Responsabilità dell’amministratore ed il principio del cd. business judgement rule

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|25 marzo 2024| n. 8069.

Responsabilità dell’amministratore ed il principio del cd. business judgement rule

In tema di responsabilità dell’amministratore per i danni cagionati alla società amministrata, il principio della insindacabilità del merito delle scelte di gestione (cd. business judgement rule), le quali possono eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società, non si applica in presenza di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell’iniziativa economica e, tantomeno, in caso di inequivoche violazioni di legge come, in particolare, nel caso di violazione di norme tributarie.

 

Ordinanza|25 marzo 2024| n. 8069. Responsabilità dell’amministratore ed il principio del cd. business judgement rule

Data udienza 8 marzo 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Societa’ – Di capitali – Societa’ per azioni (nozione, caratteri, distinzioni) – Organi sociali – Amministratori – Responsabilita’ – In genere responsabilità dell’amministratore di società – Insindacabilità del merito delle scelte di gestione – Contenuto – Limiti – Violazioni di norme tributarie – Esclusione.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo -Presidente
Dott. NAZZICONE Loredana -Relatore

Dott. FALABELLA Massimo -Consigliere

Dott. CAMPESE Eduardo -Consigliere

Dott. CATALLOZZI Paolo -Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11833/2020 R.G. proposto da:

TU.LU., elettivamente domiciliato in ROMA (…), presso lo studio dell’avvocato RO. PA. (omissis) che lo rappresenta e difende

– ricorrente, controricorrente incidentale –

contro

FALLIMENTO (…) Srl IN LIQUIDAZIONE, domiciliato in Città di Castello (PG), (…), presso lo studio dell’avvocato VO. MA. (omissis), che lo rappresenta e difende

– controricorrente –

nonché contro

Bi.Gi., elettivamente domiciliato in ROMA (…), presso lo studio dell’avvocato CA. IV. (omissis) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati LU. NA. (omissis)

– controricorrente e ricorrente incidentale –

nonché contro

Re.Lo., Re.Pi., Re.Al., Od.Ca., elett.te domiciliati in Perugia, (…), presso lo studio dell’avvocato FR. PA. (omissis), che li rappresenta e difende

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

nonché contro

(…) SOC COOP

– intimata –

avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO PERUGIA n. 639/2019 depositata il 12/10/2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 08/03/2024 dal Consigliere LOREDANA NAZZICONE.

Responsabilità dell’amministratore ed il principio del cd. business judgement rule

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Perugia con sentenza definitiva del 13 settembre 2017 condannò in solido Tu.Lu. e Bi.Gi., ex amministratori esecutivi della (…) Srl, al risarcimento del danno nella misura di Euro 1.267.181,00, oltre accessori, in favore del Fallimento della società, dichiarato dal Tribunale con sentenza n. 77 del 2012, mentre respinse la domanda proposta dal Bi.Gi. contro Re.Al., Re.Lo., Re.Pi. e Od.Ca., amministratori non esecutivi, dal medesimo chiamati in causa.

La Corte d’appello di Perugia, adìta con appello principale da Tu.Lu. e con appelli incidentali da Bi.Gi. e dal Fallimento, con sentenza del 12 ottobre 2019, n. 639, ha parzialmente riformato la decisione, pronunciando: i) la condanna del solo Bi.Gi. al risarcimento del danno in favore della società nella misura di Euro 149.844,65, oltre accessori, con riguardo a violazioni tributarie; ii) la condanna in solido di Tu.Lu., Bi.Gi., Re.Al., Re.Lo., Re.Pi. e Od.Ca. al risarcimento del danno nella misura di Euro 1.140.462,90, oltre accessori, così ridotta quella liquidata dal tribunale; iii) l’accertamento della quota interna di responsabilità nella misura del 40% ciascuno in capo a Tu.Lu. e Bi.Gi., e del 5% ciascuno per gli altri amministratori; iv) la condanna di Tu.Lu., Re.Al., Re.Lo., Re.Pi. e Od.Ca., ciascuno nei limiti della rispettiva quota, a tenere indenne Bi.Gi. di quanto da questi pagato alla curatela in eccedenza rispetto alla quota a suo carico.

