronuncia nel merito su una censura articolata in prime cure non integra una fattispecie di rimessione della causa al primo giudice, questo Consiglio deve statuire sul motivo di ricorso non esaminato dal Tar.
Il motivo di ricorso è infondato.
Al riguardo, benché le statuizioni rese da questo Consiglio con sentenza n. 885 del 25.2.2014 emessa sul ricorso proposto dal dante causa dell’odierna appellante non siano giuridicamente vincolanti nella presente sede – non operando, per quanto supra osservato, l’effetto preclusivo e conformativo proprio del giudicato di rigetto- si intende confermare, comunque, il principio di diritto espresso con la medesima sentenza, non potendo sanarsi un abuso ancora non realizzato.
Sebbene, ai fini della sanatoria di un cambio di destinazione d’uso, non sia necessaria l’effettiva concreta adibizione dei locali alla nuova destinazione, occorrendo il completamento funzionale delle opere e la loro compatibilità strutturale con l’utilizzo che si intende assentire, non può impiegarsi l’istituto della sanatoria in relazione ad un illecito edilizio ancora non realizzato, altrimenti venendo meno la funzione tipica del condono – volto a rimuovere uno stato di illiceità già consumato-, ed emergendo una distinta funzione autorizzatoria in relazione ad attività future ancora non svolte.
Il condono edilizio di un cambio di destinazione d’uso, in altri termini, in quanto eccezionale strumento di sanatoria, richiede, comunque, che le opere funzionalmente completate, siano idonee e univocamente dirette all’utilizzo diverso rispetto a quello assentito: qualora, invece, siffatte opere fossero compatibili con l’utilizzo autorizzato, non emergerebbe, allo stato, alcun abuso da condonare.
Come precisato da questo Consiglio, infatti, ai fini del condono del cambio di destinazione d’uso, occorre che la parte dimostri “quella “riconoscibile e inequivoca identità funzionale, che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso” (Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno 2019, n. 3696)” e, comunque, che “i locali controversi avessero “caratteristiche oggettivamente ed univocamente idonee alla nuova destinazione, anche se gli interventi di finitura non risultano ancora completati” (Cons. Stato, sez. VI, 30 aprile 2019, n. 2816)” (Consiglio di Stato, sez. II, 24 settembre 2020, n. 5591).
In applicazione di tali coordinate ermeneutiche, il motivo di appello risulta infondato.
La presenza di impianti elettrici ed idrici, degli allacciamenti alle pubbliche utenze e delle serrande avvolgibili valorizzati nell’atto di appello non risultano tali da rendere gli immobili con assoluta chiarezza destinati all’uso commerciale, corrispondente a quello oggetto della domanda di condono edilizio; sicché, non risultando provato il cambio di destinazione d’uso, lo stesso non avrebbe potuto essere soggetto a condono.
4. Con il quarto motivo di appello è censurata l’erroneità della sentenza di prime cure nella parte in cui ha omesso di pronunciare e, comunque, ha erroneamente ritenuto precluso – in quanto coperto dal giudicato formatosi sulla sentenza emessa nei rapporti tra il Comune e la SO.. SpA- il motivo di ricorso indirizzato contro il diniego di sanatoria del giugno 2004, riguardante la maggiore altezza dei locali per cui è controversia.
Anche in tale caso il Tar avrebbe dovuto esaminare il merito della doglianza, rilevando che:
– il Comune non poteva motivare il diniego avuto riguardo anche alle opere comunque conformi alla concessione n. 148/90, sussistendo una divergenza in relazione alla sola maggiore altezza;
– non si faceva questione di abuso riconducibile alla tipologia 1, in quanto le opere de quibus al momento dell’inizio dei lavori, risultavano conformi al titolo edilizio al tempo vigente (concessione edilizia n. 62/87), soltanto successivamente variata con titolo n. 148/1990; inoltre, non si faceva questione di box, come erroneamente ritenuto dall’Amministrazione comunale; né nelle istanze risultava riportata una infedele rappresentazione dei luoghi;
– l’atto di diniego si presentava quale atto di secondo grado, perché teso a riesaminare la precedente nota n. 10471/98, ragion per cui avrebbe dovuto essere corredato da una motivazione rafforzata propria degli atti di annullamento d’ufficio;
– la concessione edilizia in variante n. 148/1990 computava la volumetria dei locali oggetto delle istanze di condono;
– la destinazione dei locali a box non risultava da alcun titolo edilizio;
– gli addebiti mossi avrebbero potuto giustificare, al più, una richiesta di integrazione dell’oblazione, non potendosi addurre un supposto errore di calcolo in concreto inesistente;
– nella specie il diniego era qualificabile come atto di autotutela, al di fuori dei presupposti di legge, difettando della motivazione rafforzata propria degli atti di secondo grado.
