L’istituto delle investigazioni difensive, introdotto per via di novellazione nel codice di rito a seguito della entrata in vigore della legge n. 397 del 2000, è disciplinato in termini pressocché esaustivi dagli artt. da 391-bis a 391-decies cod. proc. pen.; attraverso di esso, come unanimemente ritenuto in dottrina, il legislatore ha inteso conformare i principi della fase istruttoria del procedimento penale al presupposto, necessariamente consentaneo alla opinione che ravvisa la struttura sostanzialmente accusatoria dell’attuale sistema processuale penale (opinione che in questo modo ne è uscita al contempo confermata e rafforzata), della esistenza di uno specifico diritto alla prova riferibile non solo, come tradizionalmente avviene negli ordinamenti processuali di tipo inquisitorio, in capo ad un organismo pubblico (in relazione al quale il diritto, caratterizzandosi per essere strumentale al perseguimento dell’interesse pubblico all’accertamento dei reati ed alla repressione delle condotte criminose, riceve i connotati anche del dovere) per il quale non è immediatamente percepibile la qualificazione di parte in senso tecnico, ma anche in capo alle parti del processo, dovendosi per tali intendere non solamente la parte pubblica, rappresentata dal Pubblico ministero, ma anche le parti private, cioè i soggetti che nel processo penale intendono fare valere una loro specifica posizione soggettiva personale – che può consistere, in via esemplificativa, nel diritto alla conservazione e tutela della libertà personale o comunque alla intangibilità dell’individuo dalla afflizione della sanzione punitiva in assenza della condizione che la giustifichino, come avviene nel caso dell’imputato, ovvero nel diritto al ripristino della situazione soggettiva lesa dal fatto astrattamente costituente reato, come avviene nel caso della parte civile
Suprema Corte di Cassazione
sezione III penale
sentenza 20 giugno 2016, n. 25431
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 14 novembre 2014 la Corte di appello di Palermo ha parzialmente riformato la sentenza con la quale il Gup del Tribunale di Trapani, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato la penale responsabilità di F.A. in ordine al reato di violenza sessuale aggravata e continuata commesso in danno di D.A. e S.S. , il primo dei quali di età inferiore ai 10 anni all’epoca dei fatti; in particolare il giudice del gravame ha ritenuto, diversamente dal giudice di prime cure, di dovere riconoscere in favore del F. le circostanze attenuanti generiche, provvedendo conseguentemente al ridimensionamento della pena inflitta, determinata in dispositivo in anni 4 di reclusione (mentre nella motivazione della sentenza la stessa è indicata una volta in anni 4 e mesi 8 di reclusione ed altra volta in anni 4 di reclusione), in quanto il F. – la cui responsabilità è stata accertata sia tramite le dichiarazioni delle persone offese, in parte raccolte e documentate, per ciò che concerne in specie il D. , nel corso di investigazioni difensive, sia tramite le dichiarazioni di chi aveva raccolto le dichiarazioni delle medesime persone offese, oltre che delle stesse dichiarazioni confessorie rese dall’imputato fosse meritevole delle attenuanti generiche proprio in funzione del contegno processuale dal medesimo tenuto, improntato alla ammissione delle proprie colpe, sia in ragione del fatto che costui si è dichiarato disponibile, pur non avendo compiuto alcun atto concreto in tal senso, al risarcimento del danno patito dalle persone offese.
Avverso la sentenza della Corte di appello hanno proposto ricorso per cassazione sia il Procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo sia il F. .
Col primo ricorso è stata dedotta la nullità della sentenza impugnata nella parte in cui sono state riconosciute in favore del F. le attenuanti generiche, malgrado questi abbia reso la propria confessione solo quando la sua responsabilità penale era stata di fatto già acclarata mentre, per ciò che attiene alla offerta di risarcimento del danno, il fatto che questa non abbia avuto un minimo di concretezza renderebbe ingiustificato il riconoscimento delle attenuanti.
Col secondo motivo il Procuratore generale ha contestato la motivazione della sentenza nella parte in cui è stata determinata in 4 anni di reclusione la pena irrogata a carico del prevenuto.