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La corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che:

a) all’ex amministratore Bi.Gi. va imputato anche il danno derivante dalle violazioni tributarie commesse dalla società, determinabile negli interessi, spese e sanzioni portate da due avvisi di accertamento per omesso versamento dell’i.v.a., atto di mala gestio per il quale, a norma dell’art. 1218 c.c., la colpa si presume, ed essendo mancata la prova liberatoria al riguardo;

b) sussiste la responsabilità dei due ex amministratori esecutivi Tu.Lu. e Bi.Gi., i quali hanno ricoperto le cariche di amministratore delegato, presidente o vicepresidente negli anni tra il 2007 e il 2009, per le condotte di mala gestio, dalla corte territoriale individuate, in conformità alla sentenza di primo grado, nelle seguenti:

1) la falsa redazione del verbale del c.d.a. del 27 aprile 2009, in cui fu attestata la presenza dell’intero consiglio di amministrazione alla riunione, in cui invece erano presenti soltanto i due soggetti sottoscrittori del verbale, Tu.Lu. e Bi.Gi.; essendo una scrittura privata, la prova del falso ideologico non richiedeva la querela di falso, mentre l’onere della prova della sua verità incombeva sui convenuti, attesa la contestazione della presenza alla riunione da parte di tutti gli altri amministratori ed avendo il tribunale rilevato, anche sulla base degli accertamenti del c.t.u., che quello reso oggetto di tale riunione era un documento contabile e non un vero bilancio.

Peraltro, la predetta condotta di falso non è stata giudicata decisiva, essendo essenzialmente a loro imputabili, ai fini della ritenuta responsabilità:

2) l’omessa convocazione dell’assemblea dei soci nel termine di cui all’art. 2478-bis c.c. per l’approvazione del bilancio di esercizio chiuso al 31 dicembre 2008;

3) l’omessa convocazione dell’assemblea dei soci al fine dell’adozione delle misure previste dall’art. 2482-ter c.c., atteso che la situazione patrimoniale riportata nel documento oggetto della riunione predetta in data 27 aprile 2009 non corrispondeva affatto alla reale situazione societaria, avendo al contrario all’epoca la società già perdite superiori al terzo del capitale, che lo avevano ridotto al di sotto del limite legale, essendo andato esso interamente perduto; gli amministratori esecutivi Tu.Lu. e Bi.Gi. erano perfettamente in grado di rendersi conto che al passivo dovevano aggiungersi l’ammortamento ed i canoni di locazione, non volendo considerare la sovrastima delle rimanenze, da loro imputata ad altri soggetti: onde proprio l’evidente erroneità dell’omessa considerazione di quelle voci palesa che la responsabilità va ad essi imputata a titolo di dolo;

4) la prosecuzione dell’attività d’impresa nonostante la perdita del capitale sociale, avendo al riguardo i due amministratori esecutivi agito d’intesa fra loro e pur quando l’assemblea aveva nominato altri in tale ruolo, perché la prosecuzione della gestione non liquidatoria fu resa possibile proprio dalle violazioni ascritte ai sig.ri Tu.Lu. e Bi.Gi.;

5) ha ritenuto infondato l’assunto di Tu.Lu. di una responsabilità esclusiva in capo ai soci di maggioranza sig.ri Re.Al., Re.Lo., Re.Pi. e sig.ra Od.Ca., i quali avrebbero avuto il controllo di diritto e di fatto (quest’ultimo non provato) della società, in quanto si trattava di doveri gravanti per legge sugli amministratori, onde una dipendenza di questi dalle decisioni dei soci non li esonera da responsabilità;

6) ne deriva l’obbligo di Tu.Lu. e Bi.Gi., ex amministratori esecutivi della (…) Srl, di risarcire il danno cagionato alla società, con l’adozione in via equitativa del criterio sintetico della differenza dei netti patrimoniali, posta l’impossibilità della curatela, come accertato dal c.t.u., di individuare le singole operazioni incoerenti con i fini liquidatori; quell’importo peraltro, in via equitativa, è stato diminuito del 10%, in ragione del fatto che la stessa messa in liquidazione comporta una svalutazione dei beni aziendali; dunque, il quantum debeatur è stato ridotto da Euro 1.267.181,00 a Euro 1.140.462,90;

7) in ordine al riparto interno della responsabilità ed alle domande di regresso, le quote di responsabilità sono paritarie tra Tu.Lu. e Bi.Gi., dato che la violazione degli artt. 2478-bis e 2482-ter c.c. è avvenuta con il comune concorso e pari efficienza causale; anche gli altri amministratori non esecutivi, però, debbono rispondere di tali addebiti nei rapporti interni, in quanto non si tratta di compiti delegabili ed è loro direttamente imputabile la violazione di tali disposizioni a titolo di colpa; ha concluso, pertanto, statuendo l’addebito per il 40% ciascuno in capo ai due amministratori esecutivi e per il 5% ciascuno in capo agli amministratori non esecutivi.

