Corte di Cassazione bis

suprema CORTE DI CASSAZIONE

sezione III

SENTENZA 16 maggio 2014, n. 10832

Ritenuto in fatto

Nel (…) C.R. veniva condotta alle 2,40 di notte da alcuni agenti di polizia al Pronto Soccorso dell’Ospedale Cervello di (…) dopo essere stata sottoposta presso un’altra struttura ospedaliera ad accertamenti psichici, e lì, mentre si trovava in una stanza dell’ospedale in attesa della visita psichiatrica richiesta dal medico di guardia del Pronto Soccorso dopo averla visitata, si lanciava nel vuoto da una finestra dell’ospedale (che raggiungeva arrampicandosi su una sedia e da qui su un carrello o un tavolino) procurandosi fratture multiple e danni alla testa permanenti, tra cui uno sfregio in viso. Nel (…) conveniva in giudizio l’Ospedale Cervello di (…) chiedendone la condanna al risarcimento dei danni riportati per omessa sorveglianza da parte del personale medico e paramedico. Interveniva in giudizio anche la Winterthur, compagnia assicuratrice dell’ospedale. Nel 2004 il Tribunale di Palermo rigettava la domanda della C. .
La C. proponeva appello, che veniva rigettato dalla Corte d’Appello di Palermo con sentenza depositata il 14.10.2009. La corte d’appello, condividendo il giudizio espresso nella sentenza di primo grado, riprodotto in parte nel corpo della motivazione, riteneva che le condizioni di apparente tranquillità della paziente non necessitassero l’adozione di particolari precauzioni, non risultando che il personale del pronto soccorso fosse stato messo al corrente di propositi suicidi o autolesionistici della giovane donna, e che inoltre la C. fosse accompagnata dai genitori o quanto meno da una parente, presente nella sua stanza, e poi allontanata con un pretesto dalla stessa ricorrente la quale, non appena si trovava sola nella stanza, ne approfittava per salire repentinamente sui mobili e buttarsi dalla parte superiore di una finestra, in quanto la parte inferiore di essa, posta a livello della figura, era serrata. Escludeva che vi fosse una responsabilità della struttura ospedaliera per omessa sorveglianza sulla paziente, non essendo la giovane stata lasciata sola, non richiedendo la situazione la presenza costante di personale sanitario.
C.R. propone ricorso per cassazione articolato in otto motivi.
Resiste l’azienda ospedaliera Ospedali Riuniti Villa Sofia – Cervello di (…) con controricorso, e resiste con controricorso contenente anche ricorso incidentale UGF Assicurazioni s.p.a., già Aurora Ass.ni s.p.a., già Winterthur Ass.ni s.p.a..
La parte ricorrente ha depositato memorie difensive.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, la C. denuncia la violazione di legge per error in procedendo in relazione all’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia su tutta la domanda, e per la corte territoriale unificato i motivi di appello come se fossero parti di un’unica doglianza.

Il motivo va rigettato, avendo legittimamente la corte esaminato congiuntamente alcuni dei motivi di appello, in quanto obiettivamente legati, e avendo preso comunque in considerazione tutte le doglianze sollevate, rispondendo a ciascuna di esse (a prescindere, per il momento, dalla valutazione se la risposta data in motivazione ai motivi di appello possa ritenersi soddisfacente o meno). La trattazione unitaria dei motivi di appello infatti, ove connessi uno all’altro, non comporta automaticamente omessa pronuncia in relazione all’uno o all’altro motivo, che può sussistere solo qualora nella motivazione unitaria un aspetto particolare e denunciato con un apposito motivo di appello, non sia stato assolutamente preso in considerazione, cosa che nel caso di specie non è avvenuta.