Il motivo di appello è fondato.
4.1 Preliminarmente, in ordine alla sussistenza di un giudicato invocabile contro l’odierno appellante, si richiamano le considerazioni svolte nella disamina del precedente motivo di appello circa la possibilità di opporre all’avente causa il giudicato sceso nei rapporti tra il proprio dante causa e soggetti terzi soltanto qualora la successione nel diritto sia avvenuta in pendenza del giudizio o successivamente alla sua definizione.
Qualora, invece, la successione sia anteriore alla proposizione del ricorso, l’azione giudiziaria promossa dal dante causa non è opponibile all’avente causa, già autonomamente legittimato ad agire in giudizio a tutela della propria posizione giuridica.
Nella specie, le sentenze richiamate dal Tar, intervenute a regolazione del rapporto intercorrente fra la SO.. SpA e l’Amministrazione comunale, sono state emesse a definizione di giudizi introdotti successivamente alla compravendita degli immobili de quibus (in quanto relativi a provvedimenti di diniego del 2004, sopravvenuti al trasferimento della proprietà dei locali), non essendo, pertanto, opponibili all’odierna appellante.
4.2 Ciò premesso, meritano condivisione le censure con cui si contesta l’assunzione di una decisione di riesame in assenza di un’adeguata motivazione.
Al riguardo, si osserva che l’Amministrazione comunale, denegando con atti del giugno 2004 le istanze di condono riferite alla maggiore altezza dei locali rispetto a quella assentita con la concessione edilizia n. 148 del 1990, ha provveduto al riesame di una propria pregressa determinazione, con cui, invece, erano stati ravvisati i presupposti del condono, salva la necessità di verificare la sola corretta quantificazione dell’oblazione e degli oneri concessori dovuti.
In particolare, il Comune, come supra osservato, con il provvedimento n. 10471 del 1998 (doc. f motivi aggiunti di primo grado), avente ad oggetto, le pratiche nn. 659-679 Legge 724/94, aveva espressamente rilevato che “le domande prodotte, di concessione edilizia in sanatoria sono inerenti sia ad un aumento limitato di volume di ciascun locale rispetto alla concessione edilizia all’uopo rilasciata, che al cambio di destinazione d’uso dei locali da box a locali per attività commerciali. Si ritiene che, per quanto concerne gli aumenti di volume, dovranno solo essere verificate le congruità delle oblazioni versate e degli oneri concessori; mentre non sussistono i requisiti per l’accoglimento delle istanze di concessione in sanatoria per quanto concerne i cambi di destinazione d’uso, non essendo gli stessi di fatto verificatisi”.
Si è in presenza di un atto provvedimentale, idoneo ad incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica del destinatario; come reso palese: a) dal suo indirizzamento al richiedente il condono; b) dal suo contenuto, volto ad esprimere la volontà dispositiva dell’Amministrazione comunale, attraverso la posizione di una regula iuris a definizione del rapporto amministrativo; c) dalla sua impugnazione in sede giurisdizionale (non ammessa per atti meramente infraprocedimentali, come tali, privi di valenza decisoria e attitudine lesiva), nell’ambito di un giudizio in cui anche questo Consiglio è stato chiamato a statuire (cfr. sentenza n. 885 del 2014).
Alla stregua di quanto chiaramente disposto dal Comune, dunque, mentre il cambio di destinazione d’uso non poteva essere assentito, per l’aumento di volume doveva verificarsi soltanto la congruità delle oblazioni e degli oneri concessori, non sussistendo altre ragioni ostative al rilascio del condono.
Con i dinieghi del giugno 2004 il Comune, invece, pur richiamano la nota prot. n. 10471, ha rigettato le domande di condono riguardanti l’aumento di volume, rilevando che l’oggetto di condono era solo la volumetria scaturente dalla realizzazione di una maggiore altezza rispetto a quella assentita con concessione edilizia n. 148 del 28.9.1990, quando, invece, determinando le opere abusive l’aumento dell’altezza utile interna di tutto il piano seminterrato con trasformazione dei box in locali abitabili computabili a fini volumetrici, la domanda avrebbe dovuto avere ad oggetto l’intero piano realizzato in totale difformità rispetto alla concessione edilizia, con conseguente necessità di condonare l’intera superficie con tipologia n. 1.
I provvedimenti negativi del giugno 2004 costituiscono un riesame di una precedente determinazione assunta dal Comune, idonea a fondare un legittimo affidamento in capo al privato circa la necessità di verificare soltanto la correttezza del quantum debeatur a titolo di oblazione e oneri concessori, in assenza di ulteriori rilievi all’uopo formulati dall’Amministrazione.
