SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI
SENTENZA 4 settembre 2015, n.35988
Ritenuto in fatto
Con sentenza emessa in data 7 marzo 2013 la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza dei G.u.p. presso il Tribunale di Pisa del 6 giugno 2011, che all’esito di rito abbreviato dichiarava B.P. colpevole dei reato di peculato continuato commesso in concorso con altro imputato anteriormente alla data dei 15 gennaio 2004, ha riconosciuto le attenuanti di cui agli art. 323-bis e 62-bis c.p., rideterminando la pena in anno uno e mesi sei di reclusione, con la concessione del beneficio della sospensione condizionale, la revoca delle pene accessorie e la conferma delle statuizioni civili.
I Giudici di merito hanno confermato la penale responsabilità dell’imputato, medico chirurgo alle dipendenze dell’Azienda ospedaliera pisana, in ordine al reato di peculato in rubrica ascrittogli per essersi appropriato delle somme erogate dai pazienti da lui visitati nell’esercizio dell’attività professionale svolta intramoenia: somme che egli riscuoteva senza rilasciare ricevuta e che, almeno pro quota, erano di spettanza dell’amministrazione ospedaliera.
II difensore del B. ha proposto ricorso per cassazione avverso la su citata pronuncia, deducendo due motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
2.1. Violazioni di legge, per l’erronea applicazione dell’art. 314 c.p. e l’omessa applicazione dell’art. 323 c.p., e vizi motivazionali, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, in ordine alla ritenuta qualificazione giuridica del fatto.
Si deduce, in particolare, che l’imputato ha ricevuto le somme in questione a titolo illegittimo, sia perché, svolgendo un’attività non qualificabile come intra moenia, ha tenuto di fatto una condotta illecita, di cui tali somme costituiscono il provento, sia perché non aveva alcun titolo, operando all’interno dell’ospedale, per procedere alla riscossione diretta delle somme eventualmente dovute.
In tal senso, dunque, si lamenta che nessun titolo di legittimazione è sorto in capo al B., che ha appreso tali somme non per conto dell’amministrazione ospedaliera, ma in violazione di legge, nel proprio esclusivo interesse, comportandosi, rispetto ad esse, uti dominus sin dall’origine, con la conseguenza che la condotta appropriativa si è esaurita nel momento stesso della materiale apprensione della res, determinando in tal modo l’impossibilità di integrazione dello schema tipico disciplinato dall’art. 314 c.p. . Non è, infatti, la ragione dell’ufficio o del servizio, ma l’abuso del ruolo ad aver creato, per il ricorrente, l’occasione della condotta delittuosa, consistita appunto nell’appropriarsi di somme frutto di un’attività illecita, posta in essere in violazione delle regole di svolgimento dell’esercizio della professione medica in regime inframurario.
I fatti in contestazione, pertanto, dovevano ritenersi sussumibili nella diversa fattispecie di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 c.p. .
2.2. Violazione dell’art. 597, commi 1 e 3, c.p.p., in relazione all’aumento di sette mesi di reclusione applicato a titolo di continuazione interna ed omessa motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c. p. .
In relazione al primo profilo si deduce che nessuna statuizione in merito risulta contenuta nella decisione di primo grado, mentre l’aumento di pena applicato per la prima volta in secondo grado risulta frutto di una statuizione arbitraria, in palese violazione del principio di devoluzione e del divieto di reformatio in peius ai sensi dell’art. 597, commi 1 e 3, c.p.p. .
In relazione al secondo profilo, inoltre, si lamenta l’assoluta mancanza di motivazione riguardo all’invocata concessione dell’attenuante su indicata, benchè la questione del profilo patrimoniale delle diverse condotte in contestazione fosse stata espressamente dedotta in sede di gravame.
Considerato in diritto
Il primo motivo di ricorso è fondato e va accolto per le ragioni di seguito indicate, rimanendo logicamente assorbiti, allo stato, i residui profili di doglianza in merito alle modalità di determinazione del trattamento sanzionatorio.