In particolare, i primi tre motivi di appello, tutti relativi alla configurabilità del grave inadempimento in capo alla struttura ospedaliera rispetto ai suoi obblighi contrattuali, non ritenuto in prime cure, effettivamente sono collegati e ad essi la corte complessivamente risponde affermando che non ritiene configurabile alcun venir meno agli obblighi di sorveglianza ed assistenza da parte del personale dell’ospedale, in relazione alle risultanze del caso concreto; il rigetto del quarto e quinto motivo di appello (sulla mancata ammissione della consulenza tecnica e sulle spese) è consequenziale al rigetto dell’appello sull’an della responsabilità.

Con il secondo motivo, la C. lamenta una violazione di legge, ed in particolare dell’art. 115 c.p.c., per non avere la corte territoriale posto a fondamento della propria decisione il compendio probatorio. Infatti, sostiene che la corte d’appello ha ripetuto l’errore di valutazione già effettuato in primo grado, riproducendo sostanzialmente la motivazione di primo grado sul punto senza neppure autonomamente rinnovarne il ragionamento alla luce delle censure dell’appellante, dicendo di essersi fondata sulle risultanze probatorie, ma in realtà ponendosi in contrasto con quanto da esse emergeva.

La ricorrente richiama alcuni punti del referto di pronto soccorso, da cui risulta che la C. venne accompagnata dalla polizia, alle 2,40 di notte, che venne visitata dal medico di guardia dopo essere stata già vista da altra struttura, che portava con sé una documentazione con consulenza psichiatrica che evidenziava un disturbo psicotico e che il medico di guardia vista la situazione chiamò lo psichiatra per fargli esaminare la paziente: circostanze tutte che, seppur in presenza di un paziente apparentemente tranquillo dovevano deporre per la necessità di predisporre una attenta sorveglianza dello stesso. Inoltre, evidenzia la ricorrente che dal referto medico redatto il giorno del ricovero non risulta che essa fosse accompagnata da altri, mentre nella aggiunta al referto datata (…), quindi dopo che la C. si lanciò nel vuoto, è inserita l’affermazione secondo la quale essa si sarebbe lanciata eludendo la sorveglianza strettissima di quattro familiari, dei quali non c’è traccia il (…). Rileva che la stessa corte d’appello non da rilievo a questa pagina del referto per valorizzare invece la presenza con la paziente di una zia che invece, a dire della ricorrente, non sarebbe rilevabile dalle risultanze istruttorie, e in particolare dalla deposizione dell’unica teste estranea ai fatti, sig. S. .

Riporta il testo di questa testimonianza dalla quale si può ricostruire agevolmente che:

i genitori della C. arrivarono in ospedale dopo di lei, in piena notte (e quindi non la accompagnarono, ma sopraggiunsero a breve distanza perché il padre si era sentito male (forse a causa dell’attacco che aveva colpito la figlia poco prima, perché giunto in ospedale continuava a chiamare la figlia); l’unica dottoressa di guardia, che si occupava anche del marito della teste e del padre della C. , si allontanò dalla stanza della C. con due o tre poliziotti che ridevano, entrò nella stanza dove erano il padre della C. e il marito della teste, e poi uscì anche da questa stanza ed andò con un infermiere in una stanzetta dove c’era un televisore acceso; la madre della C. fu chiamata presso la figlia da una signora, ignota alla teste ed entrata nella stanza ove prima si trovava la figlia non la trovò e pensò che fosse scappata, per scoprire solo successivamente che la ragazza invece si era buttata dalla finestra.

Anche questo motivo di ricorso deve essere rigettato, in quanto la censura che investe la considerazione del compendio probatorio al fine della formazione del libero convincimento del giudice può essere fatta valere come vizio di motivazione e non come violazione di legge: ‘Mentre la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., configurabile soltanto nell’ipotesi in il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma, integra motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la censura che investe la valutazione (attività regolata, invece, dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.) può essere fatta valere ai sensi del numero 5 del medesimo art. 360’. (Cass. n. 15107 del 2013).