L’accusa distrettuale, ribadita la illegittimità della concessione delle attenuanti generiche, ha osservato che la pena è stata determinata, come sopra accennato, una volta in 4 anni ed 8 mesi di reclusione, salvo poi essere precisata, allorché è riportato il calcolo, in base alla singolo voci di computo, che ha condotto alla pena concretamente determinata, in soli 4 anni di reclusione, indicazione quest’ultima che viene poi ribadita in dispositivo.
Ha, altresì, aggiunto il Pg che il regime delle attenuanti generiche applicate al F. risulta del tutto equivoco, infatti esse apparirebbero, in base alla motivazione della sentenza, prevalenti rispetto alle contestate aggravanti (relative all’età infradecenne di una delle persone offese ed alla condizione di recidivo specifico ed infraquinquennale gravante sul prevenuto), sebbene detta prevalenza non sia stata affatto argomentata, laddove nel dispositivo è, invece, indicata l’equivalenza fra attenuanti ed aggravanti.
Per le esposte ragioni è chiesto l’annullamento con rinvio della impugnata sentenza.
Nel proprio ricorso il F. , a sua volta, ha censurato la sentenza nella parte in cui in essa sono stati ritenuti utilizzabili ai fini della prova della sua colpevolezza i risultati delle investigazioni difensive condotte dal sostituto del difensore della parte offesa D. , sebbene egli al momento in cui le ha eseguite non avesse ancora la qualifica di avvocato, essendo all’epoca un praticante abilitato al solo patrocinio di fronte ai Giudici di pace ed al Tribunale monocratico.
Quale ulteriore motivo di impugnazione è dedotta la mancata assunzione di una prova decisiva, costituita da una perizia volta alla verifica delle capacità di intendere e di volere del F. , perizia la cui opportunità risultava dalla certificazione medica relativa alla esistenza di un disturbo psichiatrico a carico dell’imputato.
È stata, altresì, dedotta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione della sentenza in punto di affermazione della penale responsabilità dell’imputato, essendo fondata sulle dichi
arazioni rese da D.A. , la cui idoneità a testimoniare è stata messa in dubbio anche in sede di consulenza tecnica svolta sul minore stesso, e su quelle dell’altra persona offesa, S.S. , il cui contenuto non permetterebbe di identificare il F. come autore delle violenze sessuali.
Infine, il ricorrente ha lamentato il vizio della errata applicazione della legge penale nel fatto che non sia stato riconosciuto il vincolo della continuazione fra i reati di cui al presente giudizio e quelli per i quali il F. era stato già giudicato con sentenza del Tribunale di Trapani del 18 giugno 2008.
Con atto del 14 settembre 2015 la difesa dell’imputato ha rassegnato una breve memoria illustrativa con la quale ha insistendo per l’accoglimento del proprio ricorso ed il rigetto di quello della Procura generale, evidenziando le ragioni di inammissibilità o comunque di infondatezza di quest’ultimo.
Anche la difesa delle parti civili, costituite da S.L. e S.A. in proprio ed in qualità di genitori esercenti la potestà sul minore S.S. e da D.G. e N.C. , in proprio ed in qualità di genitori esercenti la potestà sul minore D.A. , ha depositato una memoria difensiva ed una comparsa conclusionale con le quali ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità o, comunque, di rigetto del ricorso dell’imputato.
Considerato in diritto
Il ricorso dell’imputato è fondato e, pertanto, lo stesso deve essere accolto, con assorbimento del ricorso del Procuratore generale, e la sentenza impugnata deve essere di conseguenza annullata con rinvio.
Procedendo secondo l’ordine di formulazione delle doglianze avanzate dal ricorrente, osserva questa Corte che è fondato il primo motivo di impugnazione; esso, come dianzi osservato, ha ad oggetto, sotto il profilo della violazione delle norme processuali, la ritenuta utilizzabilità delle investigazioni difensive prodotte in giudizio, secondo quanto risultante dalla impugnata sentenza, dalla difesa della costituita parte civile.