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Avverso questa sentenza ha proposto ricorso in via principale Tu.Lu., sulla base di quattro motivi; hanno proposto ricorso incidentale Bi.Gi., sulla base di cinque motivi e gli intimati Re.Al. ed altri per due motivi, cui il ricorrente principale ha resistito con controricorso.

Resiste al ricorso di Tu.Lu. con controricorso la procedura.

Tu.Lu. e Bi.Gi. hanno depositato la memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorso principale di Tu.Lu. espone quattro motivi.

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 1218, 2055 e 2697 c.c., per non avere la corte d’appello reputato che, non essendo stata impugnata la deliberazione di cui al verbale del c.d.a. del 27 aprile 2009, questo deve reputarsi veritiero, non gravando tale prova sui convenuti, come invece dalla sentenza impugnata ritenuto. Inoltre, a tutto voler concedere, la responsabilità per la pretesa infedeltà del verbale e della situazione patrimoniale ivi allegata è dei soli amministratori Re.Al., Re.Lo., Re.Pi. e Od.Ca., che gestivano la contabilità e il magazzino, con conseguente necessaria diminuzione della percentuale di responsabilità in capo al ricorrente.

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Il motivo è inammissibile.

La sentenza impugnata ha affermato la falsità della redazione del verbale della riunione del c.d.a. del 27 aprile 2009, in cui fu attestata la presenza dell’intero consiglio di amministrazione e al quale, invece, parteciparono solo i due sottoscrittori del verbale, Tu.Lu. e Bi.Gi.; ha precisato che, essendo una scrittura privata, la prova del falso ideologico non richiedesse la querela di falso, mentre l’onere della prova della sua verità incombeva sui convenuti, attesa la contestazione della presenza alla riunione da parte di tutti gli altri amministratori ed avendo il tribunale rilevato, anche sulla base degli accertamenti del c.t.u., che quello oggetto di tale riunione era un documento contabile incompleto, non redatto affatto come un bilancio; ha concluso che, peraltro, la predetta condotta di falso non è affatto decisiva ai fini del riscontro della responsabilità gestoria, essendo invece loro imputabili altre condotte, quali l’omessa convocazione dell’assemblea dei soci nel termine di legge per l’approvazione del bilancio d’esercizio e per i provvedimenti necessari in presenza della perdita del capitale sociale, nonché la prosecuzione dell’attività imprenditoriale nonostante la perdita del capitale sociale.

Ne deriva che il motivo è inammissibile, in quanto si appunta su di una parte della motivazione concernente un addebito – la falsità del verbale – ritenuto dalla sentenza impugnata non costituente il fondamento dell’affermata responsabilità per i danni cagionati alla società.

1.2.- Con il secondo motivo, il ricorrente principale deduce l’omesso esame di fatto decisivo, consistente nella circostanza che, nella realtà, la famiglia Re.Al., Re.Lo., Re.Pi. aveva il controllo de iure e de facto della società ed essi erano componenti di maggioranza del c.d.a., mentre il ricorrente Tu.Lu. si era limitato ad attuare il piano industriale da quelli approvato, risultando in definitiva incontrovertibile la sua assoluta estraneità al dissesto della società. Il motivo è inammissibile, già in quanto interamente versato in fatto.

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1.3.- Con il terzo motivo, deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., perché l’esistenza di condotte di mala gestio della famiglia Re.Al., Re.Lo., Re.Pi. e dell’amministratrice Od.Ca. non era mai stata contestata, e ciò ne avrebbe dovuto fondare la condanna esclusiva.

Il motivo è inammissibile, in quanto dedotto in violazione dell’art. 366 c.p.c., per il principio consolidato secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, quando il motivo di impugnazione si fondi sul rilievo che la controparte avrebbe tenuto condotte processuali di non contestazione, per consentire alla corte di legittimità di prendere cognizione delle doglianze ad essa sottoposte, il ricorso, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., deve sia indicare la sede processuale di adduzione delle tesi ribadite o lamentate come disattese, sia contenere la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi (fra le tante, Cass. 20 gennaio 2021, n. 943; Cass. 13 gennaio 2021, n. 460; Cass. 12 ottobre 2017, n. 24064; Cass. 13 ottobre 2016, n. 20637; Cass. 9 agosto 2016, n. 16655; Cass. 18 luglio 2007, n. 15961).

1.4. – Con il quarto motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 2476, 2478-bis, 2482-ter c.c. e dell’art. 41 c.p., per non avere la corte d’appello liquidato il danno con riguardo a specifiche condotte gestorie inadempienti, ma col criterio dei c.d. netti patrimoniali.

