La radura non è un luogo diverso dal bosco

Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 2 dicembre 2019, n. 8242.

La massima estrapolata:

La radura non è un luogo diverso dal bosco, ben potendo essere quest’ultimo dalla presenza di porzioni di area coperte da alberature e porzioni di area sprovviste delle stesse. In questo senso milita l’art. 4, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 34/2018, che, reiterando la disposizione contenuta nell’abrogato art. 2, comma 3, lett. c), d.lgs. 227/2001, assimila a bosco: “e) le radure e tutte le altre superfici di estensione inferiore a 2.000 metri quadrati che interrompono la continuità del bosco, non riconosciute come prati o pascoli permanenti o come prati o pascoli arborati; “. Del resto, una differente nozione sarebbe non solo incompatibile con il dato esperenziale, ma non consentirebbe la tutela di tutti gli altri interessi pubblici, che motivano il divieto di antropizzazione di detti territori. Si pensi alla tutela della fauna selvatica, che evidentemente necessita per la sua vita non solo di aree interamente boscate, ma anche di radure. A conforto dell’analisi testuale del dato normativo di riferimento deve aggiungersi l’analisi della giurisprudenza, che nell’interpretare l’art. 142, d.lgs. n. 42/2004, ha chiarito che un bosco rappresenta un sistema vivente complesso insediato in modo tale da essere in grado di autorigenerarsi, così dissipando del tutto l’idea che per bosco debba intendersi l’insieme monocultura di alberi destinati, ad esempio, alla produzione di legname.

Sentenza 2 dicembre 2019, n. 8242

Data udienza 21 novembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3441 del 2019, proposto da
Regione Lazio, in persona del Presidente in carica, rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Al., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
contro
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (…);
Wi. Tr. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
Comune di Rieti, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del TAR Lazio, sez. II, n. 10295/2018, resa tra le parti, concernente la nota MIBAC prot. n. 3668 del 12 febbraio 2016 e la determina Regione Lazio n. G02217 dell’11 marzo 2016;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero per i Beni e le Attività Culturali e di Wi. Tr. S.p.A.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 novembre 2019 il Cons. Luigi Massimiliano Tarantino e uditi per le parti gli avvocati Fi. Fu. in dichiarata sostituzione dell’avvocato Gi. Al., Gi. Sa. e l’avvocato dello Stato An. Ve.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso proposto dinanzi al TAR per il Lazio la Società Wind Telecomunicazioni S.p.a. invocava l’annullamento: I) della nota MIBACT-SBEAP-LAZ U. prot. 3668 del 12.02.2016 con la quale veniva espresso parere negativo sulla richiesta di autorizzazione paesaggistica per la realizzazione di un impianto di pubblica utilità su area posta nel tenimento comunale di Rieti; II) della conseguente determinazione della Regione Lazio n. G02217 in data 11.3.2016, recante il diniego di autorizzazione all’esecuzione delle opere; III) degli atti connessi, ivi incluso, per quanto possa occorrere, l’art. 38 della N.T.A. del P.T.P.R..
2. Il primo giudice, all’esito di apposita istruttoria, accoglieva il ricorso, ritendo fondata la doglianza con la quale l’originaria ricorrente lamentava la sussistenza di un errore nella rappresentazione dei presupposti di fatto a fondamento del parere negativo e del conseguente diniego di autorizzazione, ossia che la porzione di area in questione fosse ricompresa nel perimetro delle aree boscate ai sensi della vigente normativa regionale. Il TAR, pertanto, accoglieva il ricorso valutando fondata la detta censura e assorbiva le residue.
3. Avverso la pronuncia in epigrafe popone appello la Regione Lazio, che si duole del fatto che il primo giudice non avrebbe fatto corretta applicazione dell’art. 10, legge regionale del Lazio n. 24/1998 e dell’art. 38 delle NTA del PTPR, di protezione delle aree boscate, atteso che all’interno delle aree boscate, non sarebbero autorizzabili gli interventi volti alla realizzazione di impianti di telefonia mobile. Il TAR, infatti, anche con l’ausilio di un verificatore, avrebbe “autonomamente” riclassificato l’area oggetto dell’intervento invadendo competenze proprie della PA. La sentenza di prime cure, basandosi acriticamente sulla disposta verificazione, entrerebbe in totale contraddizione con i rilievi effettuati dall’appellante amministrazione regionale che, per converso, ritengono boschiva l’area oggetto di intervento. Inoltre, il PTP n. 5 “Rieti”, tuttora vigente, prevedrebbe per l’area in oggetto, classificata come “Rimboschimenti” la disciplina di cui all’art. 22 “Territori coperti da foreste, da boschi, pascoli, ecc.” in cui si fa divieto di qualsiasi alterazione dello stato dei luoghi, della edificazione e di qualsiasi manufatto, pur se a carattere precario o mobile. Inoltre, nel contrasto tra il PTPR ed i PTP, prevarrebbe la disposizione più restrittiva ed, in ogni caso, per le situazioni incerte spetterebbe all’amministrazione comunale certificare l’inesistenza del bosco.