Pur ammettendosi, anche prima della positivizzazione dell’annullamento d’ufficio (mediante l’introduzione dell’art. 21 nonies nell’impianto normativo della L. n. 241 del 1990 ad opera della L. 15 del 2005), il potere dell’Amministrazione di riesaminare le proprie determinazioni – in applicazione dei principii del buon andamento amministrativo e di inesauribilità del pubblico potere, suscettibili di giustificare un nuovo intervento provvedimentale (di secondo grado) teso a ad annullare pregressi atti provvedimentali-, la giurisprudenza di questo Consiglio aveva evidenziato come “l’autotutela decisoria resta comunque subordinata alle comuni e rigorose regole elaborate dalla giurisprudenza, concernenti, fra l’altro:
a) l’obbligo della motivazione;
b) la presenza di concrete ragioni di pubblico interesse, non riducibili alla mera esigenza di ripristino della legalità ;
c) la valutazione dell’affidamento delle parti private destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, tenendo conto del tempo trascorso dalla sua adozione;
d) il rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale;
e) l’adeguata istruttoria” (Consiglio di Stato, Sez. V, 03 febbraio 2000, n. 661).
Tali principii di diritto sono stati disattesi nel caso di specie, tenuto conto che il Comune non ha motivato adeguatamente le ragioni che lo inducevano a riesaminare la pregressa determinazione n. 10471 del 1998, a distanza di circa sei anni e ledendo l’affidamento ingenerato nel privato circa la ricorrenza dei presupposti per il condono delle opere, salve le verifiche limitate al quantum debeatur a titolo di oblazioni e oneri concessori; né ha indicato le specifiche ragioni di pubblico interesse all’uopo perseguite mediante l’intervento in autotutela, limitandosi a segnalare l’assenza del presupposto della sanatoria, individuato, peraltro, non in una difformità sostanziale ostativa al condono, ma soltanto in una asserita erronea formulazione della domanda di condono.
Tali rilievi, manifestando un illegittimo esercizio del potere di autotutela, in assenza di un’adeguata istruttoria e di una sufficiente motivazione delle ragioni sottese alla decisione di riesaminare una pregressa determinazione, sono sufficienti per determinare, in accoglimento del motivo di appello, l’annullamento dei provvedimenti di diniego di condono de quibus.
4.3 Peraltro, anche ove si ritenesse di escludere valenza provvedimentale alla nota n. 10471 cit., l’azione amministrativa in contestazione risulterebbe comunque illegittima per difetto di istruttoria e di motivazione, non emergendo dagli atti di diniego le ragioni e gli accertamenti fattuali utilmente invocabili per disattendere quanto ritenuto dallo stesso Comune qualche anno prima in relazione alle medesime richieste di condono.
In particolare, come osservato, con i provvedimenti di diniego de quibus l’Amministrazione ha contestato la presentazione di richieste di condono riferite alla sola maggiore altezza di 20 cm, quando, invece, l’abuso realizzato aveva reso i locali al piano seminterrato abitabili e di conseguenza computabili in volumetria; per l’effetto, facendosi questione di abuso collocato in tipologia 1, la sanatoria avrebbe dovuto essere richiesta per l’intera superficie del piano seminterrato, in quanto la modifica eseguita creava nuovo volume e trasformava l’intera superficie non residenziale in superficie utile.
Le ragioni poste alla base dei dinieghi de quibus si incentrano su dati fattuali non verificati e presuppongono un’erronea rappresentazione dell’abuso edilizio che, tuttavia, non pare riscontrabile nella specie.
In particolare, sotto il primo profilo, non emerge dagli atti di diniego la misurazione della maggiore volumetria e superficie prodotte per effetto dell’abuso imputato al privato; il che sarebbe stato necessario per verificare se il richiedente avesse domandato la sanatoria per una superficie o una volumetria inferiori rispetto a quelle effettivamente realizzate.
Del resto, una tale divergenza non era stata rilevata dal Comune nella nota n. 10471 cit. e, comunque, è contestata dall’appellante sulla base di elementi di progetto (tavola 6), che valorizzerebbero una volumetria realizzata già computata nel titolo edilizio n. 148 del 1990; profili fattuali non esaminati in sede provvedimentale, ad ulteriore conferma della carenza istruttoria inficiante le decisioni amministrative per cui è causa.
Sotto il secondo profilo, premesso che l’istante è tenuto alla descrizione delle opere per le quali si chiede la concessione o l’autorizzazione in sanatoria (art. 35, comma 3, lett. b), L. n. 47 del 1985), nella specie non sembra possa discorrersi di richieste di condono false, omissive, mendaci o parziali (in quanto riguardanti parti separate di un intervento abusivo suscettibile di considerazione unitaria, con conseguente scomposizione di un unico intervento edilizio, in ipotesi non condonabile, in plurimi interventi privi di autonomia funzionale, inammissibilmente oggetto di distinte domande di condono).