Nella sentenza impugnata i Giudici di merito hanno ritenuto accertato:
a) che il B. ha richiesto e percepito gli onorari per visite effettuate intra moenia presso l’Ospedale di Pisa senza rilasciare la ricevuta fiscale a numerosi pazienti che a lui si erano rivolti, e senza indirizzarli agli sportelli delle casse del predetto ente ospedaliero;
b) che dopo tali visite i pazienti venivano indirizzati presso una struttura sanitaria convenzionata, ove erano da lui sottoposti ad interventi chirurgici, facendo però figurare al suo posto altro chirurgo, G.M., che esercitava attività libera professionale presso tale struttura;
c) che il B., in particolare, non utilizzava il sistema delle prenotazioni in atto presso la A.S.L., ma riceveva i pazienti in seguito a contatti diretti sul proprio telefono cellulare, ovvero tramite l’intervento di altri medici;
d) che egli, infine, ha omesso di versare all’amministrazione ospedaliera la quota parte del compenso ad essa spettante per la messa a disposizione degli strumenti e della organizzazione della struttura ospedaliera al fine dell’esercizio dell’attività professionale inframuraria cui era stato autorizzato.
Ricostruita in tal modo la vicenda oggetto dei tema d’accusa, la Corte territoriale si è richiamata al costante insegnamento giurisprudenziale al riguardo elaborato da questa Suprema Corte (v., ad es., Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, dep. 26/06/2012, Rv. 253098; Sez. 6, n. 39695 del 17/09/2009, dep. 12/10/2009, Rv. 245003; Sez. 6, n. 40182 del 27/06/2007, dep. 30/10/2007, Rv. 238125; Sez. 6, n. 2969 del 06/10/2004, dep. 31/01/2005, Rv. 231474), ritenendo integrato il delitto di peculato sul rilievo che il B., al fine di ottenere vantaggi economici, aveva eluso le procedure predisposte dall’A.S.L. per la fissazione degli appuntamenti e la percezione del denaro, nell’esercizio, ‘seppure con modalità illegittime ed anomale’, dell’attività professionale intramuraria.
Ciò posto, occorre tuttavia considerare che nello schema normativo della fattispecie di peculato la locuzione ‘ragione del suo ufficio o servizio’ esprime una caratterizzazione giuridica del potere che deve sussistere in capo al soggetto attivo: per commettere il delitto di peculato, dunque, il pubblico ufficiale, ovvero l’incaricato di pubblico servizio, deve appropriarsi del denaro o della cosa mobile di cui dispone per una ragione legata all’esercizio di poteri o doveri funzionali, in un contesto che consenta al soggetto di tenere nei confronti della cosa quei comportamenti uti dominus in cui consiste l’appropriazione, dovendosi ritenere incompatibile con la presenza della ragione funzionale un possesso proveniente da un affidamento devoluto solo intuitu personae (Sez. 6, n. 34884 del 07/03/2007, dep. 14/09/2007, Rv. 237693), ovvero scaturito da una situazione contra legem o evidentemente abusiva, senza alcuna relazione legittima con l’oggetto materiale della condotta.
In altre parole, la configurazione dei tipo di reato in questione richiede una disponibilità che trova causa nell’inerenza alla funzione o al servizio e, se è vero che, per acquisire rilevanza ai fini dell’incriminazione, il possesso di denaro o di altra cosa mobile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio non deve necessariamente rientrare nel novero delle specifiche competenze o attribuzioni connesse con la sua posizione gerarchica o funzionale, essendo sufficiente che esso sia frutto anche di una occasionale coincidenza con la funzione esercitata o con il servizio prestato (Sez. 6, n. 17920 del 11/03/2003, dep. 15/04/2003, Rv. 227140), ovvero si basi su prassi e consuetudini invalse in un determinato ufficio pubblico, che consentono al soggetto di avere di fatto la disponibilità del denaro o della cosa mobile della P.A. (Sez. 6, n. 34489 del 30/01/2013, dep. 08/08/2013, Rv. 256120) – eventualmente anche in casi di inottemperanza alle disposizioni normative ed organizzative che regolano l’attività propria dell’ufficio (Sez. 6, n. 18606 del 06/12/2012, dep. 24/04/2013, Rv. 256471; Sez. 6, n. 18015 del 24/02/2015, dep. 29/04/2015, Rv. 263278) – è pur vero che il possesso non deve derivare da un affidamento contrario ad un espresso divieto di legge, o da un atto illecito (Sez. 2, n. 3985 del 16/01/1981, dep. 30/04/1981, Rv. 148605; Sez. 1, n. 8926 del 23/04/1985, dep. 11/10/1985, Rv. 170673), poiché in tal caso le condotte appropriative non trovano la loro ‘causa’ nella ragione funzionale, ma ne rappresentano una palese violazione, costituendo l’occasione stessa della materiale apprensione della res.
