Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|2 settembre 2024| n. 23487.
A seguito della cassazione di una sentenza non sia stata riassunta la causa dinanzi al giudice di rinvio ma sia stato instaurato un nuovo giudizio
Quando, a seguito della cassazione di una sentenza non sia stata riassunta la causa dinanzi al giudice di rinvio, ma sia stato instaurato un nuovo giudizio, deve applicarsi l’articolo 393 del Cpc, secondo il quale la sentenza della Corte di cassazione conserva effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda. Un tale effetto vincolante della sentenza della Cassazione vale, tuttavia, anche in un diverso processo introdotto in data anteriore, a condizione che esso riguardi le medesime parti e abbia il medesimo oggetto. Effetto vincolante, tuttavia, da intendersi nel senso che, a fronte della caducazione di tutte le attività espletate, resta salva la sola efficacia del principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione.
Ordinanza|2 settembre 2024| n. 23487. A seguito della cassazione di una sentenza non sia stata riassunta la causa dinanzi al giudice di rinvio ma sia stato instaurato un nuovo giudizio
Data udienza 18 aprile 2024
Integrale
Tag/parola chiave: Procedura espropriativa immobiliare – Acquisizione della proprietà in forza di decreto di trasferimento – Giudizio ex art. 622 cod. proc. pen. – Giudizio civile di rinvio – Applicazione dell’art. 392 cpc – Pendenza sin dal momento della pronuncia cassatoria – Mancata riassunzione del giudizio di rinvio – Estinzione non solo di quel giudizio ma dell’intero processo ex art. 393 cpp – Caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso dello stesso – Eccezione – Sentenze coperte dal giudicato – Cass. Sez. 3, ord. 21 settembre 2023 n. 26970 – Art. 39, comma 2, cod. proc. civ. – Inapplicabilità in caso di pendenza di una causa in appello e di altra in primo grado – Applicazione dell’art. 295 cpc – Condanna generica ex art. 278 cod. proc. civ. – Prova certa di un danno – Esclusione
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 7804-2020 proposto da:
Pa.An., Pa.Ca., Pa.Gi., domiciliate presso l’indirizzo di posta elettronica del proprio difensore, rappresentate e difese dall’Avvocato Co.AN.;
– ricorrenti –
contro
IMMOBILIARE (…) Sas DI Le.Vi. E C., in persona del legale rappresentante “pro tempore”, domiciliata presso l’indirizzo di posta elettronica del proprio difensore, rappresentata e difesa dall’Avvocato Ca.RU.;
– controricorrente –
nonché contro
Pa.Gi.;
– intimato –
Avverso la sentenza n. 6/2020 della Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, depositata in data 13/01/2020;
udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale in data 18/04/2024 dal Consigliere Dott. Stefano Giaime GUIZZI.
A seguito della cassazione di una sentenza non sia stata riassunta la causa dinanzi al giudice di rinvio ma sia stato instaurato un nuovo giudizio
FATTI DI CAUSA
1. Pa.An., Pa.Ca. e Pa.Gi. ricorrono, sulla base di sei motivi, per la cassazione della sentenza n. 6/20, del 13 gennaio 2020, della Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, che – nel respingerne il gravame avverso l’ordinanza ex art. 702-bis cod. proc. civ., resa dal Tribunale di Taranto il 18 dicembre 2017 – ha confermato la duplice condanna delle stesse, in quanto occupanti “sine titulo”, sia a rilasciare un complesso agrituristico sito in M alla società Immobiliare (…) Sas di Le.Vi. E C. (d’ora in poi, “Immobiliare” o “(…)”), del quale essa aveva acquisito la proprietà in forza di decreto di trasferimento emesso dal giudice dell’esecuzione all’esito di procedura espropriativa immobiliare, sia al risarcimento del danno, ex art. 2043 cod. civ.
2. Riferiscono, in punto di fatto, le odierne ricorrenti che la società (…) aveva agito in giudizio sul presupposto dell’illiceità della detenzione dell’immobile suddetto, da parte di esse Pa., come accertato dalla sentenza di condanna comminata a loro carico in sede penale – dal medesimo Tribunale tarantino – per i reati di falso in scrittura privata, truffa e invasione arbitraria di terreni e edifici, per avere falsificato il testo della proposta di vendita del 1 giugno 2005, formalizzata in loro favore dall’allora rappresentante della (…), Le.Vi., attribuendosi falsamente la qualifica di affittuarie dell’immobile, documento, peraltro, dalle medesime utilizzato per conseguire un provvedimento di reintegra nel possesso ex art. 1168 cod. civ.
Tuttavia, nelle more della celebrazione del primo grado del presente giudizio, questa Corte accoglieva il ricorso proposto da esse Pa., ex art. 606 cod. proc. pen., avverso la sentenza di appello che, sebbene le avesse prosciolte da ogni imputazione elevata nei loro confronti (avendo dichiarato non doversi procedere nei confronti delle stesse, quanto ai delitti di falso e truffa, per difetto di tempestiva querela, nonché, quanto a quello di cui all’art. 633 cod. pen., in ragione della sua estinzione per intervenuta prescrizione), aveva confermato, quanto a quest’ultima fattispecie criminosa, le statuizioni civili risarcitorie a loro carico.
