La sussistenza di un danno alla salute e del nesso causale tra questo e l’ambiente di lavoro

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|12 febbraio 2024| n. 3822.

La sussistenza di un danno alla salute e del nesso causale tra questo e l’ambiente di lavoro

Nell’apprezzare la sussistenza di un danno alla salute e del nesso causale tra questo e l’ambiente di lavoro, il giudice non può prescindere da un esame critico delle risultanze della svolta c.t.u. medico legale per affidarsi esclusivamente a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche.

 

Ordinanza|12 febbraio 2024| n. 3822. La sussistenza di un danno alla salute e del nesso causale tra questo e l’ambiente di lavoro

Data udienza 21 novembre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Pubblico impiego – Danno alla salute – Nesso causale tra il danno e l’ambiente di lavoro – Esame critico delle risultanze della c.t.u. medico legale – Artt. 2087 e 2043 cc

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere

Dott. ZULIANI Andrea – Consigliere Rel.

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere

Dott. BUCONI Maria Lavinia – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6930/2018 R.G. proposto da

An.Pa., elettivamente domiciliata in Roma, via (…), presso lo studio dell’avv. Sv. Be., rappresentato e difeso dall’avv. Gi. Ru. Ka.

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato ope legis in Roma, (…), presso l’Avvocatura Generale dello Stato, An. BO. ed Em. FO.

– intimati –

avverso la sentenza n. 1352/2017, depositata il 29.8.2017 della Corte d’Appello di Milano;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21.11.2023 dal Consigliere Andrea Zuliani.

La sussistenza di un danno alla salute e del nesso causale tra questo e l’ambiente di lavoro

FATTI DI CAUSA

La ricorrente impugna la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado del Tribunale di Monza, rigettò la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni da lei subiti a causa di comportamenti vessatori posti in essere nei suoi confronti da personale del MIUR, alle cui dipendenze aveva prestato servizio quale assistente amministrativa.

Il Tribunale di Monza aveva ravvisato gli estremi di un’ipotesi di mobbing verticale e riconosciuto alla ricorrente il diritto al risarcimento dei danni alla salute e non patrimoniali diversi dal biologico, liquidati in complessivi Euro 16.000. La Corte d’Appello ha invece negato che vi fossero “elementi in base ai quali ritenere la sussistenza di singole condotte vessatorie…, né tantomeno per ritenere di essere in presenza di un’ipotesi di mobbing”.

Il ricorso per cassazione è articolato in tre motivi.

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Il MIUR è rimasto intimato, così come la dirigente scolastica e la collega della ricorrente cui quest’ultima imputa i comportamenti vessatori e che quindi ha convenuto in giudizio unitamente al Ministero.

La ricorrente ha depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, “ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione ed errata applicazione di norme di diritto”, che nella successiva illustrazione vengono indicate negli “articoli 2087 e 2043 c.c.”.

2. Il secondo motivo di ricorso è volto a censurare, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la “nullità della sentenza o del procedimento”. Con questo motivo la ricorrente, da un lato, si lamenta del rigetto della propria eccezione di inammissibilità dell’appello per genericità delle critiche mosse alla sentenza di primo grado; dall’altro lato, accusa la Corte territoriale di avere motivato in modo del tutto generico ed apodittico il rigetto della domanda di risarcimento del danno.

3. Infine, il terzo motivo denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. La ricorrente ravvisa nella motivazione della sentenza impugnata “una incomprensibile atomizzazione degli eventi”, che ripercorre, unitamente alle relative fonti di prova, invocandone una valutazione nel loro significato complessivo.

4. I tre motivi vanno esaminati congiuntamente perché convergono nel censurare un’errata interpretazione, da parte della Corte d’Appello, della nozione di mobbing quale fatto illecito e inadempimento contrattuale del datore di lavoro, così come essa è delineata nella giurisprudenza di legittimità in applicazione degli artt. 2043 e 2087 c.c.

4.1. In questi termini, il ricorso è fondato, perché nella sentenza impugnata effettivamente si riscontra una valutazione meramente atomistica dei singoli comportamenti indicati dalla ricorrente come rivelatori del mobbing e, a parte alcune dichiarazioni di ossequio formale al principio, manca del tutto una valutazione complessiva del quadro risultante dall’insieme di quei comportamenti. Inoltre, con riguardo alla posizione del datore di lavoro, manca completamente il doveroso esame, una volta escluso un comportamento attivo integrante il mobbing, della possibilità che dai medesimi fatti emerga comunque una responsabilità da inadempimento inattivo dell’obbligo di “adottare … tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale” della lavoratrice.