Il terzo motivo di ricorso è collegato al precedente, perché la ricorrente deduce un vizio di motivazione nell’esame del compendio probatorio avendo la corte, sulla base della deposizione della teste S. sopra richiamata, il cui testo viene ampiamente riprodotto in ricorso, ritenuto che la C. venne al pronto soccorso accompagnata dai genitori e quanto meno da un’altra parente, forse una zia, per dedurle che la stessa non fu lasciata sola dai medici di turno, proprio perché era sotto la sorveglianza dei familiari.

La motivazione della sentenza di appello non è pienamente convincente sotto il profilo della consequenzialità logica dei vari passaggi motivazionali in cui si valutano le risultanze processuali, e tuttavia tale non totale persuasività non consente l’accoglimento di questo motivo di ricorso. Dalla testimonianza della S. emerge chiaramente che i genitori della C. sono arrivati anch’essi al pronto soccorso ma autonomamente, dopo di lei e che il padre della C. si recò al pronto soccorso in quanto colpito da un malore, che il padre venne sottoposto a cure mediche e che la madre prestava assistenza al padre, quindi che i genitori non si erano recati lì per assistere la figlia né l’assistevano perché non erano in condizioni di farlo (circostanza anch’essa ben nota al medico di guardia); il fatto che la persona che chiamò la madre della C. dicendo che la figlia la voleva fosse la zia non viene riferito dalla teste.

Tuttavia, non si può non considerare come parte delle risultanze istruttorie e quindi rilevante ai fini della formazione del convincimento del giudice, il fatto che, come il controricorrente esattamente deduce (riportando alcuni passi dell’atto di citazione) fa la stessa C. , nell’ormai lontano atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, a riferire di essersi recata al pronto soccorso accompagnata da alcuni familiari, di essere stata separata da loro e lasciata sola e che chiamò la zia, dicendole che voleva andarsene perché non le veniva praticata alcuna cura per calmarla mentre aspettavano lo psichiatra, né a mezzo di iniezioni né somministrandole compresse. Queste circostanze che fanno parte dei fatti di causa perché dedotte inizialmente dalla stessa attrice, anche se in seguito negate nelle successive difese, unite a quelle che emergono dalla dichiarazione della teste S. , danno una maggiore coerenza alla motivazione in ordine alla dinamica dei fatti.

Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione di legge in relazione all’art. 132, secondo comma n. 4 c.p.c. e all’art. 118 disp.att. c.p.c. in relazione alla mancata indicazione delle ragioni di diritto a sostegno della decisione, per aver la corte d’appello esclusivamente richiamato per relationem la sentenza del giudice di primo grado. Anche questo motivo di ricorso va rigettato.

I limiti di utilizzabilità della motivazione per relationem da parte del giudice di appello sono stati ridefiniti con precisione da Cass. n. 15483 del 2008: ‘È legittima la motivazione per relationem della sentenzia pronunciata in sede di gravame, purché il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentente risulti appagante e corretto. Deve viceversa essere cassata la sentenza d’appello allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame’; la sentenza citata è richiamata dalla successiva sentenza di questa Corte n. 10490 del 2010, non massimata, citata dalla ricorrente, che, lungi dal porsi in contrasto con i principi sopra riportati, li conferma e li riafferma (richiamando a sua volta Cass. n. 15483 del 2008, oltre a Cass. n. 2196 del 2003), laddove ribadisce che risponde ad orientamento consolidato in giurisprudenza di legittimità che la motivazione per relationem della sentenza pronunziata in sede di gravame è legittima purché il giudice di appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima sia pur sinteticamente le ragioni della conferma della pronunzia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto; sicché deve essere cassata la sentenza d’appello quando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che alla affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di impugnazione.