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Il motivo è infondato.

1.4.1. – Com’è noto, dispone l’art. 2486, comma 1, c.c. che, al verificarsi di una causa di scioglimento della società e fino alla sua messa in liquidazione, gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, stabilendo il secondo comma che essi sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi, per atti o omissioni in violazione di quel precetto.

Va ribadito che, nel caso di omessa adozione delle misure previste dall’art. 2447 o 2482-ter c.c., a fronte di una perdita rilevante ai sensi di tali disposizioni, il danno può derivare dal compimento, da parte degli amministratori, di atti di gestione incompatibili con i vincoli di cui all’art. 2486, comma 1, c.c., i quali, come appena ricordato, pongono la finalità di conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale: onde colui (società o terzi) che agisce in giudizio con azione di risarcimento nei confronti degli amministratori di una società di capitali che abbiano compiuto, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, attività gestoria non avente finalità meramente conservativa del patrimonio sociale, ai sensi dell’art. 2486 c.c., ha l’onere di allegare e provare l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società ed il successivo compimento di atti gestori da parte degli amministratori, ma non è tenuto a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d’impresa e non abbiano una finalità liquidatoria; spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d’impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari per specifiche ragioni (Cass., sez. I, 27 aprile 2023, n. 11041; Cass., sez. I, 5 gennaio 2022, n. 198).

1.4.2. – In ordine alla liquidazione del danno da responsabilità per mala gestio degli amministratori di società, prevista dagli artt. 2392 ss. e 2476 c.c., trovano applicazione i principi generali contemplati dagli artt. 1223, 1226, 1227 e 2056 c.c.

Peraltro, sono stati da tempo elaborati in giurisprudenza alcuni criteri, che rispondono all’esigenza di costituire parametri per la liquidazione equitativa del danno, qualora esso, pur certo, sia di impossibile o difficile specifica determinazione, in ragione proprio delle peculiari vicende afferenti la vita societaria. Si è, quindi, ammessa la liquidazione del danno in via equitativa, secondo due principali criteri ausiliari.

Il primo è il criterio del c.d. deficit fallimentare o criterio differenziale – inteso quale differenza tra l’attivo acquisito valutato nella prospettiva di realizzo e il passivo accertato all’interno della procedura concorsuale – che può essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a tale criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto (così Cass., sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100; quindi, fra le altre, Cass., sez. I, 3 gennaio 2017, n. 38; Cass., sez. I, 1° febbraio 2018, n. 2500; Cass., sez. III, 7 novembre 2019, n. 28617, non mass.; Cass., sez. I, 6 novembre 2023, n. 30851, non mass.).

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In sostanza, in tali casi l’omissione totale della contabilità consentirà di utilizzare come parametro per la liquidazione del danno lo stesso sbilancio fallimentare, che, per la carenza suddetta, non può essere allora ricondotto ad attività svolta nell’interesse della società: una correlazione tra le condotte dell’organo amministrativo e il pregiudizio patrimoniale dato dall’intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate, da far pensare che proprio in ragione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza.

Il secondo è il criterio dei c.d. netti patrimoniali – inteso come confronto tra valori patrimoniali, dati dalla differenza tra il valore del patrimonio netto esistente al momento del verificarsi della causa di scioglimento e valore del patrimonio netto al momento della cessazione dalla carica o, se sussista sino a tale momento il nesso causale, sino all’apertura della procedura concorsuale – ed è legittimo, in presenza di una gestione della società in spregio dell’obbligo di cui all’art. 2449 c.c. nel vecchio testo e dell’attuale art. 2486 c.c., potendo allora il giudice ricorrere in via equitativa, nel caso di impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all’incompletezza dei dati contabili, o alla notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento o liquidazione giudiziale, al criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali; la condizione è che tale ricorso sia congruente con le circostanze del caso concreto, e che quindi sia stato dall’attore allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato e siano state specificate le ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta (così Cass., sez. I, 20 aprile 2017, n. 9983; quindi, es. Cass., sez. I, 30 settembre 2019, n. 24431, non mass.; Cass., sez. I, 23 giugno 2020, n. 12341, non mass.; Cass., sez. I, 18 luglio 2023, n. 20979, non mass.).