4. Costituitasi in giudizio, l’originaria ricorrente argomenta in ordine all’infondatezza dell’appello in esame, eccepisce l’inammissibilità del secondo motivo di gravame in quanto l’appellante non avrebbe operato alcuna contestazione in merito alle risultanze della CTU, e ripropone i quattro motivi non esaminati in prime cure, ad eccezione quindi della seconda doglianza valutata come fondata dal TAR, così rubricati nel ricorso di primo grado:
1) violazione di legge; violazione e mancata applicazione dell’art. 146, comma 8 del D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42; violazione e mancata applicazione dell’art. 10 – bis della L. n. 241/1990; mancata e/o inadeguata valutazione delle osservazioni; violazione e mancata applicazione dell’art. 87, comma 9 del D. Lgs. n. 259/2003; mancata applicazione degli artt. 7, 8 e 10 della L. 7.8.1990, n. 241;
3) violazione di legge; violazione dell’art. 86, comma 3 del D. Lgs. n. 259/2003; violazione del codice delle comunicazioni; violazione e falsa applicazione dell’art. 37, comma 8, del P.T.P.R.; difetto assoluto di motivazione e di istruttoria; travisamento assoluto dei presupposti di fatto e di diritto; eccesso di potere; violazione del giusto procedimento;
4) illegittimità derivata; violazione di legge; violazione dell’art. 86, comma 3 del D. Lgs. n. 259/2003; violazione del codice delle comunicazioni; violazione e falsa applicazione dell’art. 37, comma 8, del P.T.P.R.; difetto assoluto di motivazione e di istruttoria; travisamento assoluto dei presupposti di fatto e di diritto; eccesso di potere; violazione del giusto procedimento;
5) violazione e falsa applicazione del D. Lgs. n. 42/2004; violazione del codice dell’ambiente; eccesso di potere per difetto di motivazione ed illogicità grave e manifesta; difetto assoluto di motivazione; omessa istruttoria; eccesso di potere; sviamento di potere; illogicità manifesta; eccesso di potere; violazione del giusto procedimento.
5. Si costituisce in appello con memoria formale il MIBACT.
6. L’appello è fondato e merita di essere accolto. Prima di scendere nel dettaglio dell’esame delle singole doglianze è bene, però, chiarire la nozione di: “bosco”. L’art. 10, comma 3, l.r. Lazio, n. 24/1998, stabilisce che: “Si considerano boschi:
a) i terreni di superficie non inferiore a 5.000 metri quadrati coperti da vegetazione forestale arborea e/o arbustiva, a qualunque stadio di età, di origine naturale o artificiale, costituente a maturità un soprassuolo continuo con grado di copertura delle chiome non inferiore al 50 per cento;
b) i castagneti da frutto, di superficie non inferiore a 5 mila metri quadrati, di origine naturale o artificiale, costituente a maturità un soprassuolo continuo con grado di copertura delle chiome non inferiore al 50 per cento;
c) gli appezzamenti arborati isolati di qualunque superficie, situati ad una distanza, misurata fra i margini più vicini, non superiore a 20 metri dai boschi di cui alla lettera a) e con densità di copertura delle chiome a maturità non inferiore al 20 per cento della superficie boscata”. Dalla detta definizione, come anche dall’analisi del successivo comma 8 dello stesso articolo si evince che la radura non è un luogo diverso dal bosco, ben potendo essere quest’ultimo dalla presenza di porzioni di area coperte da alberature e porzioni di area sprovviste delle stesse. Tanto che il citato comma 8 stabilisce che la realizzazione di attrezzature e servizi strumentali allo svolgimento di attività didattiche e di promozioni dei valori naturalistico-ambientali deve essere localizzata nelle radure prive di alberature.