In definitiva, è ammissibile e non inficia la validità della sentenza di appello il fatto che questa, condividendo non solo la soluzione ma anche la motivazione adottata dal giudice di primo grado, per economicità e velocità redazionale richiami in larga parte la motivazione in quella sede redatta, purché questo tipo di motivazione non sia la spia di una sottrazione da parte del giudice dell’impugnazione ai compiti che gli sono propri, ovvero alla necessità di compiere un riesame delle risultanze di causa alla luce della considerazione critica dei motivi di appello, per scegliere invece di appiattirsi, acriticamente e inammissibilmente, nella integrale ricezione delle conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado senza sottoporle al proprio vaglio critico alla luce dei rilievi dell’appellante.

La sentenza in esame si sottrae a queste censure, in quanto non si limita al richiamo alla motivazione di prime cure, ma contiene alcuni passaggi in cui la corte ribadisce e spiega il proprio convincimento alla luce delle risultanze istruttorie, quindi non incorre nei limiti di ammissibilità della motivazione per relationem, perché il percorso motivazionale della corte d’appello non si appiattisce su quello di primo grado, ma è autonomo e da conto della necessità di rispondere ai motivi di appello.

Con il quinto motivo di ricorso la C. denuncia la violazione di legge in relazione all’art. 112 c.p.c. per aver omesso ogni pronuncia sul secondo e terzo motivo di appello, con i quali ella aveva censurato la sentenza di primo grado per aver errato nell’escludere il grave inadempimento da parte dell’azienda ospedaliera convenuta, rispetto alle prestazioni che si era assunta l’obbligo di erogare con l’accettazione della paziente, e per aver errato nella valutazione giuridica della responsabilità della struttura ospedaliera.

La ricorrente osserva che pur avendo la corte territoriale correttamente inquadrato la fattispecie, anche ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, all’interno della responsabilità contrattuale, ne fa poi erroneamente discendere che l’attrice avrebbe dovuto dimostrare di essere stata incapace nel momento in cui veniva ricoverata, come se le obbligazioni di sicurezza e di protezione fossero dipendenti dallo stato di incapacità anche naturale del paziente.

Nello stesso motivo di ricorso la ricorrente si duole che la corte d’appello non si sia proprio pronunciata sul suo terzo motivo di appello ed in particolare nel considerare la responsabilità della struttura ospedaliera, che è garante della sicurezza dei ricoverati, e che ha l’obbligo di attivarsi per impedire che i pazienti ricoverati pongano in essere condotte lesive della loro incolumità.

Anche questo motivo non può essere accolto, in quanto non è configurabile sul punto una omessa pronuncia (come già si è detto nel motivare il rigetto del primo motivo di ricorso); la ricorrente avrebbe dovuto piuttosto più appropriatamente denunciare la violazione di legge in relazione agli articoli sull’inadempimento contrattuale, non all’art. 112 c.p.c..

Con il sesto motivo la C. si duole della omessa o insufficiente motivazione sul secondo e terzo motivo di appello, tornando a sindacare, sotto il profilo del vizio di motivazione, i punti della sentenza di appello in cui la corte avrebbe errato nell’escludere il grave inadempimento da parte dell’azienda ospedaliera convenuta, rispetto alle prestazioni che si era assunta l’obbligo di erogare con l’accettazione della paziente, e errato nella valutazione giuridica della responsabilità della struttura ospedaliera.

In particolare, la ricorrente si duole della omessa (o insufficiente) motivazione in ordine al grave inadempimento dell’Azienda Ospedaliera Cervello nell’obbligo di tutela e vigilanza sull’odierna ricorrente non avendo il medico di guardia e quindi l’azienda, adottato tutte quelle normali misure di sorveglianza in attesa che intervenisse una più approfondita visita psichiatrica.

Il motivo va accolto.

Va premesso che, come ribadito anche di recente a questa Corte a sezioni unite, la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. S.U. n. 24148 del 2013).

