La differenza esistente tra il contratto di affitto agrario e quello cosiddetto di vendita delle erbe

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|10 aprile 2024| n. 9725.

La differenza esistente tra il contratto di affitto agrario e quello cosiddetto di vendita delle erbe

La differenza esistente tra il contratto di affitto agrario e quello cosiddetto di vendita delle erbe (o pascipascolo) è data dal fatto che, mentre l’affitto è caratterizzato dalla gestione produttiva del fondo da parte dell’affittuario, il contratto di vendita delle erbe consiste nell’apprensione di queste, rimanendo l’utilizzazione del fondo soltanto un mezzo per conseguire quel fine. Ed è sempre necessario, perché possa configurarsi un contratto di affitto agrario, che vi sia un’attività di “coltivazione” del fondo stesso, cioè idonea, quanto meno, a stimolare la produzione di erba, circostanza questa essenziale perché si abbia “coltivazione”.

Ordinanza|10 aprile 2024| n. 9725. La differenza esistente tra il contratto di affitto agrario e quello cosiddetto di vendita delle erbe.

Data udienza 1 marzo 2024

Integrale

Tag/parola chiave: CONTRATTO AGRARIO – Affitto agrario – Differenza da quello di pascipascolo – Necessità nell’affitto agrario della coltivazione del fondo – Sussiste. (Legge 203/82, articolo 56; Cc, articolo 2697)

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dai Signori Magistrati:

Dott. SCRIMA Antonietta – Presidente
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere Rel.

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere

Dott. ROSSELLO Carmelo Carlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10112-2021 R.G. proposto da:

Gu.Ro., rappresentato e difeso dall’avvocato Pi.Pa. (Omissis) (…)

– ricorrente –

contro

Me.Et., rappresentato e difeso dall’avv. Ce.Al. (Omissis) (…)

– controricorrente –

avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di POTENZA n. 617-2020 depositata il 18-03-2021.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1° marzo 2024 dal Consigliere FRANCESCO MARIA CIRILLO.

La differenza esistente tra il contratto di affitto agrario e quello cosiddetto di vendita delle erbe

FATTI DI CAUSA

1. Gu.Ro. convenne in giudizio Me.Et., davanti alla Sezione specializzata agraria del Tribunale di Lagonegro, per ottenere l’accertamento dell’esistenza di un contratto di affitto a coltivatore diretto da lui stipulato, il conseguente riconoscimento del suo diritto al rientro nella detenzione dei fondi, nonché la condanna del resistente alla restituzione degli stessi e al risarcimento dei danni cagionati dall’abusiva sua estromissione.

A sostegno della domanda il ricorrente espose, tra l’altro, di avere stipulato nell’agosto del 2011, a mezzo di accordo verbale, un contratto di affitto a coltivatore diretto avente ad oggetto dei fondi di proprietà del convenuto e di essere stato indebitamente estromesso dagli stessi, con l’ausilio dei Carabinieri e su richiesta del resistente, siccome ritenuto occupante abusivo.

Si costituì in giudizio Me.Et., il quale eccepì in via preliminare l’improcedibilità della domanda per il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione e l’incompetenza della Sezione specializzata e, nel merito, chiese il rigetto della domanda, deducendo che il rapporto in essere tra le parti era un contratto di vendita delle erbe.

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Espletata prova per interrogatorio e per testi, il Tribunale rigettò la domanda e compensò integralmente le spese processuali.

2. La sentenza è stata impugnata da Gu.Ro. il quale ha lamentato, tra l’altro, che il Tribunale avesse erroneamente accertato che il contratto in essere tra le parti era di mero pascipascolo e non di affitto di fondo rustico.

La Corte d’appello di Potenza, con sentenza del 18 marzo 2021, ha rigettato il gravame, condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite del secondo grado di giudizio.

La Corte territoriale ha innanzitutto richiamato la distinzione, di creazione giurisprudenziale, tra la vendita delle erbe (c.d. pascipascolo) e l’affitto di fondo pascolativo. Mentre il primo ha ad oggetto il trasferimento delle erbe prodotte dal fondo e considerate come un bene da questo distinto – per cui l’uso del fondo costituisce il mezzo di apprensione delle erbe – il contratto di affitto ha ad oggetto il godimento diretto di questo, a fini produttivi, da parte dell’affittuario.