Da tempo, inoltre, in ordine a tale criterio si è adottato il correttivo di valutare le voci, eliminando l’abbattimento dei valori contabili che si sarebbe verificato comunque, qualora pure la società fosse stata tempestivamente posta in liquidazione, ossia rettificando i valori dei patrimoni netti applicando i principi contabili in tema di bilanci di liquidazione, in modo da rendere omogenee le poste comparate, noto essendo che il venir meno della continuità aziendale determina un cambiamento dei principi contabili da applicare nella rilevazione dei fatti aziendali, comportando l’emersione anticipata di costi, come per le immobilizzazioni. Pertanto, non è dato confondere la possibilità di liquidazione equitativa di un tale danno, nelle predette condizioni, con l’automatismo del distinto criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare.

Responsabilità dell’amministratore ed il principio del cd. business judgement rule

Orbene tali criteri, come ricordato dovuti alla elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, sono stati entrambi recepiti dal legislatore con l’art. 14, lett. e), legge delega 19 ottobre 2017, n. 155 e D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, il cui art. 378, comma 2 – in vigore dal 16 marzo 2019 – ha aggiunto il terzo comma dell’art. 2486 c.c., che contempla i due diversi criteri per la determinazione del danno: il danno risarcibile, quando sia accertata la responsabilità degli amministratori ed essi abbiano continuato la gestione sociale, si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si verifica una causa di scioglimento, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione; si ammette anche il secondo criterio, quando si sia aperta una procedura concorsuale e manchino le scritture contabili o, a causa della loro irregolare tenuta o per altre ragioni, i netti patrimoniali non possano essere determinati.

In entrambi i casi, si tratta di una valutazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c.

È stato precisato, infine, che il terzo comma dell’art. 2486 c.c. non ha immutato quanto alla condotta inadempiente dell’amministratore o al diritto al risarcimento del danno cagionato, ma ha invece codificato il meccanismo di liquidazione equitativa del pregiudizio, secondo i precedenti approdi della giurisprudenza, ritenuti legittimi da questa Corte. Si tratta, dunque, dell’indicazione di un metodo ai fini risarcitori, dovendosi confermare che destinatario della norma è proprio il giudice, il quale, ove sia dedotta (e provata) la fattispecie di responsabilità, deve utilizzare, secondo l’art. 2486, comma 3, c.c., i netti patrimoniali onde liquidare il danno, a meno che in causa non siano dedotti e individuati elementi di fatto legittimanti l’uso di un diverso criterio liquidatorio più aderente alla realtà del caso concreto. Ne deriva che, avendo tale contenuto, la norma si applica anche ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore, perché rivolta a stabilire un criterio valutativo del danno, rispetto a fattispecie integrate dall’accertata responsabilità degli amministratori per atti gestori non conservativi dell’integrità e del valore del capitale dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società (Cass., sez. I, 28 febbraio 2024, n. 5252).

1.4.3. – Nel caso di specie, la sentenza impugnata – dopo avere narrato, per quanto riguarda il rag. Tu.Lu., che egli era stato presidente ed amministratore delegato della società dal 28 maggio 2008 sino alla revoca, avvenuta in data 8 settembre 2009 – ha individuato le condotte illecite al medesimo ascrivibili, consistenti: a) nell’omessa convocazione dell’assemblea dei soci nel termine di cui all’art. 2478-bis c.c. per l’approvazione del bilancio di esercizio chiuso al 31 dicembre 2008, nonché per l’adozione delle misure ex art. 2482-ter c.c., atteso che la situazione patrimoniale riportata nel documento oggetto della riunione del c.d.a. dell’aprile 2009 non corrispondeva alla reale situazione societaria, avendo all’epoca la società già ridotto il capitale al di sotto del limite legale, situazione di cui egli avrebbe potuto e dovuto rendersi conto, almeno con riguardo all’omessa indicazione al passivo di quella situazione patrimoniale di alcune voti (ammortamento, canoni di locazione), tanto che la condotta è stata accertata dalla corte del merito come addirittura dolosa; b) nella prosecuzione dell’attività d’impresa nonostante la perdita del capitale sociale, essendosi la corte del merito fatta carico, altresì, di precisare che tale prosecuzione era in concreto imputabile anche ai due amministratori esecutivi, essendo stata cagionata la prosecuzione della gestione non liquidatoria proprio dalle predette violazioni.

Responsabilità dell’amministratore ed il principio del cd. business judgement rule

Quindi, ha confermato la correttezza del criterio del tribunale di liquidazione del danno in quello dato dalla differenza dei netti patrimoniali, precisando di avere accertato in concreto (mediante la c.t.u.) l’impossibilità, per le lacune riscontrate, di individuare le singole operazioni incoerenti con i fini liquidatori; quell’importo peraltro, in via equitativa, è stato diminuito del 10%, in ragione del fatto che la stessa messa in liquidazione comporta una svalutazione dei beni aziendali; dunque, il quantum debeatur è stato diminuito da Euro 1.267.181,00 a Euro 1.140.462,90.