Mantenendo il controllo sulla motivazione nei limiti ben delineati sopra richiamati, la logica complessiva di essa non regge al controllo, in quanto in essa non si spiega in modo logico perché i principi vigenti in tema di responsabilità contrattuale della struttura ospedaliera per i danni autoprocuratisi dal paziente all’interno della struttura, applicati agli elementi di fatto riportati dalla sentenza di primo grado e riprodotti in quella d’appello, dovrebbero portare ad una recisa esclusione di alcuna responsabilità in capo alla struttura ospedaliera.

Nel caso di specie si trattava infatti di responsabilità della struttura sanitaria di Pronto Soccorso per i danni autoarrecatisi da paziente con problemi psichici preso in carico dalla struttura.

I giudici di merito, premessa la situazione in fatto come sopra riportata, hanno ritenuto sufficiente, per escludere la necessità che la paziente fosse sottoposta alla costante vigilanza del personale sanitario e quindi che la struttura sanitaria potesse essere ritenuta responsabile per i danni autoinfertisi dalla paziente in un momento in cui non era presente nella stanza ove si trovava la paziente nessun dipendente dell’ospedale, le due circostanze che essa non fosse in stato di agitazione (né i sanitari fossero stati avvisati, al momento del ricovero in pronto soccorso, di pregressi propositi di suicidio o di gesti autolesionistici), e che la stessa fosse sotto la sorveglianza di una parente.

In definitiva, la corte territoriale ha ritenuto che nessuna culpa in vigilando fosse addebitabile alla struttura sanitaria per non aver adeguatamente vigilato sulla sua paziente.

Il percorso motivazionale non appare però logico né coerente, tenuto conto dei principi in tema di responsabilità delle strutture sanitarie nei confronti di pazienti ed in particolare di quei pazienti che le si rivolgano perché in alterate condizioni psichiche, della particolare struttura sanitaria alla quale la ricorrente si era rivolta, e delle peculiari risultanze istruttorie.

A proposito della responsabilità per omessa vigilanza di una struttura sanitaria nei confronti di persona ospite di un reparto psichiatrico non interdetta né sottoposta ad intervento sanitario obbligatorio, questa corte ha in più di una occasione ricondotto il rapporto nell’ambito contrattuale, ed in particolare di quel contratto atipico di assistenza sanitaria che si sostanzia di una serie complessa di prestazioni che la struttura eroga in favore del paziente, sia di natura medica che latu sensu di ospitalità alberghiera, che obbligazioni di assistenza e protezione, obbligazioni tutte destinate a personalizzarsi in relazione alla patologia del soggetto.

Così ricostruito il rapporto, ne discende che ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, il paziente debba abitualmente provare solo l’avvenuto inserimento nella struttura e che il danno si sia verificato durante il tempo in cui egli si trovi inserito nella struttura (sottoposto alle cure o alla vigilanza del personale della struttura), mentre spetta alla controparte dimostrare di avere adempiuto la propria prestazione con la diligenza idonea ad impedire il fatto (v Cass. civ. 3 marzo 2010, n. 5067); in relazione in particolare ai pazienti con problemi psichiatrici, la Corte ha più volte affermato che la configurabilità di un dovere di sorveglianza a carico del personale sanitario addetto al reparto e della conseguente responsabilità risarcitoria per i danni provocati dal ricoverato presupponga (soltanto) la prova della incapacità di intendere e di volere del soggetto ( in questo senso Cass. n. 2483 del 1997, Cass. n. 12965 del 2005, Cass. n. 22818 del 2010).

Nel caso di specie, e tenuto conto di questi principi, non pare che la corte abbia adeguatamente considerato nella motivazione se tra gli obblighi del Pronto Soccorso nei confronti della paziente potesse esservi anche un dovere di protezione della stessa e se potessero costituire circostanze idonee a comprovare l’incapacità naturale della C. al momento del ricovero, e quindi a fondare una responsabilità della struttura per omessa sorveglianza, a seguito delle lesioni che la stessa paziente si procurò, alcune delle circostanze accertate in fatto, ovvero che la C. si presentò al pronto soccorso nel cuore della notte, accompagnata dalla polizia, con una cartella clinica attestante precedenti ricoveri per disturbi della personalità, e che in più era già stata visitata dal medico di guardia, il quale aveva richiesto la visita dello psichiatra, implicitamente riconoscendo che fosse opportuno approfondire immediatamente la situazione della paziente.