In questo senso milita anche la normativa nazionale. Infatti, l’art. 4, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 34/2018, che reitera la disposizione contenuta nell’abrogato art. 2, comma 3, lett. c), d.lgs. 227/2001, assimila a bosco: “e) le radure e tutte le altre superfici di estensione inferiore a 2.000 metri quadrati che interrompono la continuità del bosco, non riconosciute come prati o pascoli permanenti o come prati o pascoli arborati; “. Del resto, una differente nozione sarebbe non solo incompatibile con il dato esperenziale, ma non consentirebbe la tutela di tutti gli altri interessi pubblici, che motivano il divieto di antropizzazione di detti territori. Si pensi alla tutela della fauna selvatica, che evidentemente necessita per la sua vita non solo di aree interamente boscate, ma anche di radure.
A conforto dell’analisi testuale del dato normativo di riferimento deve aggiungersi l’analisi della giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da ultimo, Cons. St, Sez. IV, 4 marzo 2019, n. 1462) che nell’interpretare l’art. 142, d.lgs. n. 42/2004, ha chiarito che un bosco rappresenta un sistema vivente complesso insediato in modo tale da essere in grado di autorigenerarsi, così dissipando del tutto l’idea che per bosco debba intendersi l’insieme monocultura di alberi destinati, ad esempio, alla produzione di legname. Ma anche della giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. Corte cost., n. 201/2018), che rammenta come l’art. 149, d.lgs. 42/2004, abbia escluso dall’ambito di applicazione dell’autorizzazione paesaggistica proprio le attività, quali il taglio colturale rappresentano opere di manutenzione della aree boscate. Ciò a riprova del fatto che la nozione di bosco non è in alcun modo riducibile a quella di un insieme di alberi.
7. Tanto premesso sul piano definitorio appare del tutto coerente che, come provato dall’amministrazione regionale, l’area in questione sia gravata da un vincolo boschivo in omaggio a quanto disposto dal PTPR e dal PTP. Pertanto, non è condivisibile la conclusione raggiunta dal primo giudice, che in assenza del procedimento di riclassificazione di aree boschive, ha autonomamente riclassificato l’area in questione, senza, peraltro, considerare quanto sopra evidenziato sulla consistenza stessa della nozione di “bosco”.
8. Da tanto deriva, da un lato, l’accoglimento del primo motivo di appello; dall’altro, la necessità di esaminare i motivi riproposti dall’originario ricorrente.
8.1. Con il primo motivo l’appellata lamenta che le proprie osservazioni non sarebbero state tenute in debito conto dalla Soprintendenza, che nel parere impugnato si limita ad affermare “le osservazioni non forniscono argomenti sufficienti per modificare le valutazioni espresse”. La doglianza è priva di fondamento, dal momento che la Soprintendenza non era tenuta ad un’analitica confutazione delle argomentazioni spiegate dall’istante, specie in ragione del fatto che la motivazione adottata e le conclusioni con raggiunte con il diniego espresso giungono a confutare in modo sufficientemente chiaro la tesi dell’appellata.
8.2. Con il terzo motivo dell’originario ricorso si contesta che La Soprintendenza, senza svolgere alcun accertamento di compatibilità paesaggistica del progettato intervento, nel suo complesso, rispetto al territorio (come si evince dal contenuto del parere), si è espressa negativamente limitandosi a ritenere l’impianto progettato in contrasto con la disciplina di tutele dell’area boscata, nella quale, ai sensi dell’art. 38 delle NTA del PRG, nella quale non sarebbe consentita la realizzazione dell’impianto tecnologico progettato dalla ricorrente, ma solo per il recupero degli edifici esistenti e relative opere idriche e fognanti, per costruzione di interventi di sistemazione idrogeologica, costruzioni di abbeveratoi, ricoveri e rimesse per il bestiame brado, fienili, legnaie piccoli ricoveri per attrezzi, realizzazione di strutture e servizi strumentali allo svolgimento di attività didattiche e di promozione dei valori naturalistico ambientali, come definiti nel paesaggio naturale e relativa disciplina d’uso. In definitiva, secondo l’appellata laddove sussistesse il vincolo di area boschiva nell’area de qua, non poteva costituire, di per sé, l’unico motivo per poter procedere all’automatico diniego di nullaosta paesaggistico richiesto dalla società, trattandosi di un vincolo d’inedificabilità dettato per altri tipi d’interventi e non estensibile agli impianti di telefonia cellulare, da considerarsi opera di urbanizzazione primaria.