Al riguardo, la corte territoriale non ha eluso l’accertamento dell’illecito gestorio, del danno e del nesso di causalità tra questo e la mala gestio dell’amministratore, né ha reputato di ricorrere ad una liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l’attivo e il passivo accertati in sede fallimentare; dunque, la sentenza impugnata ha ritenuto che il danno cagionato alla società in seguito alla violazione degli obblighi gestori sia stato correttamente liquidato dal primo giudice secondo il criterio sintetico della differenza dei netti patrimoniali, attesa la constatata impossibilità di individuare le singole operazioni gestorie incoerenti con i fini liquidatori ed in ragione del colpevole protrarsi di un’attività produttiva implicante l’assunzione di maggiori debiti della società.

In tal modo, la sentenza impugnata non si è posta in contrasto con i principi su richiamati, posto che la corte, nel disattendere il corrispondente motivo di gravame del Tu.Lu., ha evidenziato che il primo giudice aveva esaminato le condotte di mala gestio e le operazioni non conservative, rilevandone i fini estranei ad una gestione della società come volta alla mera conservazione della integrità del patrimonio sociale, e precisando come fosse complicato scindere partitamente le singole condotte non conservative, in tal modo individuando il danno tra il patrimonio negativo netto al 31.12.2008 e quello al 31.12.2009, attesa la possibilità di individuare il danno non solo con riferimento a singoli atti, ma anche nella sua proiezione dinamica lungo il periodo, alla stregua del criterio dei netti patrimoniali.

I giudici del merito in tal modo hanno dato atto della impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all’incompletezza dei dati contabili e soprattutto all’indicazione di dati non veritieri nel preteso “bilancio” riportato nel verbale del 27 aprile 2008, come esposto, dando così atto delle ragioni che hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.

Ogni altra critica attiene al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice del merito, cui il ricorrente intende opporre, sotto la formale rubrica di vizio di violazione di legge, una diversa valutazione: ciò non è ammesso, però, nel giudizio di legittimità, che non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (fra le tante, Cass. n. 21381 del 2006, Cass. n. 8758 del 2017, Cass., sez. un., n. 34476 del 2019).

2. – Il ricorso incidentale di Bi.Gi. espone cinque motivi.

2.1. – Con il primo motivo, si deduce l’omesso esame di fatto decisivo, con riguardo alla condanna del ricorrente per le omissioni tributarie, consistente nella circostanza che ogni profilo tributario e fiscale era gestito in via personale dall’amministratrice Od.Ca., cui è quindi imputabile la relativa responsabilità in via esclusiva, ben potendo comunque la società procedere ad impugnare tali avvisi, come non era avvenuto, ed inoltre la condotta corrispondeva ad una prassi aziendale ereditata dalla precedente gestione, secondo cui non si pagava l’i.v.a. rinviandola ad esercizi in cui la società sarebbe stata più florida, condotta che rientra nella business judgement rule.

Responsabilità dell’amministratore ed il principio del cd. business judgement rule

Laddove denuncia l’omesso esame, il motivo è inammissibile, in quanto ripropone un giudizio sul fatto.

Merita appena di rimarcare, quanto ai confini della business judgement rule, che questa certamente non copre gli illeciti, tributari o no: trattandosi di regola non più invocabile in presenza di una valutazione di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell’iniziativa economica (cfr. Cass. 6 febbraio 2023, n. 3552; Cass. 19 gennaio 2023, n. 1678; Cass. 21 dicembre 2022, n. 37440; Cass. 16 dicembre 2020, n. 28718; Cass. 22 ottobre 2020, n. 23171; Cass. 22 giugno 2017, n. 15470; Cass. 12 febbraio 2013, n. 3409; Cass. 28 aprile 1997, n. 3652), e, dunque, tantomeno in presenza di inequivoche violazioni di legge.

Certamente va confermato che all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società (per tutte, quanto al vecchio testo dell’art. 2392: Cass. n. 3652 del 1997, n. 3409 del 2013, n. 1783 del 2015).

Ma non è questo il caso nella vicenda concreta, in cui la corte d’appello ha ritenuto il ricorrente responsabile non per l’esito negativo dell’attività gestoria in sé considerata, ma per l’omesso versamento dell’i.v.a.: ciò vuol dire che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato è stato svolto non in rapporto alle scelte gestorie in quanto tali, ma all’omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive che (non solo normalmente, ma) finanche in base alla regola di condotta già perpetrata in passato dall’organo amministrativo si sarebbero dovute osservare ex ante. Nel caso di specie, dunque, la responsabilità dell’amministratore si ricollega alla violazione di doveri specifici, previsti dalla legge.