Sono tutte circostanze che avrebbero dovuto essere prese in considerazione dalla corte, per considerare se esse spiegassero una rilevanza a fronte di una apparente tranquillità della paziente, e se, ove prese in considerazione, avrebbero potuto condurre a ritenere che già vi fosse la prova di trovarsi di fronte ad un soggetto in condizioni menomate di incapacità di intendere e di volere, da custodire con attenzione perché non arrecasse danni a sé e agli altri pazienti ricoverati nel breve tempo tra l’accettazione in pronto soccorso e la visita specialistica a seguito della quale il medico specialista avrebbe fatto una diagnosi e prescritto una terapia.

In definitiva un soggetto già sofferente di problemi psichici che si rivolge al pronto soccorso di notte, per di più accompagnato dalla polizia è già un soggetto in evidente situazione di fragilità psichica, a fronte della quale l’apparente tranquillità (contrastante evidentemente con un comportamento recentissimo di segno contrario, in quanto altrimenti non si spiega la presenza della polizia) potrebbe spiegare un moderato rilievo e per contro la situazione potrebbe necessitare da parte del pronto soccorso una cura della paziente che si traduce in una pur discreta sorveglianza, nel momento in cui, con l’accettazione, prende in carico il paziente.

Non è irrilevante che nel caso di specie, la struttura ospedaliera presso la quale si è verificato l’episodio foriero di danni per la C. non fosse un normale reparto ospedaliere presso il quale la stessa si trovava già ricoverata e sottoposta alle cure del caso, ma fosse invece il Pronto Soccorso dell’ospedale ( ove il sinistro si è verificato appena mezzora dopo che la C. era stata ivi accompagnata).

Nel considerare gli obblighi gravanti sul medico e sulla struttura sanitaria, occorre considerare, e non risulta che in questo caso ciò sia stato preso minimamente in considerazione, il tipo di struttura alla quale ci si rivolge e la patologia prospettata dal paziente.

Nel caso che la struttura sanitaria alla quale ci si rivolge sia un Pronto Soccorso, non si può prescindere dal considerare il tipo di urgenza rappresentata dal paziente che si rivolge alla struttura, la quale verrà poi qualificata nella sua gravità dai medici del pronto soccorso, ma in relazione alla cui tipologia si ha ragione di pretendere dalla struttura ospedaliera che vengano realizzate delle tipologie di intervento differenziate, ed anche che vengano adottate misure differenziate a tutela della salute e sicurezza dei pazienti nella fase di primo intervento.

Non solo il profilo terapeutico è differente a seconda della patologia lamentata dal singolo paziente che si presenta al pronto soccorso, ma necessariamente differenziato deve essere anche l’atteggiamento di protezione che la struttura deve svolgere fin dal primo intervento in sede di pronto soccorso, nel senso che a fronte di determinati tipi di patologie lamentate dai pazienti ben più che di altre – possono assumere un ruolo rilevante tra le prestazioni a carico della struttura specie in sede di primo intervento, gli obblighi per solito accessori di sicurezza e protezione dei pazienti.