Dagli atti di causa emerge che il Comune, fin dal provvedimento del 9.7.1998 cit., aveva ben percepito l’ambito oggettivo della domanda di condono, tendente ad ottenere la sanatoria di opere realizzate in difformità rispetto alla concessione edilizia in variante del 1990 cit., per effetto di un’altezza superiore del piano interrato.
La circostanza per cui una tale difformità determinasse la trasformazione di locali box in locali abitabili, computabili a fini volumetrici, non influiva sulla descrizione del fatto illecito commesso (di cui si chiedeva la sanatoria), ma sul suo effetto giuridico.
In particolare, la difformità rispetto al titolo edilizio era rappresentata dall’altezza eccedente le misure autorizzate, attesa la conformità delle rimanenti opere edilizie all’uopo edificate. Lo stesso ripristino ordinato dal Comune con l’ordinanza del 9.9.2004, n. 66 aveva ad oggetto l’adeguamento alle prescrizioni della concessione edilizia n. 148 del 28.9.1990 e non certo la demolizione dell’intero piano, che, per la parte contenuta entro l’altezza assentita, doveva ritenersi legittimo.
In siffatte ipotesi, connotate da una corretta descrizione dell’abuso realizzato, l’Amministrazione non avrebbe potuto limitarsi a negare il condono per una presunta difformità tra l’oggetto della richiesta di sanatoria e l’abuso effettivamente realizzato, bensì, qualificato sub specie iuris l’abuso correttamente descritto dal richiedente sul profilo fattuale, avrebbe dovuto indicare le disposizioni di legge o di carattere urbanistico da cui derivasse il divieto di trasformazione dei locali in unità abitabili, in modo da consentire all’interessato di rendersi conto degli impedimenti ostativi alla regolarizzazione e al mantenimento dell’opera abusiva; il che, tuttavia, non è riscontrabile nei provvedimenti di diniego del giugno 2004 impugnati in prime cure, con conseguente emersione di un difetto motivazionale inficiante le determinazioni de quibus.
5. Con il quinto motivo di appello è censurato il capo di sentenza con cui il Tar ha rigettato le censure indirizzate contro l’ordinanza di ripristino, ritenendo non invalidante l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, nonché escludendo che nella specie ricorresse una difformità non essenziale rispetto al titolo edilizio e, comunque, un pregiudizio per le parti conformi derivante dall’esecuzione dell’ordine di ripristino.
5.1 A giudizio dell’appellante, invece:
– la documentazione in atti dimostrava come i volumi occupati dai locali fossero stati computati in sede di rilascio della concessione edilizia; il che avrebbe potuto costituire questione oggetto di confronto procedimentale ove l’Amministrazione avesse correttamente comunicato l’avvio del procedimento amministrativo;
– l’omessa comunicazione del diniego di sanatoria e dell’ordine di ripristino avrebbe determinato l’inefficacia dei relativi provvedimenti amministrativi e comunque influirebbe sulla relativa legittimità ;
– l’inefficacia del diniego di sanatoria avrebbe, in ogni caso, determinato la pendenza del procedimento di condono, con conseguente illegittimità dell’ordine di demolizione comunque assunto dal Comune.
5.2 L’invalidità dei dinieghi di condono del giugno 2004, costituenti l’atto presupposto dell’ordine di ripristino, determina l’invalidità derivata del provvedimento ingiuntivo n. 66 del 2004, che deve essere, pertanto, annullato.
Il che comporta l’assorbimento delle censure autonomamente indirizzate contro il provvedimento di ripristino, non essendo il loro accoglimento idoneo ad arrecare in capo all’appellante un’utilità maggiore rispetto a quanto già conseguibile per effetto dell’annullamento dell’atto lesivo.
6. Alla stregua delle considerazioni svolte, in parziale accoglimento dell’appello, la sentenza di prime cure deve essere riformata e, per l’effetto, i motivi di ricorso dinnanzi al Tar devono essere accolti ai sensi e nei limiti di quanto supra precisato, con annullamento sia dei dinieghi di condono del giugno 2004 riferiti all’abusivo incremento di altezza dei locali per cui è controversia, sia del dipendente ordine di ripristino.
La riforma della sentenza impugnata impone una nuova regolazione delle spese processuali del doppio grado di giudizio, da compensare interamente tra le parti in ragione della loro reciproca soccombenza (derivante dall’accoglimento parziale dei motivi di appello) e, comunque, della particolarità della controversia esaminata.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie ai sensi e nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglie nei predetti limiti il ricorso originario, respingendolo per il resto.
Compensa interamente tra le parti le spese processuali del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 gennaio 2021 con l’intervento dei magistrati:
Sergio De Felice – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere
Francesco De Luca – Consigliere, Estensore

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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