La ricostruzione offerta dall’appellata non risulta convincente. Innanzitutto, occorre rammentare che l’art. 10, l.r. Lazio, n. 24/1998, al comma 8, esclude una simile possibilità, prevedendo che: “Nei territori boscati o nei territori percorsi o danneggiati dal fuoco l’autorizzazione ai sensi dell’articolo 7 della L. n. 1497 del 1939 è rilasciata solo per il recupero degli edifici esistenti, le relative opere idriche e fognanti, per l’esecuzione degli interventi di sistemazione idrogeologica delle pendici, per la costruzione di abbeveratoi, ricoveri e rimesse per il bestiame brado, fienili, legnaie e piccoli ricoveri per attrezzi con progetto e relativo fabbisogno documentati ed approvati, secondo le leggi vigenti, per la realizzazione di attrezzature e servizi strumentali allo svolgimento di attività didattiche e di promozioni dei valori naturalistico-ambientali, da localizzare nelle radure prive di alberature e, quando questo non fosse possibile, in modo tale da salvaguardare la vegetazione arborea”. Né soccorre nel senso indicato dall’appellata quanto disposto dall’art. 86, d.lgs. 259/2003, che al comma 4, stabilisce che: “Restano ferme le disposizioni a tutela dei beni ambientali e culturali contenute nel decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, nonché le disposizioni a tutela delle servitù militari di cui al titolo VI, del libro II, del codice dell’ordinamento militare”. In questo senso la granitica esegesi sposata dal Consiglio di Stato, secondo la quale l’autorizzazione di cui agli artt. 86 e 87 del D.Lgs. n. 259 del 2003 sostituisce a tutti gli effetti il solo titolo edilizio, ferme restando le valutazioni rimesse all’autorità paesaggistica, come si ricava inequivocabilmente dall’art. 86, comma 4, del D.Lgs. n. 259 del 2003 (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez. VI, 5 luglio 2019, n. 4686).
8.3. Con il quarto motivo di ricorso l’appellata sostiene che se si dovesse ritenere che il vincolo d’inedificabilità previsto dall’art. 38, comma 8, possa applicarsi anche agli impianti di telefonia, il
provvedimento di diniego gravato risulterebbe del par viziato, ex se ed in via derivata, dalle disposizioni che inficiano la presupposta norma pianificatoria. Tale norma, laddove avesse inteso vietare in via assoluta l’istallazione di impianti in area boscata, risulterebbe illegittima perché manifestamente incompatibile con la speciale normativa nazionale e comunitaria.
L’imposizione di un’area nella quale è vietata in via assoluta l’istallazione degli impianti di telefonia cellulare, sarebbe illegittima, atteso che l’interesse alla tutela del paesaggio va contemperato con quello alla realizzazione di infrastrutture a rete inerenti opere di urbanizzazione primaria, quali gli impianti di telefonia mobile, che debbono ritenersi consentite in tutte le zone, ovviamente con tutte le cautele e le mitigazioni del caso e previo rilascio della dovuta autorizzazione paesaggistica.
L’impostazione dell’appellata non convince dal momento che il favor assicurato, soprattutto dagli artt. 86 ss. del d.lgs. 259/2003, alla diffusione delle infrastrutture a rete della comunicazione elettronica, se comporta una forte compressione dei poteri urbanistici conformativi ordinariamente spettanti ai Comuni, non arriva a derogare alle discipline poste a tutela degli interessi differenziati (in quanto espressione di principi fondamentali della Costituzione), come quello naturalistico-ambientale. Del resto, il diniego riguarda la collocazione di un ripetitore su di un’area circoscritta in ragione dell’esercizio di un potere discrezionale rimesso all’amministrazione competente, rispetto al cui esercizio non vengono evidenziati quei manifesti vizi di illegittimità, che solo consentirebbero di sindacarne la scelta.
8.4. L’ultima doglianza censura il comportamento della Soprintendenza che in luogo di adottare un provvedimento di diniego avrebbe dovuto indicare ulteriori soluzioni alternative, peraltro indicate dalla stessa Wi. in sede di osservazioni, atte a consentire di rendere, sempre che necessario, ancor più armonico l’impianto progettato con il contesto paesaggistico d’inserimento.
Anche quest’ultima risulta, però, infondata. ?’ evidente che, qualora la Soprintendenza ritenga percorribile solo l’opzione zero, non sia tenuta ad indicare variazioni progettuali. Inoltre, la normativa non pone a carico della Soprintendenza un onere di individuare aree alternative sui quali localizzare l’impianto de quo, in caso di esito negativo della valutazione sull’area indicata dall’istante.
9. L’appello, dunque, deve essere accolto, con ciò che ne consegue in termini di reiezione dell’originario ricorso anche alla luce dell’esame dei motivi assorbiti. Nella complessità in fatto e in diritto delle questioni trattate si ravvisano giusti motivi per compensare le spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, respinge il ricorso di primo grado.
Compensa le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 novembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere, Estensore
Francesco Mele – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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