Come segnalato già in fase di impugnazione di fronte alla Corte di appello, siffatte investigazioni sono state condotte da tale dott. Sa.Fa. , in qualità di sostituto del difensore della predetta parte civile, il quale al momento in cui le ha svolte non era titolare della abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, in quanto, essendo ancora in fase di tirocinio professionale, era esclusivamente abilitato al patrocinio nelle sole cause di competenza del Giudice di pace e dinnanzi al Tribunale in composizione monocratica, giusta la previsione di cui all’art. 7 della legge n. 479 del 1999.
A fronte della eccezione afferente alla contestata utilizzabilità delle dette investigazioni, la Corte palermitana aveva osservato che il limite alla possibilità di svolgimento della attività professionale non doveva intendersi come relativo anche a siffatta attività, appunto lo svolgimento delle indagini difensive, prodromica ed endoprocessuale suscettibile, di essere portata in un secondo momento alla cognizione del Tribunale collegiale, relativamente alle quali, pertanto, anche il praticante abilitato ha, secondo la Corte territoriale, piena capacità.
L’assunto espresso dalla Corte d’appello non è condivisibile.
Osserva, infatti, in linea di principio, questa Corte che l’istituto delle investigazioni difensive, introdotto per via di novellazione nel codice di rito a seguito della entrata in vigore della legge n. 397 del 2000, è disciplinato in termini pressocché esaustivi dagli artt. da 391-bis a 391-decies cod. proc. pen.; attraverso di esso, come unanimemente ritenuto in dottrina, il legislatore ha inteso conformare i principi della fase istruttoria del procedimento penale al presupposto, necessariamente consentaneo alla opinione che ravvisa la struttura sostanzialmente accusatoria dell’attuale sistema processuale penale (opinione che in questo modo ne è uscita al contempo confermata e rafforzata), della esistenza di uno specifico diritto alla prova riferibile non solo, come tradizionalmente avviene negli ordinamenti processuali di tipo inquisitorio, in capo ad un organismo pubblico (in relazione al quale il diritto, caratterizzandosi per essere strumentale al perseguimento dell’interesse pubblico all’accertamento dei reati ed alla repressione delle condotte criminose, riceve i connotati anche del dovere) per il quale non è immediatamente percepibile la qualificazione di parte in senso tecnico, ma anche in capo alle parti del processo, dovendosi per tali intendere non solamente la parte pubblica, rappresentata dal Pubblico ministero, ma anche le parti private, cioè i soggetti che nel processo penale intendono fare valere una loro specifica posizione soggettiva personale – che può consistere, in via esemplificativa, nel diritto alla conservazione e tutela della libertà personale o comu
nque alla intangibilità dell’individuo dalla afflizione della sanzione punitiva in assenza della condizione che la giustifichino, come avviene nel caso dell’imputato, ovvero nel diritto al ripristino della situazione soggettiva lesa dal fatto astrattamente costituente reato, come avviene nel caso della parte civile.
Come è stato correttamente osservato un sistema processuale di tipo effettivamente accusatorio per potere ben funzionare deve necessariamente consentire l’investigazione difensiva, deve cioè permettere ai difensori della parti private di ricercare le fonti di prova, di acquisirne gli elementi e di poterli portare al giudice affinché gli stessi siano sottoposti al successivo vaglio dibattimentale.
Il quesito che attualmente è in discussione, e la cui risoluzione è funzionale alla decisione del presente ricorso, concerne, sotto il profilo della legittimazione soggettiva, la individuazione dei soggetti abilitati allo svolgimento delle predette investigazioni.
Al riguardo l’art. 391-bis cod. proc. pen. chiarisce che soggetti abilitati allo svolgimento delle investigazioni difensive sono, in linea generale, il difensore, il sostituto di questo, gli investigatori privati, se autorizzati ai sensi dell’art. 222 disp. att. cod. proc. pen., ed i consulenti tecnici, con la precisazione che, tuttavia, è riservato ai soli difensori, dacché titolari del relativo incarico professionale ai sensi dell’art. 327-bis cod. proc. pen., ed ai loro sostituti il potere di chiedere alle persone informate sui fatti dichiarazioni scritte ovvero di documentare, secondo le modalità fissate dal successivo art. 391-ter cod. proc. pen., le informazioni da costoro rese.