In particolare, questa Corte – con sentenza n. 14729/17, depositata dalla Seconda sezione penale il 24 marzo 2017 – aveva censurato l’affermazione del giudice d’appello della regiudicanda penale, secondo cui, “a prescindere dalla falsità o meno della scrittura privata” in questione, l’occupazione dell’azienda agrituristica da parte delle Pa. doveva, comunque, ritenersi “arbitraria in quanto senza titolo, non potendosi ritenere effettivamente sussistente un contratto di affitto”; e ciò in quanto, nella suddetta scrittura del 1 giugno 2005, non vi era “traccia alcuna di un separato accordo scritto” che stabilisse “i termini precisi del rapporto negoziale” di affitto, né era stato documentato il pagamento dei relativi canoni. Questo giudice di legittimità, tuttavia, censurava entrambe tali affermazioni, per un verso rilevando che il “valore determinante” attribuito alla mancanza di un “accordo scritto” si pone in contrasto con l’art. 41 della legge 3 maggio 1982, n. 203, a mente del quale i contratti di affitto di fondi rustici di durata ultranovennale possono rivestire anche forma verbale; per altro verso, constatando che “il mancato pagamento dei canoni è compatibile anche con mero inadempimento alle obbligazioni nascenti da contratto, scritto o verbale che sia”.
Su tali basi, dunque, la citata sentenza n. 14729/17 della Seconda sezione penale di questa Corte, rilevando che il giudice di appello penale aveva pronunciato la declaratoria di non doversi procedere, per intervenuta prescrizione, in relazione al reato di cui all’art. 633 cod. pen., “senza un’adeguata motivazione in ordine alla responsabilità delle imputate ai fini delle statuizioni civili”, accoglieva il ricorso, “con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell’art. 622 cod. proc. pen., disposizione che si riferisce senza eccezione ai casi di annullamento di capi (o disposizioni) riguardanti la responsabilità civile”.
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Orbene, in forza di tale sopravvenienza, le Pa. – nella causa incardinata dall’Immobiliare per il rilascio del complesso agrituristico e per il risarcimento del danno da “occupazione sine titulo” – eccepivano, innanzitutto, l’intervenuta litispendenza, a norma dell’art. 39 cod. proc. civ., in relazione al suddetto giudizio ex art. 622 cod. proc. pen., essendo lo stesso destinato all’accertamento dell’esistenza di un contratto di affitto agrario e, dunque, di un titolo legittimante la loro detenzione. In subordine, formulavano istanza di sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ. e, comunque, sollevavano eccezione d’incompetenza del Tribunale ordinario. A loro dire, infatti, in merito alla controversia promossa da (…), si sarebbe dovuta pronunciare la Sezione Specializzata Agraria, stante l’ormai accertato collegamento della detenzione immobiliare di esse Pa. con un contratto di affitto, “tacciato di falso”, ma tale, invece, “non ritenuto” da questa Suprema Corte in sede penale, nonché dalla stessa Corte tarantina, con il provvedimento che aveva confermato l’accoglimento dell’azione di reintegrazione nel possesso da esse esperita.
Nondimeno, respinta dal giudice di prime cure ogni eccezione o istanza delle Pa., la domanda di rilascio dell’immobile occupato “sine titulo” e di condanna generica al risarcimento del danno, proposta dall’Immobiliare, veniva accolta, con decisione poi confermata in appello.
3. Avverso la sentenza della Corte tarantina hanno proposto ricorso per cassazione le Pa., sulla base – come detto – di sei motivi.
3.1. Il primo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 39 cod. proc. civ., con riferimento agli artt. 622 cod. proc. pen. e 392 cod. proc. civ., nonché violazione e/o falsa applicazione degli stessi artt. 622 cod. proc. pen. e 392 cod. proc. civ., oltre a omessa pronuncia sulla sospensione necessaria del processo ex art. 295 cod. proc. civ. e a violazione dell’art. 26 della legge 11 febbraio 1971, n. 11 e dell’art. 47 della legge 3 maggio 1982, n. 203; vengono, altresì, denunciati l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e il difetto assoluto di motivazione e/o del minimo costituzionale di cui all’art. 111, comma sesto, Cost.
Il motivo censura la sentenza impugnata, innanzitutto, là dove ha escluso la sussistenza della litispendenza, rispetto al giudizio civile di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., affermando che “non consta la riassunzione davanti al giudice civile di nessuna causa” dopo la “sentenza n. 14729/17 della Suprema Corte”, intervenuta in sede penale.