In particolare, se viene ricoverato in pronto soccorso una paziente con problemi psichici reduce da una crisi (non altrimenti si spiega un ricovero nel cuore della notte della C. , già esaminata in un altro ospedale e reindirizzata presso quel pronto soccorso, e accompagnato da agenti di polizia, evidentemente chiamati dai familiari che non erano in grado di ‘contenerla’ o richiamati autonomamente dalle grida), e quindi un soggetto in condizioni di fragilità psichica, che si rivolge al pronto soccorso per un disagio psichico in fase acuta, primo obbligo del pronto soccorso che con l’accettazione prende in carico la paziente, dopo averla visitata e aver disposto la visita psichiatrica, come nel caso di specie è stato fatto, è assicurare che la situazione di attesa di questa paziente (la cui situazione di apparente tranquillità può essere illusoria o simulata, considerate tutte le altre circostanze di fatto e comunque non concludente nel senso di una effettiva tranquillità d’animo) sia svolta in condizioni di sicurezza, per evitarle di nuocere a sé o ad altri pazienti ricoverati.

Nel caso di specie non è stata oggetto del giudizio, e non è qui in contestazione, la sussistenza di una possibilità concreta o meno del pronto soccorso sulla base del personale disponibile, di espletare o meno un controllo effettivo su questa paziente fino all’intervento dello psichiatra, e quindi che un eventuale omesso controllo derivasse da cause non imputabili alla struttura.

Quello che non è logico, sulla base della stessa ricostruzione in fatto fornita dai giudici di merito, è che si sia ritenuto di escludere ogni inadempimento in capo alla struttura sanitaria delle sue responsabilità, sulla duplice considerazione che la paziente apparisse tranquilla (sulla cui inconferenza si è già detto) e che la stessa si trovasse in una stanza ove era presenta anche una sua familiare, e che si stato ritenuto privo di rilievo ogni altro profilo.

Ugualmente infatti non appaiono coerenti con i principi sopra enunciati in tema di responsabilità della struttura sanitaria in generale, e del pronto soccorso in particolare a fronte di un paziente che presenti una vulnerabilità psichica, e privano la motivazione di intima coerenza, le affermazioni della corte secondo le quali l’ospedale non era responsabile dai danni autoprocurati dalla paziente non avendola lasciata sola in quanto la stessa era in compagnia di una zia.

Deve ritenersi comunque (al di là dei contrasti sulla effettiva presenza di questa zia, che in questa sede non possono essere presi in considerazione, non spettando a questa corte una diversa valutazione in fatto della vicenda) che non sia idonea di per sé ad escludere l’inadempimento della struttura sanitaria di pronto soccorso nel vigilare sulla sicurezza di paziente psichiatrica in menomate condizioni di intendere e volere la circostanza che questa sia lasciata sola in una stanza d’ospedale, affidata esclusivamente alla vigilanza di una parente.

Nel rivolgersi all’ospedale ed in particolare al pronto soccorso, i parenti del soggetto hanno infatti manifestato di non essere in grado di provvedere autonomamente alle esigenze di cura e anche di vigilanza sul paziente psichiatrico, e per questo motivo si sono rivolti alla struttura d’urgenza senza attendere neppure di rivolgersi, il mattino successivo, al medico curante. La struttura, nell’accogliere la paziente con l’accettazione, ne prende in carico le difficoltà per affrontarle professionalmente. Una volta ricoverata presso il pronto soccorso la paziente in condizioni di disagio psichico — non va dimenticato che la paziente era già stata visitata, e che quindi per essa c’era stata già una pre-valutazione da parte del medico di guardia di sussistenza delle ragioni per un approfondimento psichiatrico — la struttura aveva il compito di porre in essere con propri mezzi le cautele necessarie per vegliare sulla sua sicurezza in attesa che essa fosse sottoposta alla terapia adeguata, o anche che fosse dimessa, qualora non fosse riconosciuta necessaria alcuna terapia. Premesso che costituisce valutazione in fatto, che verrà nuovamente demandata alla corte d’appello, verificare se si ritenesse sussistente, nel caso concreto, l’obbligo in capo alla struttura sanitaria di vigilare sulla sicurezza del paziente, va detto che esso non può ritenersi logica una motivazione che ritenga tale obbligo adeguatamente soddisfatto per il fatto che venga in concreto svolto… dagli stessi parenti della paziente che a quella struttura si erano rivolti ritenendola bisognosa di cure immediate.