Tanto premesso, la sentenza ha affermato che il Gu.Ro. non aveva provato il titolo della detenzione da lui vantata, per cui non poteva stabilirsi se il presunto spoglio eseguito dai Carabinieri fosse legittimo o meno. Gli assegni da lui depositati, infatti, avendo una causale astratta, non erano idonei a dimostrare che rappresentassero il corrispettivo dell’affitto piuttosto che il prezzo delle erbe oggetto del contratto di pascipascolo.

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La Corte d’appello ha poi motivato la decisione rilevando l’assenza di prova in ordine alla sussistenza del contratto di affitto, a fronte della genericità e scarsa credibilità da attribuire al contenuto delle testimonianze richieste da parte ricorrente. Nello stesso tempo, la circostanza che il Me.Et. avesse concluso, con soggetti terzi, ulteriori contratti annuali di mero pascipascolo, aventi ad oggetto i medesimi terreni per cui è causa, ha condotto la Corte potentina a ritenere provato in via indiziaria che tra le parti del presente giudizio fosse intercorso un contratto avente ad oggetto il mero sfalcio di erba spontanea piuttosto che la produzione di erba da pascolo.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Potenza propone ricorso Gu.Ro. con atto affidato a quattro motivi.

Resiste Me.Et. con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. e dell’art. 111 Cost., per presunta nullità della sentenza conseguente alle sue lacune di motivazione.

Osserva il ricorrente che la motivazione della sentenza impugnata non sarebbe espressione di un autonomo processo deliberativo, ma costituirebbe una motivazione per relationem, la quale consisterebbe in una generica condivisione della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni svolte dal primo giudice, sprovvista di alcun esame critico delle stesse e con cui non sarebbe stata raggiunta la soglia del minimo costituzionale di motivazione. Il ricorrente lamenta che la prova per testi sia stata giudicata insufficiente, nonostante dalle testimonianze fosse emerso che il contratto in essere tra le parti aveva una durata ultra-quinquennale e che aveva ad oggetto non solo la raccolta dell’erba, ma anche l’aratura, la semina e la concimazione del terreno.

Si lamenta, poi, che la motivazione sarebbe perplessa e contraddittoria, in quanto avrebbe erroneamente definito i testimoni quali parenti del ricorrente, in tal modo attribuendo loro scarsa credibilità, e non avrebbe debitamente valorizzato altri elementi, da considerare pacifici, che dimostravano la detenzione del fondo, da parte del ricorrente, dal 2011 al 2017, la gestione produttiva dello stesso, il pagamento di un canone fisso, la semina e la coltivazione dell’erba; elementi, tutti, dimostrativi dell’esistenza di un contratto di affitto.

1.1. La censura, sebbene ampiamente argomentata, è priva di fondamento.

La Corte d’appello, infatti, sia pure con una motivazione stringata, ha dato conto del fatto che la valutazione globale delle prove raccolte non consentiva di ritenere dimostrata l’esistenza di un contratto agrario. Il Tribunale, come emerge dallo stesso ricorso che riporta ampi stralci della motivazione, aveva evidenziato che solo la deposizione di un teste (Di.Gi.) aveva confermato l’esistenza di quel contratto; e la Corte d’appello, confermando in sostanza la valutazione del primo giudice, ha anche aggiunto che gli assegni depositati dall’odierno ricorrente a dimostrazione dei pagamenti compiuti non consentivano di ritenere dimostrata l’esistenza del suindicato contratto, mentre il rapporto tra le parti era piuttosto da ritenere un contratto di vendita di erbe o pascipascolo. La circostanza, che il ricorrente ritiene erronea, che i testimoni escussi fossero suoi parenti, non vale ad infirmare tale valutazione complessiva.

La differenza esistente tra il contratto di affitto agrario e quello cosiddetto di vendita delle erbe

Le considerazioni contenute nel primo motivo, in effetti, non vanno oltre la censura di una valutazione di merito, che la Corte potentina ha compiuto e che non è chiaramente rinnovabile in sede di legittimità. Né d’altronde è ipotizzabile, come vorrebbe il ricorrente, che la sentenza impugnata sia addirittura nulla per violazione del c.d. “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost.; violazione prospettabile solo nei casi in cui la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, circostanze tutte che non sussistono nel caso in esame.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., poiché la Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi sulla censura mossa dall’appellante relativa all’illegittima ammissione di documentazione inammissibile, anche a fronte dell’assenza di adozione di specifici provvedimenti da parte del giudice idonei a consentire l’acquisizione di documenti tardivamente allegati.