Tuttavia, poiché il giudizio ex art. 622 cod. proc. pen. è da considerarsi alla stregua di un giudizio civile di rinvio, essendo, quindi, del tutto riconducibile alla disciplina di cui agli artt. 392 cod. proc. civ., e poiché questo, a propria volta, deve considerarsi pendente sin dal momento della pronuncia cassatoria che ne fissa i termini (caratterizzandosi, per vero, l’atto di riassunzione solo quale mero atto di impulso processuale), nel caso di specie la litispendenza si sarebbe prodotta dal momento e per il sol fatto della pubblicazione della sentenza n. 14729/17 della Seconda sezione penale di questa Corte.
Ad avviso delle odierne ricorrenti, l’errore in cui è incorso il giudice di appello, consistito nel ritenere insussistente il giudizio di rinvio, si sarebbe “riverberato nell’omesso esame e/o verifica da parte della Corte Territoriale sulla pendenza o meno, nel corso del processo, del termine per la riassunzione”, investendo una “circostanza determinante e/o decisiva ai fini di una corretta pronuncia sulla litispendenza”, così da integrare “il vizio di omesso esame su un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 punto 5 cod. proc. civ. e/o di difetto assoluto di motivazione e/o del minimo costituzionale di cui all’art. 111, comma 6, della Costituzione”.
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Inoltre, il medesimo errore avrebbe pure indotto la Corte tarantina “a disattendere e/o omettere ogni pronuncia in ordine alla richiesta sospensione necessaria del processo ex art. 295 cod. proc. civ.”, nonché “a disattendere il motivo di appello” con cui era stata “eccepita l’incompetenza del Tribunale a decidere la causa risarcitoria in favore del Giudice del rinvio”.
3.2. Il secondo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 392 e 393 cod. proc. civ., oltre a violazione e/o falsa e/o omessa applicazione dell’art. 41 della legge n. 203 del 1982, dell’art. 26 della legge n. 11 del 1971 e dell’art. 47 della legge n. 203 del 1982, nonché difetto assoluto di motivazione in violazione del minimo costituzionale di cui all’art. 111, comma 6, Cost.
Assumono le ricorrenti che, quand’anche dovesse ritenersi insussistente – come ha fatto la sentenza impugnata – il giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. civ., e con esso la litispendenza, la decisione impugnata resterebbe egualmente erronea, per violazione dell’art. 393 cod. proc. civ., ovvero per essersi essa discostata e/o per aver disatteso, senza spiegarne le ragioni, quanto statuito, con efficacia vincolante, dalla suddetta sentenza n. 14729/17 di questa Corte. Essa, infatti, “imponeva al giudice della riproposizione della domanda di accertare la sussistenza del dedotto rapporto agrario, nel rispetto del disposto dell’art. 41 della L. n. 203 del 1982”, rapporto, invece, escluso dalla sentenza cassata in sede penale, ma “invocata, con inversione dell’onere della prova, nel nuovo giudizio ex art. 702-bis cod. proc. civ.”, giacché utilizzata “a dimostrazione e prova della detenzione senza titolo dell’immobile”. Orbene, la Corte tarantina, “obliterando l’effetto vincolante” della suddetta pronuncia cassatoria intervenuta in sede penale, agli effetti civili, ha ritenuto di escludere la sussistenza del rapporto agrario (e la competenza della Sezione Specializzata Agraria) sulla base di quanto prospettato da (…), rilevando che essa aveva “negato la sussistenza di questo rapporto”.
3.3. Il terzo motivo denuncia violazione e/o falsa e/o omessa applicazione dell’art. 41 della legge n. 203 del 1982, dell’art. 26 della legge n. 11 del 1971 e dell’art. 47 della legge n. 203 del 1982, nonché violazione e/o omessa applicazione del disposto di cui all’art. 393 cod. proc. civ., oltre a difetto assoluto di motivazione e/o del minimo costituzionale di cui all’art. 111, comma 6, Cost.
Si censura la sentenza impugnata, là dove afferma che, non avendo il giudizio penale di cassazione “avuto nessun seguito, non v’è ragione perché si configuri la competenza della sezione specializzata agraria”. Per contro, l’efficacia vincolante della pronuncia cassatoria – ex art. 393 cod. proc. civ. – “sull’accertamento del rapporto agrario nel nuovo processo”, comportava che esso dovesse spettare alla Sezione Specializzata Agraria, nella cui competenza rientrano pure “quelle controversie che presuppongono l’accertamento delle caratteristiche, della validità e della stessa esistenza del rapporto da qualificare onde stabilire se esso sia compreso o meno fra le fattispecie cui è applicabile la disciplina vincolistica” e ciò, “sia nel caso in cui la questione attinente all’applicabilità delle norme speciali venga eccepita dal convenuto per il rilascio del fondo, sia nell’ipotesi in cui ne venga invocato dall’attore l’accertamento negativo”.
