Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza 19 marzo 2019, n. 7641.
La massima estrapolata:
Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche, nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.
Sentenza 19 marzo 2019, n. 7641
Data udienza 18 dicembre 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere
Dott. LORITO Matilde – Consigliere
Dott. LEONE Maria Margherita – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 26944-2017 proposto da:
(OMISSIS), domiciliato ope legis presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1350/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 28/06/2017 R.G.N. 4557/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica Udienza del 18/12/2018 del Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO CARMELO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS).
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 1350/2017, pubblicata il 28 giugno 2017, la Corte di appello di Napoli ha confermato la decisione di primo grado, con la quale il Tribunale della stessa sede, in accoglimento del ricorso proposto da (OMISSIS) S.r.l., aveva dichiarato la legittimita’ del licenziamento per giusta causa intimato ad (OMISSIS), con lettera del 3/3/2010, per avere svolto, in periodo di assenza per infortunio, attivita’ lavorativa consistita nella guida di automezzi e in operazioni di carico/scarico di cerchi in lega per autovetture, tale da compromettere o ritardare la guarigione.
2. La Corte ha rilevato a sostegno della propria decisione che i fatti contestati, giunti a conoscenza della societa’ attraverso un’indagine investigativa, avevano trovato conferma nelle dichiarazioni degli investigatori e che la consulenza d’ufficio disposta in primo grado aveva consentito di accertare la potenzialita’ dannosa del comportamento addebitato, il quale, pertanto, integrando un inadempimento degli obblighi contrattuali di diligenza e fedelta’ e la violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede, era da ritenersi di gravita’ tale da giustificare il recesso datoriale, anche in difetto di previsione del contratto collettivo o del codice disciplinare.
3. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il lavoratore con tre motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito la societa’ con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, deducendo ex articolo 360 c.p.c., n. 3 la violazione e falsa applicazione dell’articolo 115 c.p.c., articolo 2697 c.c. e L. n. 604 del 1966, articolo 5 nonche’ dell’articolo 24 Cost., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto accertati i fatti descritti nella relazione investigativa prodotta in giudizio dalla societa’, sebbene tali fatti fossero stati puramente confermati “in blocco” dai testimoni escussi e la relazione, in quanto documento di parte, non avesse ex se efficacia probatoria.
2. Con il secondo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione degli articoli 2119, 2106, 1175, 1375 e 1455 c.c., nonche’ dell’articolo 70 c.c.n.l. Industria Alimentare, il ricorrente censura la sentenza per avere ritenuto che anche una condotta potenzialmente idonea a compromettere o ritardare la guarigione, quale delineata dal consulente d’ufficio in esito alle proprie indagini, potesse integrare la giusta causa di recesso, di conseguenza trascurando, su tale premessa, di ricercare e di accertare i fatti che potessero dimostrare la sussistenza, in concreto (e non solo in astratto), di tale nesso di causalita’.
3. Con il terzo motivo, deducendo il vizio di cui all’articolo 360, n. 5, il ricorrente si duole del fatto che la Corte non abbia preso in esame le deduzioni e i rilievi critici formulati con il ricorso in appello e che, con il supporto della relazione medico-legale allegata, avrebbero consentito di smentire la validita’ delle conclusioni raggiunte dal consulente d’ufficio.
4. Il primo motivo e’ inammissibile.
5. Come piu’ volte precisato da questa Corte (cfr. da ultimo Cass. n. 13395/2018), “la violazione del precetto di cui all’articolo 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e’ configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove” – come con il motivo ora in esame “oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimita’, entro i ristretti limiti del “nuovo” articolo 360 c.p.c., n. 5)”.
6. E’ altresi’ consolidato il principio, secondo il quale “la violazione dell’articolo 115 c.p.c. puo’ essere dedotta come vizio di legittimita’ non in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma solo sotto due profili: qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisivita’, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale” (Cass. n. 4699/2018).
7. Il secondo motivo e’ infondato.
8. La Corte di appello ha invero correttamente richiamato l’orientamento, per il quale “lo svolgimento di altra attivita’ lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedelta’ nonche’ dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attivita’ esterna sia, di per se’, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attivita’, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio” (Cass. n. 26496/2018; conforme, fra le piu’ recenti, Cass. n. 10416/2017).
9. La Corte ha peraltro positivamente accertato come la condotta imputata al lavoratore fosse stata tale, anche in concreto, da ritardare la guarigione, avendo osservato che egli “guidando autovetture e sollevando cerchi in lega nei giorni (OMISSIS)” aveva “disatteso la prescrizione medica” in data (OMISSIS) (e cioe’ “ulteriori 17 giorni di cure e riposo”) e che “ai successivi controlli medici non veniva riscontrata la guarigione, tanto che la riammissione in servizio poteva avvenire soltanto” il successivo 28 gennaio 2010 (cfr. sentenza impugnata, p. 4).
10. Il terzo motivo e’ inammissibile, in forza della preclusione (c.d. “doppia conforme”) di cui all’articolo 348 ter c.p.c., u.c., a fronte di giudizio di appello introdotto con ricorso depositato il 14 dicembre 2015 e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore della novella (11 settembre 2012).
11. Ne’ il ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilita’ del motivo, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e successive conformi).
12. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
13. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.
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