Osserva il ricorrente che i giudici di merito avrebbero ingiustificatamente fondato il rigetto della domanda sulla base di documenti allegati dal resistente, il quale sarebbe incorso nella decadenza dal diritto di depositare i documenti, ai sensi dell’art. 416, terzo comma, cod. proc. civ., in quanto costituitosi tardivamente. Secondo il ricorrente, sarebbe ammissibile una successiva ammissione della documentazione solo se giustificata dal tempo della formazione dell’atto ovvero dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso e alla memoria di costituzione, potendo i mezzi istruttori essere ammessi d’ufficio soltanto attraverso l’emissione di un provvedimento di acquisizione di documenti tardivamente depositati o attraverso un motivato provvedimento di ammissione officiosa ai sensi dell’art. 420, quinto comma, cod. proc. civ., i quali nel presente caso non sono stati adottati. La documentazione prodotta da parte avversa, inoltre, non avrebbe dovuto essere oggetto di specifica contestazione, in quanto asseritamente mai acquisita al processo.

3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., violazione degli artt. 115, 116, 416 e 420 cod. proc. civ., in quanto la Corte d’appello avrebbe posto a fondamento della decisione la documentazione illegittimamente introdotta dal resistente tardivamente costituito e, in contrasto con quanto affermato dagli orientamenti giurisprudenziali di legittimità sul tema, avrebbe dato un valore probatorio ai contratti stipulati dal resistente con soggetti terzi, estranei al giudizio, nonostante il contenuto degli stessi non trovasse conferma e fosse smentito da elementi di fatto risultanti dalle testimonianze assunte.

4. Il secondo e il terzo motivo possono essere trattati congiuntamente, in considerazione dell’evidente connessione che li unisce.

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Il punto centrale della questione che essi pongono è, a parere di questo Collegio, quello della presunta tardività della documentazione prodotta dal Me.Et.

Come risulta dal ricorso, infatti, fu eccepito in primo grado il fatto che il convenuto si era costituito cinque giorni prima dell’udienza e non entro i dieci giorni previsti dall’art. 416 cod. proc. civ.; tale rilievo, peraltro, a quanto risulta dalla stessa parziale trascrizione dell’atto di appello contenuta all’interno del ricorso, è stato sì ribadito in appello, ma solo come argomentazione logica a supporto della questione, non fatto oggetto di uno specifico motivo di gravame (v. p. 16 del ricorso). Consegue da tale osservazione che la Corte d’appello, non essendo stata investita di un puntuale motivo relativo alla tardività della produzione, ben poteva considerare che la contestata documentazione fosse stata ritualmente prodotta e acquisita nel processo. Né può essere trascurato che la censura ha ad oggetto una documentazione che è stata genericamente indicata, per cui non è semplice individuarne l’oggetto.

Detto questo per rispondere alla censura di carattere processuale, la Corte osserva che il giudice d’appello ha utilizzato la documentazione contestata come dimostrazione del fatto che il proprietario aveva stipulato contratti di pascipascolo anche con altri soggetti e sullo stesso fondo, il che costituiva un indizio del fatto che non poteva esserci un contratto di affitto col solo Gu.Ro.

Questo argomento, però, è stato utilizzato dalla Corte d’appello – ed è la stessa sentenza a dirlo espressamente a p. 5 – come “importante elemento di natura indiziaria”, che va a corroborare una motivazione che, tutto sommato, poteva reggersi anche senza il riferimento ai documenti contestati.

In altri termini, il punto centrale della causa risiede nel fatto che l’attore avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza del contratto agrario, obiettivo che il Gu.Ro. non era riuscito a raggiungere tramite la prova orale. Ne consegue che tanto bastava per condurre al rigetto della domanda; per cui i due motivi di ricorso qui in esame sono privi di fondamento.

5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5) cod. proc. civ., violazione dell’art. 56 della legge 3 maggio 1982, n. 203, e dell’art. 2697 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale qualificato il contratto stipulato dalle parti del presente giudizio come contratto di vendita di erbe, in contraddizione con una serie di circostanze emerse nel corso del giudizio, da cui si sarebbe dovuta evincere l’esistenza di un contratto di affitto.