3.4. Il quarto motivo denuncia nullità della sentenza per omessa pronuncia “sulla violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa ex art. 101, comma 2, cod. proc. civ.”, eccepita con il motivo sub D) dell’atto di appello, nonché per “violazione del principio della domanda” ex art. 112 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ., oltre a difetto di motivazione ex art. 111, comma 6, Cost.
Le ricorrenti evidenziano che la Corte territoriale, nel pronunciarsi sul capo D) dell’atto di appello, ha escluso che il Tribunale avesse “deciso ultra petitum, essendosi mantenuto nei limiti della domanda”, avendo (…) “richiesto il rilascio dell’immobile”, e ciò sul presupposto che esse Pa. “lo detenessero senza titolo”. In questo modo, tuttavia, il giudice d’appello avrebbe omesso ogni pronuncia sugli altri motivi sollevati nel medesimo punto D) dell’atto di gravame, in particolare là dove era stato lamentata ed eccepita la violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa. Infatti, nel censurare l’affermazione del primo giudice secondo cui esse Pa. “non avrebbero neppure dedotto l’attualità del rapporto agrario”, le allora appellanti avevano rilevato come il Tribunale non avesse colto che “l’oggetto del giudizio è dato dalla richiesta di condanna delle Pa. al rilascio del complesso immobiliare (petitum), in forza del pronunciamento asseritamente irrevocabile del giudice penale che avrebbe dichiarato la falsità della scrittura privata contenente l’attestazione della sussistenza del contratto di affitto”, nonché “l’arbitrarietà dell’occupazione del complesso immobiliare”, (ovvero, la causa petendi), sicché rispetto a detta prospettazione le Pa. “hanno orientato le proprie difese”. In base ad essa, infatti, le medesime avevano eccepito che la sentenza penale in questione “era stata annullata dalla Corte di Cassazione”, di talché le allora le appellanti avevano sostenuto la “palese la violazione del principio del contraddittorio, e quindi del divieto della mutatio libelli, avendo il Tribunale deciso ignorando le argomentazioni, le deduzioni, le motivazioni e le eccezioni delle parti contrapposte”, così modificando d’ufficio la causa petendi”.
3.5. Il quinto motivo denuncia nullità della sentenza, sia per omessa pronuncia sul motivo di appello relativo alla presunta violazione dell’onere della prova sull’attualità del contratto di affitto agrario da parte delle appellanti, sia per “violazione del principio della domanda” ex art. 112 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ., oltre a difetto di motivazione ex art. 111, comma 6, Cost.
A seguito della cassazione di una sentenza non sia stata riassunta la causa dinanzi al giudice di rinvio ma sia stato instaurato un nuovo giudizio
Assumono le ricorrenti di aver censurato, in appello, l’affermazione del primo giudice secondo cui esse “non avrebbero neppure dedotto l’attualità del rapporto agrario”, in particolare non formulando “istanze istruttorie volte a dimostrare una legittima ragione di possesso”, essendosi persino guardate “dal produrre – pur solo in copia – l’offerta di vendita sottoscritta dal Le.Vi., contenente la contestata aggiunta della qualità di affittuari”.
Sul punto, per contro, nell’atto di appello si osservava che, essendo stato l’originale della scrittura prodotto dall’Immobiliare “non si vede perché mai” esse Pa. “avrebbero dovuto obbligatoriamente riprodurla”, mentre in relazione al difetto di prova sull’attualità del rapporto, il motivo di gravame era volto a dimostrare come il rapporto di affittanza, del cui titolo contrattuale era stata eccepita la nullità e/o la falsità, presentava una durata “fissata per legge in anni 15”, andando pertanto “a scadere, salvo prova contraria, il 1 giugno 2020”, essendo stato il contratto concluso il 1 giugno 2005, e dunque anteriormente al decreto di trasferimento della proprietà del bene, emesso dal giudice dell’esecuzione, in favore dell’Immobiliare, il 30 maggio 2005.
In relazione, dunque, a tale motivo di gravame sarebbe mancata ogni pronuncia da parte del giudice di seconde cure, il quale – a voler riguardare tale circostanza, sempre secondo le ricorrenti, sotto altro angolo visuale – non avrebbe neppure spiegato le ragioni in forza delle quali ha omesso di pronunciarsi.
3.6. Infine, il sesto motivo denuncia nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 39, 392 e 393, cod. proc. civ., oltre che per violazione del principio della domanda ex art. 112 cod. proc. civ., nonché del disposto di cui all’art. 164 cod. proc. civ. con riferimento alla mancanza dei requisiti di cui all’art. 183, commi 2, 3 e 4, cod. proc. civ.; è denunciata, altresì, violazione dell’art. 2043 cod. civ., violazione e/o omessa applicazione del disposto di cui all’art. 2697 cod. civ. e difetto di motivazione ex art. 111, comma 6, Cost.
Si censura la sentenza impugnata per avere ritenuto di poter deliberare sulla domanda risarcitoria dell’Immobiliare, e ciò in ragione della mancata pendenza del giudizio ex art. 622 cod. proc. pen.; sicché, sul punto, vengono reiterate le stesse doglianze prospettate con i precedenti motivi di ricorso.