Posto che nel nostro caso deve ritenersi che oggetto della produzione in giudizio siano stati documenti riproduttivi, appunto, di dichiarazioni raccolte dalla difesa della parte civile, si tratta di verificare, posto che è indubbio che le dichiarazioni in questione non sono state raccolte e documentate direttamente dal difensore di quest’ultima ma da un suo sostituto, se tale qualifica è attribuibile nei soli confronti di un professionista abilitato al patrocinio di fronte all’organo giudiziario che procede ovvero anche ad altro soggetto.
Ritiene il Collegio che a tale proposito la nozione di sostituto non possa essere ricavata altro che dal dettato dell’art. 102 cod. proc. pen., il quale consente, appunto, sia al difensore di fiducia che a quello di ufficio di nominare in sostituto che esercita i diritti ed assume i doveri del difensore sostituito.
Appare, pertanto, evidente che – non potendo logicamente ritenersi che attraverso la preposizione del sostituto quest’ultimo possa per ciò solo ampliare la sfera dei suoi diritti, accedendo a posizioni soggettive che debbono ritenersi di tipo pubblicistico e che gli erano anteriormente estranee, onde poterle esercitare secondo le modalità e entro il limiti propri di quelle vantate dal sostituito preponente – deve concludersi nel senso che possa validamente compiere atti riconducibili alla nozione di investigazioni difensive ai sensi dell’art. 391-bis, comma 2, cod. proc. pen. solamente il sostituto che abbia la medesima abilitazione professionale che ha consentito al sostituito di validamente ricevere ed espletare un incarico professionale ai sensi dell’art. 327-bis cod. proc. pen. e che, quindi, consentirebbe a quest’ultimo l’espletamento delle investigazioni de quibus.
Fermo quanto sopra, da ciò discende sopra la illegittimità della attività di documentazione, ai sensi dell’art. 391-bis, comma 2, cod. proc. pen., di investigazioni difensive svolte nell’ambito di un procedimento di competenza del Tribunale in composizione collegiale, se operata da difensore non abilitato al patrocinio di fronte al predetto organo giudiziario, neppure nel caso in cui questi sia stato nominato sostituto di altro difensore a ciò, invece, abilitato ed abbia agito in detta veste.
Corollario di tale principio è la inutilizzabilità in giudizio delle dichiarazioni in tal modo raccolte e documentate, essendo regola indiscutibile che le dichiarazioni ricevute e le informazioni assunte in violazione di una delle disposizioni contenute nell’art. 391-bis cod. proc. pen. non possono essere utilizzate in giudizio, secondo la espressa previsione in tal senso contenute nel comma 6 della disposizione legislativa ultima citata (cfr. per talune applicazioni di detto principio: Corte di cassazione, Sezione I penale, 20 agosto 2014, n. 36036; idem Sezione II penale, 22 febbraio 2011, n. 6524; idem Sezione I, 25 novembre 2003, n. 45612).
Calando le riferite regulae juris nella fattispecie ora in esame deve ritenersi che – essendo il dott. Sa. , cioè il professionista che ha raccolto del dichiarazioni trasfuse nelle indagini difensive depositate agli atti del presente giudizio, al momento in cui egli ha compiuto le descritte operazioni ancora solamente un praticante avvocato abilitato al patrocinio solamente di fronte ad organi giudiziari diversi dal Tribunale in composizione collegiale, organo, invece, competente a giudicare dei reati contestati al F. e di cui ora si tratta – le risultanze delle indagini stesse, in quanto raccolte in violazione dei criteri in base ai quali è attribuita la capacità al compimento delle attività di indagine di cui ora si parla, sono, diversamente da quanto affermato dalla Corte di appello, radicalmente inutilizzabil
i.
Già per tale motivo la sentenza impugnata andrebbe annullata con rinvio. Ma, ritiene la Corte, anche il secondo motivo di impugnazione formulato dall’imputato ricorrente è fondato.
Con esso, si ricorda, è censurata la sentenza del giudice di seconde cure nella parte in cui egli ha ritenuto non necessario procedere ad un supplemento di istruttoria onde verificare, all’esito dell’espletamento di apposita perizia tecnica, la sussistenza in capo al prevenuto della capacità di intendere e di volere al fine di accertarne la imputabilità o, quanto meno, la piena imputabilità.