Osserva il ricorrente, dopo aver richiamato la distinzione tra il contratto di vendita di erbe e quello di affitto pascolativo, che, ai sensi dell’art. 56 cit., deve essere esclusa dall’applicazione della disciplina dell’affitto dei fondi rustici la vendita di erbe di durata inferiore a un anno quando si tratta di terreni non destinati al pascolo permanente, ma soggetti a rotazione agraria. Pertanto, nel rapporto per cui è causa, che, secondo la prospettazione di parte, sarebbe di durata ultrannuale ed avrebbe ad oggetto un fondo caratterizzato da unicità della coltura e dalla continuità temporale, i giudici di merito avrebbero dovuto inquadrare l’accordo tra Gu.Ro. ed Me.Et. quale affitto pascolativo. Vi sarebbe, infatti, un evidente contrasto tra la ricostruzione compiuta dalla Corte d’appello e la presenza di un rapporto di durata pluriennale, con corresponsione di un canone fisso non rapportata alla quantità di erba prodotta e gestione produttiva del bene da parte del ricorrente.

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5.1. Il motivo non è fondato.

Giova ricordare che l’art. 56 della legge n. 203 del 1982 esclude dall’applicazione delle norme della legge stessa una serie di contratti agrari, fra i quali quello di vendita delle erbe di durata inferiore ad un anno, sempre che abbiano ad oggetto terreni non destinati a pascolo permanente. La ragione, intuitiva, è che si tratta di rapporti segnati chiaramente dalla precarietà o comunque dalla stagionalità (v. la sentenza 10 febbraio 2005, n. 2716).

La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito in più occasioni la differenza esistente tra il contratto di affitto agrario e quello c.d. di vendita delle erbe (o pascipascolo); mentre l’affitto è caratterizzato dalla gestione produttiva del fondo da parte dell’affittuario, il contratto di vendita delle erbe consiste nell’apprensione di queste, rimanendo l’utilizzazione del fondo soltanto un mezzo per conseguire quel fine (v., in tal senso, già le sentenze 5 novembre 1987, n. 8182, e 18 febbraio 1997, n. 1507).

Ed è sempre necessario, perché possa configurarsi un contratto di affitto agrario, “che vi sia un’attività di “coltivazione” del fondo stesso, cioè idonea, quanto meno, a stimolare la produzione di erba, circostanza questa essenziale perché si abbia “coltivazione”” (così la sentenza 22 dicembre 2011, n. 28321).

Vi sono state anche pronunce le quali, ispirandosi a quella che è la ratio complessiva della legge n. 203 del 1982 – cioè privilegiare e favorire la posizione di chi coltiva il fondo, in vista del migliore armonioso sviluppo dell’attività agricola – hanno in alcuni casi manifestato una sorta di favor per il contratto di affitto agrario (v. le sentenze 17 gennaio 1987, n. 368, 24 gennaio 1992, n. 788, e 19 marzo 1997, n. 2422), precisando, però, che “la durata oltreannale del rapporto e l’uso esorbitante la semplice raccolta dell’erba valgono per individuare il tipo contrattuale e determinare la disciplina normativa, se sono espressione di attività negoziale, che intervenga in qualsiasi momento del rapporto, mentre si configurano come violazione degli obblighi contrattuali, se dipendono da iniziativa unilaterale” (così la citata sentenza n. 2422 del 1997). In altri termini, l’attività di coltivazione esorbitante rispetto a quella di mera raccolta delle erbe deve essere il frutto di un accordo tra le parti affinché il contratto possa davvero definirsi come affitto agrario.

Nel caso in esame, però, in base a quanto si è già detto a proposito dei precedenti motivi, è mancata la prova fondamentale, che l’odierno ricorrente era tenuto a fornire, dell’esistenza di un contratto di affitto anziché di un mero pascipascolo. Ed infatti, anche se la sentenza impugnata, con una probabile imprecisione, ha affermato che il Gu.Ro. era detentore di terreni agricoli del Me.Et. almeno dal 2011, il successivo dispiegarsi della motivazione ha chiarito – anche attraverso il richiamo alla sentenza del Tribunale – che il proprietario aveva stipulato altri contratti di pascipascolo negli anni successivi e sullo stesso terreno. Se così è, dunque, è palese che il Gu.Ro. non può aver detenuto in modo continuativo il terreno dal 2011 e non è titolare di un contratto di affitto agrario.

Ne consegue che anche il quarto motivo è da rigettare.

6. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

A tale esito segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, da distrarre in favore dell’avv. Ce.Al., che si è dichiarato antistatario.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali, per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n.228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto (Cass., sez. un., 20-02-2020, n. 4215).

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P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 3.500, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge, da distrarre in favore dell’avv. Ce.Al. antistatario.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, l’1 marzo 2024.

Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2024

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