In ogni caso, la decisione è impugnata anche in relazione “alla ritenuta sussistenza del pregiudizio che giustifica la domanda generica di risarcimento dei danni”, e ciò perché l’Immobiliare non avrebbe rispettato l’onere di descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali ha richiesto il ristoro, sicché avrebbe errato la Corte territoriale nel ritenere astrattamente configurabile il pregiudizio, collegandolo – sottolineano le ricorrenti – “alla supposta (ma non descritta e men che mai precisata e provata) omessa percezione dei redditi, derivanti dall’immobile occupato sine titulo”.
4. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, la società (…), chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.
6. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
7. Non consta la presentazione di requisitoria scritta da parte del Procuratore Generale presso questa Corte.
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RAGIONI DELLA DECISIONE
8. Il ricorso va rigettato.
8.1. Il primo motivo è inammissibile.
8.1.1. Nello scrutinarlo occorre evidenziare, in via preliminare, che le ricorrenti invocano la nozione di litispendenza in modo del tutto erroneo. Difatti, a prescindere dalla indeterminatezza dell’indicazione delle domande civili introdotte nel processo penale (ciò che evidenzia un primo profilo di criticità del motivo in relazione all’art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ., neppure superabile attraverso la lettura della sentenza penale di questa Corte, giacché essa non individua esattamene le richieste civili), da quanto è allegato dalle Pa. non emerge, in alcun modo, una relazione di identità fra la controversia civile introdotta in sede penale e quella per cui è processo, ma, al più, una parziale identità di un fatto comune, vale a dire l’occupazione del fondo da parte delle ricorrenti. Di conseguenza, sussistendo, al massimo, una relazione di connessione per pregiudizialità della controversia civile radicata nella sede penale (in quanto anteriore), ove la riassunzione ex art. 622 cod. proc. pen. fosse avvenuta, essa avrebbe potuto giustificare, al più, una sospensione ex art. 337 cod. proc. civ. da parte del Tribunale.
In ogni caso, il motivo è anche infondato.
L’assunto delle ricorrenti, secondo cui la semplice pronuncia della sentenza cassatoria – resa da questa Corte in sede penale – avrebbe determinato, per ciò solo, la pendenza del giudizio di rinvio ex artt. 622 cod. proc. pen. (e 392 cod. proc. civ.), è contraddetta dalla giurisprudenza di questo giudice di legittimità. In base ad essa, infatti, “la mancata riassunzione del giudizio di rinvio determina, ai sensi dell’art. 393 cod. proc. civ., l’estinzione non solo di quel giudizio ma dell’intero processo, con conseguente caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso dello stesso, eccettuate quelle già coperte dal giudicato, in quanto non impugnate” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 21 settembre 2023, n. 26970, Rv. 668761-01; nello stesso senso, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 7 febbraio 2012, n. 1680, Rv. 621666-01; Cass. Sez. 5, sent. 6 dicembre 2002, n. 17372, Rv. 559041-01), sicché non può dirsi, come invece sostengono le ricorrenti, che l’instaurazione, o meno, del giudizio di rinvio – quale mero “atto di impulso” – fosse circostanza irrilevante al fine di ipotizzare la (insussistente) litispendenza ex art. 39 cod. proc. civ.
D’altra parte, come appena osservato, anche ad ammettere che il giudizio ex art. 622 cod. proc. pen. fosse già pendente all’esito della pronuncia di annullamento con rinvio resa da questa Corte in sede penale (ciò che non è), la possibilità di ravvisare il fenomeno della litispendenza – comunque da escludersi, per le ragioni già illustrate (e delle quali ancora si dirà) – sarebbe stata preclusa dal fatto che il giudizio recante l’identità di lite pendeva in fase di appello.
Invero, come evidenziato dalla società Immobiliare nel proprio controricorso (pag. 3), l’eccezione di litispendenza venne sollevata dalle Pa. già nel primo grado del giudizio da essa instaurato ex art. 447-bis cod. proc. civ., ma, come noto, “l’art. 39, comma 2, cod. proc. civ. non è applicabile in caso di pendenza di una causa in appello e di altra in primo grado e, quindi, in questa ipotesi, non può realizzarsi la rimessione della seconda controversia al giudice dell’impugnazione della decisione sulla prima, per il diverso grado in cui risultano trovarsi”, sicché, la “esigenza di coordinamento sottesa alla disciplina della continenza deve, però, essere comunque assicurata mediante la sospensione, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., del processo che avrebbe dovuto subire l’attrazione all’altro, se avesse potuto operare detta disciplina, in attesa della definizione con sentenza passata in giudicato del giudizio che avrebbe esercitato tale attrazione” (da ultimo, Cass. Sez. 6-3, ord. 3 giugno 2020, n. 10439, Rv. 658030-02; Cass. Sez. 6-3, ord. 14 novembre 2017, n. 26835, Rv. 647137-01; in senso sostanzialmente analogo pure Cass. Sez. 6-3, ord. 1 marzo 2014, n. 5455, Rv. 630197-01); sospensione alla quale, però, né il Tribunale, né la Corte di Taranto hanno ritenuto di dover far luogo stante, appunto, l’inesistenza di alcun giudizio pendente innanzi alla Corte territorialmente competente a norma dell’art. 622 cod. proc. pen.