Né, d’altro canto, risultano estranei alle implicazioni di tale linea interpretativa i precedenti giurisprudenziali menzionati nella decisione impugnata (Sez. 6, n. 18606 del 06/12/2012, dep. 24/04/2013, cit.; Sez. 6, n. 39695 del 17/09/2009, dep. 12/10/2009, Rv. 245003), poiché il primo di essi – che fa riferimento ad una fattispecie nella quale un dipendente della Provincia si era appropriato di documenti antichi, custoditi in un archivio, successivamente alla cessazione dell’incarico di provvedere alla loro sistemazione – presuppone un titolo di legittimazione comunque presente in origine, mentre il secondo – anch’esso relativo ad un omesso versamento di somme destinate all’azienda sanitaria, da parte di un medico che svolgeva attività intramuraria in regime di convenzione – sembra fare riferimento ad una condotta appropriativa realizzatasi in un contesto in cui le modalità di esercizio dell’attività professionale intra moenia apparivano sostanzialmente rispettate, con la conseguente legittima percezione dei compensi da parte del medico, cui non avrebbe fatto poi seguito il rilascio dei relativo documento fiscale.
Nella stessa prospettiva, inoltre, v’è da osservare che nella più recente elaborazione giurisprudenziale un titolo di legittimazione, sussistente quanto meno sul piano funzionale, è presupposto da Sez. Fer., n. 34086 del 08/09/2011, dep. 14/09/2011, Rv. 252208 (che fa riferimento ad un geometra alle dipendenze di un Comune, che riscuoteva dagli utenti somme versate per la definizione di pratiche edilizie, secondo importi che erano comunque dovuti all’ente comunale, comportandosi di fatto quale soggetto legittimato a ricevere il pagamento, mentre in altre situazioni si appropriava con l’inganno di somme in realtà non dovute all’amministrazione, rispondendo in tal modo del delitto di truffa), nonché da Sez. 6, n. 9660 del 12/02/2015, dep. 05/03/2015, Rv. 262458 (relativa ad una fattispecie in cui la condotta di appropriazione del danaro contenuto in un portafogli smarrito dal titolare è stata posta in essere da un carabiniere che aveva ricevuto in consegna il portafogli dall’autore del rinvenimento) e da Sez. 6, n. 18015 del 24/02/2015, dep. 29/04/2015, cit. (relativa ad una fattispecie in cui un’impiegata presso la Polizia municipale, falsificando le ricevute di pagamento, si era appropriata di somme di denaro consegnatele da cittadini cui erano state comminate sanzioni amministrative, senza mai versarle all’ufficio delle Poste), oltre che da Sez. 6, n. 14825 del 26/02/2014, dep. 31/03/2014, Rv. 259500 (relativa all’appropriazione di somme di denaro rinvenute in possesso di due cittadini extracomunitari, da parte di alcuni carabinieri che avevano proceduto alla loro perquisizione nel contesto di un servizio finalizzato alla repressione del traffico di sostanze stupefacenti).
Nel caso in esame, di contro, la sentenza impugnata, pur avendo fatto espressamente riferimento ad una situazione di ‘illecita’ percezione di somme in contanti e ad una attività svolta contra legem, ‘al di fuori delle regole prescritte per l’attività professionale intra moenia’, non ha chiarito adeguatamente le implicazioni del tema centrale delle obiezioni difensive, spiegando con il necessario rigore logico-argomentativo se vi fosse, e in caso positivo quale ambito di operatività in concreto avesse, nell’arco temporale oggetto dell’imputazione ed alla luce della normativa che regola lo svolgimento della libera professione intramuraria, un titolo di legittimazione in base al quale il ricorrente, operando all’interno di una struttura ospedaliera pubblica, procedeva alla riscossione di somme di denaro direttamente corrisposte da pazienti che a lui in vario modo si rivolgevano per l’effettuazione di prestazioni professionali.
S’impone, conseguentemente, l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza, per un nuovo giudizio sui punti critici evidenziati, che dovrà colmare le su indicate lacune motivazionali, uniformandosi al quadro dei principii di diritto in questa Sede stabiliti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’Appello di Firenze.
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