2.2. – Con il secondo motivo, deduce la violazione degli artt. 2388, comma 4, 2476, comma 1, 2697 c.c. e 115 c.p.c., per non avere la corte d’appello reputato che, non essendo stato impugnato il verbale del c.d.a. del 27 aprile 2009, questo doveva reputarsi veritiero, essendo ormai scaduto il termine di 90 giorni per l’impugnazione decorrente dalla data della deliberazione o, al più, da quando gli altri amministratori hanno conosciuto i documenti contabili della società, che erano sempre stati nella disponibilità esclusiva dei sig.ri Tu.Lu. e Bi.Gi., peraltro dovendo piuttosto porsi il dies a quo nella prima data, attesa la qualità di soci ed amministratori degli altri componenti del c.d.a., né potendo ormai più parlarsi di inesistenza della deliberazione. Avrebbe errato, inoltre, la corte del merito nel quantificare le quote di responsabilità degli amministratori, fondandosi su mere supposizioni e presunzioni, mentre i sig.ri Tu.Lu. e Bi.Gi. si erano verosimilmente uniformati ai criteri gestori precedenti e dovendo comunque accertarsi il nesso causale. Infine, ha errato la corte territoriale ad imputare la mala gestio al ricorrente a titolo di dolo, atteso che l’art. 2476 c.c. prevede soltanto una responsabilità per colpa gestoria.

Il motivo è interamente inammissibile o infondato in modo manifesto.

Della irrilevanza del falso verbale, ai fini della condanna operata, si è già detto, onde al riguardo il motivo è inammissibile.

Del pari inammissibile il motivo, laddove pretende un nuovo accertamento di fatto circa le singole responsabilità ed i poteri in concreto in capo agli amministratori Tu.Lu. e Bi.Gi.

Quanto alla interpretazione data all’art. 2476 c.c. dal ricorrente, secondo cui l’amministratore non risponderebbe per dolo, ma solo per colpa, essendo unicamente questa prevista dalla fattispecie menzionata, la suggestiva tesi è smentita dal criterio generale di imputazione della responsabilità (non solo) civile, che conosce sia l’intenzione, o dolo, sia la mancanza di diligenza, prudenza o perizia, ovvero l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline che qualificano la colpa (essendosi pure osservato come sussista consonanza degli aspetti morfologici individuati dalla regola generale di cui all’art. 43 c.p., pur accentuando gli artt. 1176 e 1218 c.c. i modelli standard di comportamento: cfr., fra le altre, Cass. 10 settembre 2019, n. 22515; Cass. 12 giugno 2019, n. 15859).

Responsabilità dell’amministratore ed il principio del cd. business judgement rule

2.3. – Con il terzo motivo, detto ricorrente incidentale deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., laddove la corte territoriale ha ritenuto, nell’applicare il criterio dei netti patrimoniali, di ridurre della percentuale del 10% l’importo relativo in via equitativa, e, tuttavia, essendo tale misura di riduzione troppo esigua.

Con il quarto motivo, deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2055 c.c., perché la corte d’appello non ha considerato che nessun dolo gli era imputabile, ed inoltre, lungi dal determinare diverse percentuali di responsabilità, avrebbe dovuto utilizzare il criterio presuntivo del pari concorso colposo e non ha considerato come, per vero, quasi tutta la responsabilità era del Tu.Lu. e degli altri amministratori.

Con il quinto motivo, censura la violazione o falsa applicazione dell’art. 92, comma 2, c.p.c., perché la corte d’appello ha posto a suo carico un importo eccessivo di spese processuali, pur avendole parzialmente compensate.

Si tratta di motivi che possono essere congiuntamente trattati, in quanto tutti affetti dal medesimo vizio di inammissibilità, pretendendo di riproporre in sede di legittimità il giudizio sul fatto.