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Né, infine, può addebitarsi alcuna “omesso esame” alla sentenza impugnata, per non aver verificato la Corte territoriale l’effettiva pendenza del giudizio di rinvio, né, conseguentemente, alcuna “omissione di pronuncia”, in ordine, appunto, alla sospensione del processo e/o alla competenza del giudice del rinvio. Va, difatti, rilevato, per un verso, che è la parte processuale la quale abbia eccepito la litispendenza ad aver “l’onere di produrre gli atti necessari per la verifica dello stato attuale di pendenza tra i due giudizi, al fine di rendere possibile la pronuncia di prevenzione” (Cass. Sez. 3, sent. 18 dicembre 1998, n. 12691, Rv. 521777-01; Cass. Sez. Lav., sent. 25 novembre 2004, n. 22252, Rv. 578124-01), sicché nessuna omissione di verifica può addebitarsi alla Corte territoriale; per altro verso, poi, deve osservarsi che la sentenza oggi impugnata ha escluso di poter provvedere in merito alla sospensione (o alla competenza del giudice del rinvio), in difetto, appunto, di prova della pendenza del giudizio ex art. 622 cod. proc. pen., sicché, sul punto, essa si è pronunciata.
9.2. Il secondo motivo – che è proposto dalle ricorrenti per l’ipotesi in cui si escluda la pendenza del giudizio del giudizio ex art. 622 cod. proc. pen. (e, quindi, la sussistenza della litispendenza tra le due controversie) – non è fondato.
9.2.1. Invero, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, quando, “a seguito della cassazione di una sentenza non sia stata riassunta la causa dinanzi al giudice di rinvio, ma sia stato instaurato un nuovo giudizio, deve applicarsi l’art. 393 cod. proc. civ., secondo il quale la sentenza della Corte di cassazione conserva effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda”, tale “effetto vincolante della sentenza della Cassazione” valendo, tuttavia, “anche in un diverso processo introdotto in data anteriore, a condizione che esso riguardi le medesime parti e abbia il medesimo oggetto” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 19 giugno 2014, n. 13974, Rv. 631394-01; in senso conforme Cass. Sez. 3, ord. n. 26970 del 2023, cit.); effetto vincolante, tuttavia, da intendersi nel senso che, a fronte della “caducazione di tutte le attività espletate”, resta “salva la sola efficacia del principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione” (così Cass. Sez. 3, sent. 18 marzo 2014, n. 6188, Rv. 629888-01; in senso conforme, Cass. Sez. 3, ord. 13 maggio 2020, n. 8891, Rv. 657842-01).
Si è già detto, però, per quali ragioni i due giudizi – che si pretenderebbero, addirittura, “identici” – non abbiano “il medesimo oggetto”, sicché, per ciò solo, deve concludersi per l’infondatezza del secondo motivo del presente ricorso.
“Ad abundantiam”, tuttavia, si osserva che applicati i principi sopra richiamati al caso che occupa, deve rilevarsi, innanzitutto, che la più volte citata sentenza di questa Corte intervenuta in sede penale – la quale, va rammentato, non ha escluso la sussistenza del reato di invasione di terreni o edifici (art. 633 cod. pen.), ma ha dichiarato non doversi procedere in relazione ad esso per intervenuta prescrizione – non ha enunciato alcun principio di diritto, ma ha piuttosto demandato al giudice del rinvio un accertamento di fatto, ovvero verificare (agli effetti civili) se le Pa. fossero nella disponibilità del complesso agrituristico che erano state accusate di detenere illecitamente in forza di un contratto di affitto di fondo rustico concluso verbalmente.
Orbene, nessuna efficacia vincolante, pertanto, nasceva dalla sentenza suddetta, in assenza di un principio di diritto, fermo, peraltro, che – stando a quanto emerge nuovamente nel controricorso (pag. 5) – il giudice di prime cure, del giudizio ex art. 702-bis cod. proc. civ., non si è sottratto, comunque, al compito di verificare l’eventuale sussistenza di tale contratto verbale, escludendone la ricorrenza “non sussistendo i requisiti essenziali ex art. 1325 cod. civ.”. Peraltro, la natura di “error in procedendo” del vizio denunciato con il presente motivo di ricorso, consentendo la verifica di tale circostanza attraverso la lettura della sentenza del Tribunale (atteso che questa Corte – quale giudice del “fatto processuale” – può accedere, in tal caso, agli atti di causa) offre riscontro a quanto si legge nel controricorso.