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4.2. Nella sentenza impugnata sono elencati i fatti che, secondo il giudice di primo grado, integrano, nel loro complesso, gli estremi della fattispecie del mobbing: il trasferimento all’ufficio archivi al rientro da un periodo di malattia; le condizioni fatiscenti dell’archivio; la rimozione della porta e delle veneziane dalle finestre dell’archivio; l’assegnazione a mansioni differenti e “piuttosto elementari e ripetitive”; le modalità di controllo dell’orario lavorativo; il diffuso modo di fare aggressivo e denigratorio della dirigente scolastica e della dirigente dei servizi generali e amministrativi. A tale elenco segue poi un esame analitico di ogni singolo comportamento, che tende ad escludere una illiceità individuale, ma non è completato dalla necessaria valutazione complessiva al fine di trarne un giudizio motivato sulla prospettata finalizzazione, sistematica e protratta nel tempo, alla persecuzione e all’isolamento della lavoratrice.

In alcuni casi l’illegittimità dei comportamenti non è nemmeno del tutto esclusa, ma soltanto minimizzata. Così avviene per la destinazione a rendere la prestazione lavorativa in un ambiente inadeguato (di cui la Corte territoriale si limita ad evidenziare la breve durata) e per gli atteggiamenti aggressivi della dirigente (apoditticamente declassati a “modi bruschi”, di cui la ricorrente avrebbe sofferto perché “particolarmente emotiva”). Il tutto senza alcun riferimento alle risultanze della c.t.u. medico – legale di cui pure si dà atto che era stata svolta in primo grado e valorizzata dal Tribunale nel giungere alla decisione di accoglimento riformata dalla Corte d’Appello.

4.3. Occorre allora ricordare e ribadire che, nell’accertamento del mobbing, “l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto…; a tal fine la legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata” (Cass. n. 26684/2017). In altri termini, così come una pluralità di comportamenti illegittimi non implica, di per sé, il mobbing, allo stesso modo la legittimità di ogni singolo comportamento non esclude l’intento vessatorio. Quella che non può mancare è la valutazione complessiva della pluralità di fatti allegati come integranti il mobbing, fermo restando che la prova dell’elemento soggettivo è facilitata nel caso di comportamenti illeciti ed è, al contrario, resa più ardua dalla riscontrata legittimità di tutti i comportamenti denunciati come unitariamente finalizzati alla persecuzione e all’isolamento del lavoratore.

Il giudice del merito non può escludere la sussistenza del mobbing con enunciati meramente assertivi, pervenendo a conclusioni disancorate dalle risultanze istruttorie costituite dalle prove dichiarative e dalla consulenza medico – legale acquisite in primo grado, con motivazione meramente figurativa e apparente (Cass. n. 16247/2018); il che è quanto avvenuto nel caso di specie, in mancanza di una valutazione sul significato complessivo dei fatti singolarmente esaminati e sulla base di un giudizio generico e atecnico sulla “sensibilità personale” della ricorrente che ha sostituito l’esame delle risultanze della c.t.u.

La sussistenza di un danno alla salute e del nesso causale tra questo e l’ambiente di lavoro

Come questa Corte ha già avuto modo di statuire, non rientrano tra le nozioni di fatto di comune esperienza “quelle valutazioni che, per la specificità scientifica e l’assenza di un’acquisita tangibilità oggettiva diffusa, necessitino, per essere formulate, di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi” (Cass. n. 15159/2019). Il giudice del merito può e deve apprezzare in modo critico le valutazioni del c.t.u. e può anche disattenderne motivatamente le conclusioni (solitamente sulla scorta di osservazioni di un c.t.p., ritenute più convincenti), ma non può prescindere totalmente dall’esame della consulenza e affidarsi a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche.

4.4. Anche nel caso in cui dovesse essere confermata l’assenza degli estremi del mobbing, non verrebbe comunque meno la necessità di valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute della ricorrente.

Infatti, “è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori…, lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 cod. civ.” (Cass. 3692/2023, che cita a sua volta Cass. n. 3291/2016).

Si deve aggiungere che “non integra violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. l’aver qualificato la fattispecie come straining mentre in ricorso si sia fatto riferimento al mobbing, in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio” (Cass. n. 18164/2018, che cita a sua volta Cass. nn. 3291/2016 e 7844/2018).

5. In definitiva, accolto il ricorso per quanto di ragione, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, per decidere, anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, attenendosi al seguente principio di diritto: “ai fini dell’accertamento dell’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve procedere alla valutazione complessiva, e non meramente atomistica, dei fatti allegati a sostegno della domanda, al fine di verificare la sussistenza sia dell’elemento oggettivo (pluralità continuata di comportamenti dannosi), che dell’elemento soggettivo (intendimento persecutorio nei confronti della vittima); in caso di accertata insussistenza del mobbing, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; nell’apprezzare la sussistenza di un danno alla salute e del nesso causale tra questo e l’ambiente di lavoro, il giudice non può prescindere da un esame critico delle risultanze della svolta c.t.u. medico legale per affidarsi esclusivamente a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche”.

6. Si dà atto che, in base all’esito del giudizio, non sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.

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P.Q.M.

La Corte:

accoglie il ricorso, per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, anche per decidere sulle spese legali del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 21 novembre 2023.

Depositata in Cancelleria il 12 febbraio 2024.

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