Ha, infatti, osservato il ricorrente che sebbene fosse in atti la documentazione medica attestante la sussistenza a carico del F. di un disturbo psicotico con rilevanti problemi psicologici, la Corte di appello ha ritenuto non necessario ai fini del decidere l’espletamento di una perizia, poiché quanto evidenziato non avrebbe lasciato dubbi sulla insussistenza dell’invocato vizio di mente.
A tal proposito osserva la Corte che sebbene sia consolidato orientamento del giudice della legittimità il rilievo che spetta al giudice del merito la valutazione delle risultanze processuali per apprezzare, con giudizio insindacabile in sede di legittimità, la meritevolezza di una richiesta di perizia psichiatrica, una siffatta valutazione è comunque oggetto di riesame, anche in sede di legittimità, sotto il profilo della non manifesta illogicità della sua motivazione (cosi di recente, per tutte: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 8 gennaio 2013, n. 456).
Nel caso di specie, rileva il Collegio come la decisione della Corte territoriale di non ammettere la perizia psichiatrica non appaia adeguatamente sorretta da una motivazione che dia conto dell’avvenuta corretta valutazione di tutti gli elementi di giudizio dei quali essa disponeva.
Osserva, infatti, questo giudice che in sede di merito si è dato atto delle esistenza a carico del F. di un disturbo psicotico in atto nonché di una situazione espressamente definita di “deficit di critica e di giudizio” tale che il prevenuto “in occasione di stress può divenire confuso, delirante, allucinato”.
Siffatto quadro nosologico, si ribadisce dato per acquisito dalla Corte di appello nei contorni descritti, è stato superficialmente liquidato dalla medesima Corte, con valutazione priva di un supporto argomentativo che ne chiarisca le effettive ragioni, come non idoneo a fare emergere la sussistenza di quei disturbi della personalità che, per consistenza, gravità ed intensità, siano atti ad incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere escludendola o facendola grandemente scemare, e ciò sebbene i dati clinici accettati dalla Corte non segnalassero genericamente, come, invece, parrebbe ritenere la Corte palermitana, l’esistenza di un disturbo della personalità, come tale di per sé non valutabile ai fini della mancanza di imputabilità, ove non accompagnato da manifestazioni di gravità e consistenza tale da determinare in concreto una situazione psichica che impedisca al soggetto di gestire le proprie azioni e di percepirne il disvalore (Corte di cassazione, Sezione I penale, 19 dicembre 2014, n. 52951; idem Sezione III penale 14 gennaio 2014, n. 1161), ma una vera e propria psicosi, come tale caratterizzata dalla presenza di un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità e che secondo la risalente ma non contraddetta giurisprudenza di questa Corte è da annoverare fra i fattori potenzialmente idonei a costituire caisa di mancanza di imputabilità (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 5 giugno 2003, n. 24614).
La descritta testuale inadeguatezza motivazionale, tale da evidenziarne la manifesta illogicità, comporta anch’essa la necessità di annullare la sentenza impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo che, oltre a rivalutare, alla luce dei rilievi già formulati da questa Corte, la utilizzabilità o meno delle investigazioni difensive addotte in giudizio dalla difesa della parte civile costituita, riconsidererà, altresì, la sussistenza o meno, tenuto conto delle risultanze processuali in atti, delle ragioni per disporre una perizia tecnica volta alla verifica della compatibilità del quadro nosologico del prevenuto con la ricorrenza delle condizioni necessarie ai fini della sua piena imputabilità.
L’accoglimento del ricorso del F. per le ragioni esposte comporta l’assorbimento sia delle residue doglianze rappresentate dall’imputato nell’atto introduttivo del presente giudizio sia dei motivi di impugnazione della sentenza presentati dalla Procura generale di Palermo.
L’accoglimento del ricorso del F. , comportando, altresì, la sostanziale soccombenza nel presente grado di giudizio delle parti civili, esclude, anche, l’accoglimento della domanda delle medesime parti volta alla condanna dell’imputato alla rifusione delle spese di difesa sostenute di fronte a questa Corte.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla imputabilità del ricorrente ed alla utilizzabilità delle indagini difensive, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo.
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