A seguito della cassazione di una sentenza non sia stata riassunta la causa dinanzi al giudice di rinvio ma sia stato instaurato un nuovo giudizio
8.3. Il terzo motivo è anch’esso infondato.
8.3.1. Invero, questa Corte ha affermato, ormai da tempo, che sussiste “la competenza delle Sezioni specializzate agrarie in relazione alla controversia il cui thema decidendum s’incentra nello stabilire se le parti convenute per il rilascio di un fondo agricolo siano occupanti sine titulo ovvero lo detengano in forza di un contratto di affitto soggetto a proroga” (Cass. Sez. 3, sent. 2 settembre 1982, n. 4796, Rv. 422785-01).
Senonché, in relazione a tale eccezione – che le Pa. ebbero a formulare tempestivamente, atteso che esse (come attestato, nuovamente, dal controricorso) eccepirono “alla prima udienza”, e dunque nel rispetto dell’art. 38 cod. proc. civ., il difetto di competenza del Tribunale ordinario, reputando che essa spettasse alla Sezione Specializzata Agraria – la sentenza impugnata si è richiamata al seguente principio di diritto, enunciato da questa Corte. Ovvero, quello secondo cui, qualora “nel giudizio instaurato dall’attore con domanda di rilascio di un bene immobile il convenuto eccepisca l’incompetenza del giudice adito, deducendo la competenza della Sezione Specializzata Agraria, il giudice deve rimettere a questa la decisione della causa, rientrando nella competenza della medesima anche l’accertamento della natura del rapporto, tranne che, sulla base delle deduzioni delle parti e senza necessità di attività istruttoria, risulti “prima facie” che la materia del contendere è diversa da quella devoluta alla cognizione del giudice specializzato”, evenienza che ricorre, tra l’altro, allorché l’eccezione sollevata “manchi del supporto argomentativo minimo indispensabile per chiarire i dati essenziali del rapporto agrario dedotto” ovvero “la specifica natura, la data di inizio, il corrispettivo, l’oggetto” (Cass. Sez. 3, sent. 5 febbraio 2015, n. 2069, Rv. 634180-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 27 ottobre 2017, n. 25686, Rv. 646833-01, in senso sostanzialmente analogo già Cass. Sez. 3, ord. 11 gennaio 2006, n. 250, Rv. 587108-01; Cass. Sez. 3, ord. 13 giugno 2006, n. 13644, Rv. 590626-01).
Tale è stato ritenuto, nella sostanza, il caso di specie, se è vero che già il Tribunale – secondo quanto emerge proprio dal contenuto del ricorso (peraltro assai elusivo nel ricostruire l’esatta natura delle difese svolte dalle Pa. nel primo grado di giudizio, facendo menzione solo della loro iniziativa volta a far acclarare il venir meno dell’efficacia della sentenza di condanna inizialmente intervenuta in sede penale, in relazione alla ipotizzata falsificazione del contratto di affitto) – aveva dato atto che le odierne ricorrenti non avevano “neppure dedotto l’attualità del rapporto agrario”, non formulando “istanze istruttorie volte a dimostrare una legittima ragione di possesso”. Né senza rilievo, nella stessa prospettiva dell’esclusione “prima facie” dell’esistenza di un rapporto agrario, è la circostanza che il primo giudice avesse escluso l’avvenuta conclusione in forma verbale del contratto di affitto, in ragione della ritenuta insussistenza dei requisiti essenziali ex art. 1325 cod. civ.
8.4. Il quarto motivo è, sotto più profili, inammissibile.
8.4.1. Le ricorrenti lamentano che la Corte territoriale avrebbe omesso ogni pronuncia sugli “altri motivi” – oltre la denuncia di una decisione “ultra petitum”, da parte del primo giudice – da esse sollevati nel medesimo punto D) dell’atto di gravame, in particolare là dove “avevano lamentato ed eccepito la violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa”.
In cosa, tuttavia, tale violazione sia consistita, non è dato comprendere, giacché le Pa. si limitano, una volta di più, a ribadire che il “thema decidendum”, da esse devoluto all’esame del Tribunale e poi della Corte tarantini, era quello della sopravvenuta cassazione della sentenza penale di condanna, in relazione alla supposta falsificazione del contratto di affitto del fondo rustico.
Il motivo, dunque, difetta di specificità, donde la sua inammissibilità, ex art. 336, comma 1, n. 4), cod. proc. civ.