Quanto alla censura di violazione dell’art. 92 c.p.c., il motivo si rivela inammissibile ex art. 360-bis, n. 1, c.p.c., essendo chiarito da tempo che il criterio della soccombenza, al fine di attribuire l’onere delle spese processuali, non si fraziona a seconda dell’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi definitivamente soccombente abbia conseguito un esito ad essa favorevole (e multis, Cass. n. 9785 del 2022; Cass. n. 13356 del 2021; Cass. n. 6369 del 2013; Cass. n. 406 del 2008; Cass. n. 15787 del 2000), mentre la denuncia di violazione dell’art. 91, comma 1, c.p.c., trova ingresso, in sede di legittimità, solo quando le spese siano poste a carico della parte integralmente vittoriosa (ex aliis, Cass. n. 15697 del 2023; Cass. n. 2984 del 2022; Cass. n. 26912 del 2020; Cass. n. 18128 del 2020), e tanto non è dato cogliere dal motivo all’esame; infine, la facoltà di disporre la compensazione tra le parti delle spese processuali rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in Cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (e multis, Cass. n. 15697 del 2023; Cass. n. 2984 del 2022; Cass. n. 26912 del 2020; Cass. n. 11329 del 2019; Cass. n. 11744 del 2004; Cass. n. 6756 del 2004; Cass. n. 10009 del 2003).

3. – I ricorrenti incidentali Re.Al., Re.Lo., Re.Pi. e Od.Ca. espongono due motivi.

Con il primo motivo, deducono l’omesso esame di fatto decisivo, consistente nella circostanza che essi non ricoprivano cariche gestorie operative nella società, come risulterebbe pure da due documenti in atti, da cui, nell’assunto, emerge che ad avere i poteri effettivi di gestione era il dr. Bi.Gi., insieme al rag. Tu.Lu., né potendosi più discorrere di responsabilità oggettiva degli amministratori non esecutivi e non avendo la corte territoriale considerato l’iter procedimentale necessario per l’approvazione del bilancio. Come emerge da tutte le prove in atti, agli amministratori privi di deleghe nulla può essere rimproverato.

Con il secondo motivo, deducono la violazione o falsa applicazione degli artt. 2381, commi 3 e 6, 2392, comma 2, 2423, comma 2, 2476, comma1, 2478-bis e 2482-ter c.c., per non avere la corte territoriale considerato i limitati compiti di mera valutazione in capo agli amministratori non esecutivi, le regole di redazione del bilancio, la possibilità di approvare il bilancio entro 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio quando, come nella specie, lo statuto lo preveda, nonché il fatto che i ricorrenti incidentali non furono mai informati dai delegati di alcunché, in quanto questi invece tenevano i libri sotto chiave, rendendo impossibile ai ricorrenti di accedervi e di essere adeguatamente informati dell’andamento della società.

Si tratta, anche in questo caso, di motivi che possono essere congiuntamente trattati in quanto inammissibili, intendendo riproporre il giudizio sul fatto in sede di legittimità.

Giova aggiungere peraltro, con riguardo alla pretesa di esonero da ogni responsabilità per essere essi amministratori non esecutivi, ai quali gli amministratori esecutivi, tenendo i libri sociali “sotto chiave”, avrebbero impedito i dovuti controlli, come ciò costituisca circostanza correttamente reputata dalla corte territoriale foriera, essa stessa, di un’ammissione di responsabilità: posto che la legge imponeva, già in forza dell’obbligo di vigilanza di cui all’art. 2392, comma 2, c.c., nel testo previgente, agli amministratori deleganti di ricercare adeguate informazioni, non potendosi ritenere esonerati da responsabilità gli amministratori che abbiano accolto passivamente il deficit informativo (Cass., sez. I, 29 dicembre 2017, n. 31204, non massimata; 13 giugno 2014, n. 13517 e 13518, in motiv.; 14 ottobre 2013, n. 23233; 27 aprile 2011, n. 9384; 11 novembre 2010, n. 22911).

Responsabilità dell’amministratore ed il principio del cd. business judgement rule

Il terzo sedicente motivo consiste nel mero auspicio della riforma del capo sulle spese, che la corte del merito aveva compensato, dunque un “non motivo”.

4. – Le spese seguono la soccombenza verso il fallimento del ricorrente Tu.Lu., al quale il Fallimento ha resistito con il suo controricorso, mentre si compensano le spese dei vari altri ricorrenti e controricorrenti fra di loro.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale ed i ricorsi incidentali.

Condanna TU.LU. al pagamento delle spese di lite in favore del FALLIMENTO (…) Srl IN LIQUIDAZIONE, liquidate in Euro 20.000,00, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge; compensa per intero le spese reciproche quanto alle altre parti del giudizio di legittimità.

Dichiara che, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principale e incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dell’8 marzo 2024.

Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2024.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

Le sentenze sono di pubblico dominio.

La diffusione dei provvedimenti giurisdizionali “costituisce fonte preziosa per lo studio e l’accrescimento della cultura giuridica e strumento indispensabile di controllo da parte dei cittadini dell’esercizio del potere giurisdizionale”.

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