La presenza di parenti al capezzale di una paziente non può ritenersi in ogni caso sostitutiva – neppure sotto il profilo della sorveglianza della paziente, che richiede pur sempre professionalità nel cogliere i segni di allarme e competenza nelle modalità di intervento – delle prestazioni professionali che si ha diritto di pretendere da una struttura sanitaria.

La disamina di tali profili — specificità degli obblighi di sorveglianza verso il paziente in condizioni di disagio psichico che si rivolga al pronto soccorso, modalità di assolvimento degli obblighi di sorveglianza da parte della struttura sanitaria – peraltro indubbiamente dedotti in sede di gravame della ricorrente, appare necessaria e non adeguatamente affrontata in motivazione dalla sentenza impugnata che merita pertanto di essere cassata, con rinvio ad altro giudice di merito, che si designa nella Corte di Appello di Palermo in diversa composizione che dovrà procedere al riesame del caso.

Il settimo motivo di ricorso, con il quale la C. lamenta la violazione di legge in relazione all’art. 115 c.p.c. ed all’art. 61 c.p.c. con riferimento all’art. 2697 c.c., per non aver accolto il quarto motivo di appello con cui si censurava la decisione del primo giudice di non ammettere l’attività istruttoria e in particolare la consulenza medica d’ufficio sulla persona della danneggiata Così come formulato il motivo è da rigettare in quanto in materia di procedimento civile, la consulenza tecnica d’ufficio non costituisce salvo che in casi del tutto particolari un mezzo di prova, ma è finalizzata all’acquisizione, da parte del giudice, di un parere tecnico necessario, o quanto meno utile, per la valutazione di elementi probatori già acquisiti o per la soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze; come tale la nomina del consulente rientra nel potere discrezionale del giudice e la mancata nomina in sé non è neppure censurabile in cassazione sotto il profilo della violazione di legge, ma se del caso della mancanza di una idonea motivazione. La questione è comunque assorbita perché spetterà al giudice del rinvio, qualora ritenesse di riconsiderare la responsabilità della struttura sanitaria, valutare nuovamente se procedere e a quali attività istruttorie procedere per accertare i danni riportati dalla C..

L’ottavo motivo denuncia la violazione di legge per violazione dell’art. 91 c.p.c. per non aver disposto un diverso più favorevole regime delle spese processuali.

Il motivo, anch’esso assorbito, sarebbe comunque infondato, perché, pur avendo la corte d’appello rigettato la domanda della C. , essa ha ritenuto di discostarsi dal principio della soccombenza, che avrebbe comportato la condanna della soccombente C. al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado, per praticarle la regolamentazione delle spese legali a lei più favorevole in una situazione di soccombenza, ovvero l’integrale compensazione di entrambi i gradi di giudizio che l’avevano vista soccombente, tenendo conto delle ragioni della vicenda e delle gravi conseguenze che sul piano fisico ne sono derivate alla C. . In realtà, attraverso la formulazione di quest’ultimo motivo di ricorso, ancora una volta la ricorrente contesta – ma in questo caso facendo ricorso ad argoménti inesatti – la correttezza della decisione che l’ha vista soccombente.

La UGF come motivo di ricorso incidentale lamenta che la corte abbia ritenuto di compensare i due gradi di giudizio tra le parti anziché porne le spese a carico della C. che aveva proposto un’azione pretestuosa e chiaramente infondata. L’accoglimento con rinvio del ricorso principale esime dall’esaminare nel merito il motivo di ricorso incidentale.

Il ricorso va accolto quanto al sesto motivo e la sentenza impugnata cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione che provvederà anche sulle spese del presente procedimento di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, rigettati gli altri, rigetta il ricorso incidentale e rinvia anche per la decisione sulle spese del giudizio di cassazione alla Corte d’Appello di Palermo che deciderà in diversa composizione.

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