In ogni caso, impregiudicato il rilievo che precede, deve osservarsi che – per quanto è dato comprendere – ciò che era stato lamentato con l’appello al punto D) non può essere considerato oggetto di omessa pronuncia, giacché sulla prospettazione che ne formava oggetto la Corte territoriale si è pronunciata, escludendo che il Tribunale fosse incorso in ultrapetizione (si rinvia alla terzultima proposizione della pag. 4 della sentenza qui impugnata: “Non consta…”). Peraltro, la prospettazione delle ricorrenti, e cioè che il giudizio del Tribunale dovesse rimanere ancorato alla valutazione delle loro difese, in quanto correlate al disposto della cassazione penale (che aveva demandato al giudice del rinvio la verifica della sussistenza di un contratto di affitto), è destituita di qualsiasi fondamento, dato che il Tribunale non era il giudice del rinvio, sicché la valutazione sulla ricorrenza della natura agraria del rapporto avrebbe dovuto effettuarla, semmai, direttamente ed autonomamente, al limite configurandosi il coordinamento tra i due giudizi – come già rilevato nello scrutinare il primo motivo di ricorso – attraverso il meccanismo dell’art. 337 cod. proc. civ., il quale però, non essendovi stata riassunzione del giudizio ex art. 622 cod. proc. pen., risultava, in concreto, inapplicabile.
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8.5. Anche il quinto è inammissibile.
8.5.1. In via preliminare, va rilevato che la sua formulazione viola l’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ., giacché non riproduce il contenuto della sentenza del Tribunale e nemmeno localizza la decisione, sicché non è possibile apprezzare la decisività della (pretesa) omessa pronuncia sul motivo di appello (cfr. Cass. Sez. 3, ord. 7 giugno 2023, n. 16028, Rv. 667816-02).
In ogni caso, poi, deve osservarsi come le ricorrenti si attardino sull’affermazione – per vero, d’importanza del tutto marginale – compiuta dal primo giudice, circa la mancata produzione della copia del contratto di affitto del quale era stata ipotizzata la falsità, senza avvedersi che il rilievo della mancata prova della “attualità del rapporto agrario” si basava sull’assunto che esse Pa. neppure avessero formulato “istanze istruttorie volte a dimostrare una legittima ragione di possesso”. Affermazione che esse pretendevano di contrastare in appello con un motivo di gravame volto a dimostrare come il rapporto di affittanza, del cui titolo contrattuale era stata eccepita la nullità e/o la falsità, presentava una durata “fissata per legge in anni 15”, andando pertanto “a scadere, salvo prova contraria, il 1 giugno 2020”. Difesa, ancora una volta, basata su di un documento – la cui autenticità la loro controparte aveva messo in dubbio con la propria iniziativa – la cui “genuinità” non può dirsi essere stata riconosciuta in sede penale, visto che il proscioglimento per il reato di falso in scrittura privata e truffa, contestato alle Pa. in relazione a tale contratto, risultava intervenuto solo per difetto di tempestiva querela.
8.6. Infine, l’ultimo motivo di ricorso non è fondato.
8.6.1. Nella parte in cui esso richiama le censure di cui ai precedenti motivi valgono le stesse considerazioni sopra svolte, in merito a ciascuno di essi.
In relazione, invece, alla censura con cui si contesta la decisione di accogliere la domanda di condanna generica proposta da (…), ritenuta erronea perché detta società “non avrebbe rispettato l’onere di descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali ha richiesto il ristoro”, si deve osservare quanto segue. Ovvero, che ai “fini della pronunzia di una condanna generica, ai sensi dell’art. 278 cod. proc. civ., non occorre la prova certa di un danno, essendo sufficiente, invece, il mero accertamento della sussistenza di condizioni di fatto potenzialmente causative di effetti pregiudizievoli” (da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 28 marzo 2023, n. 8729, Rv. 667320-01), e cioè che “l’attore dimostri la colpa ed il nesso causale e che l’esistenza del danno appaia anche solo probabile” (Cass. Sez. Un., sent. 12 ottobre 2022, n. 29862, Rv. 665940-03). D’altra parte, deve pure osservarsi che “la privazione del possesso conseguente all’occupazione di un immobile altrui costituisce un fatto potenzialmente causativo di effetti pregiudizievoli ed idoneo a legittimare la pronunzia di condanna generica al risarcimento del danno, ben potendo il giudice successivamente liquidare in concreto il detto danno per mezzo di una valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ. che tenga conto, quale parametro di quantificazione, del valore reddituale del bene” (Cass. Sez. 6- 2, ord. 4 dicembre 2012, n. 31353, Rv. 651796-01), ovvero proprio il criterio indicato dalla sentenza impugnata.
Per mera completezza, si rileva che la censura ex art. 164 c.p.c. nemmeno è argomentata.
9. Le spese del presente giudizio, in base alla soccombenza, sono a carico delle ricorrenti e liquidate come da dispositivo.
10. A carico delle ricorrenti, stante il rigetto del ricorso, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
A seguito della cassazione di una sentenza non sia stata riassunta la causa dinanzi al giudice di rinvio ma sia stato instaurato un nuovo giudizio
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, condannando Pa.An., Pa.Ca. e Pa.Gi. a rifondere, alla società Immobiliare (…) Sas di Le.Vi. E C., le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 5.600,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge. Distrae le spese a favore del difensore antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, svoltasi il 18 aprile 2024.
Depositata in Cancelleria il 2 settembre 2024.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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