Consiglio di Stato, sezione quinta, Sentenza 10 giugno 2019, n. 3886.
La massima estrapolata:
La rinuncia al ricorso non formulata con le modalità indicate dall’art. 46 del r.d. n. 642 del 1907 può essere tuttavia considerata come manifestazione di sopravvenuto difetto d’interesse al gravame, avendo il valore di inequivoca attestazione in ordine al venir meno dell’interesse della parte ad una decisione di merito a essa favorevole, con conseguente improcedibilità dello stesso per sopravvenuta carenza d’interesse.
Sentenza 10 giugno 2019, n. 3886
Data udienza 6 giugno 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello numero di registro generale 2585 del 2010, proposto da
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Br. Pi. e Lu. Ma., con domicilio eletto presso lo studio del secondo in Roma, via (…);
contro
Br. De Pa., non costituito in giudizio;
nei confronti
De. Pa., non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia (sezione prima) n. 00079/2010, resa tra le parti.
Visto il ricorso in appello;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del 6 giugno 2019 il Cons. Anna Bottiglieri e udito per la parte l’avvocato Luigi Manzi;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con la sentenza n. 79/2010 segnata in epigrafe il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione prima, sul presupposto della “istanza di rinuncia al ricorso, per sopravvenuta carenza di interesse” depositata dal ricorrente, ha dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del gravame proposto da Br. De Pa. avverso il decreto n. 162/2006 del Sindaco del Comune di (omissis) di revoca della sua nomina quale assessore con delega alle materie del personale, organizzazione e sicurezza. Ha compensato le spese di lite tra il ricorrente e il predetto Comune, che si era costituito in resistenza nel relativo giudizio.
Il Comune di (omissis) ha appellato la sentenza domandandone la riforma nella parte in cui ha disposto la compensazione delle spese di giudizio.
Ha esposto al riguardo che, nel corso del giudizio di primo grado, non appena conosciuto l’atto di rinuncia al ricorso – che, pur essendo subordinato alla clausola di compensazione, non gli era stato notificato – ha chiesto con memoria depositata il 2 dicembre 2009 la condanna del ricorrente alla spese di lite, richiesta che ha poi ribadito nel corso dell’udienza di trattazione della controversia (nella quale il ricorrente non è comparso), manifestando la propria adesione solo alla rinuncia e non alla proposta clausola, come da relativo verbale.
Ha indi dedotto avverso la sentenza parzialmente appellata le censure di: I) Violazione dell’art. 46 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, Regolamento per la procedura innanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato; II) Violazione dell’art. 111, comma 6 della Costituzione, dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, dell’art. 92, comma 2, Cod. civ., eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione in punto di compensazione delle spese di giudizio; III) Violazione dell’art. 26, comma 7 della legge 7 dicembre 1971, n. 1034 (legge Tar) sulla forma del provvedimento scelto per la decisione del giudizio.
L’appellato non si è costituito in giudizio.
La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 6 giugno 2019.
2. Con il primo mezzo il Comune appellante lamenta la violazione da parte della sentenza gravata dell’art. 46 del r.d. n. 642 del 1907, applicabile ratione temporis, che prevede sia che la rinuncia al ricorso, ove non presentata oralmente in udienza, “dev’essere notificata alla controparte”, sia che “il rinunciante deve pagare le spese degli atti di procedura compiuti”.
La censura non è fondata.
2.1. La stessa parte appellante sottolinea che la rinuncia al ricorso non le è stata notificata.
Non sussistevano, pertanto, i presupposti formali tassativamente prescritti dall’art. 46 del r.d. n. 642 del 1907 per dare atto della rinunzia al gravame.
Indi, la norma invocata dall’appellante, e con essa la prescrizione relativa alle spese di lite, non poteva trovare applicazione, né, di fatto, l’ha trovata, atteso che il primo giudice non ha esitato la causa con la presa d’atto della rinunzia irritualmente formulata, bensì ha dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della controversia.
E la predetta conclusione è indenne da mende.
Nella vigenza della disposizione in parola, la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha infatti affermato che la rinuncia al ricorso, non formulata con le modalità indicate dall’art. 46 del r.d. n. 642 del 1907, può essere tuttavia considerata come manifestazione di sopravvenuto difetto d’interesse al gravame, avendo il valore di inequivoca attestazione in ordine al venir meno dell’interesse della parte ad una decisione di merito a essa favorevole, con conseguente improcedibilità dello stesso per sopravvenuta carenza d’interesse (Consiglio Stato, IV, 9 dicembre 2010, n. 8659; VI, 12 novembre 1993, n. 850; V, 6 aprile 1991, n. 447).
3. Con il secondo mezzo il Comune appellante lamenta il difetto assoluto di motivazione del capo della sentenza gravata in punto di compensazione delle spese di lite, che non rinviene neanche dall’impianto motivazionale della stessa, in violazione dell’art. 111 comma 6 della Costituzione, dell’art. 3 della l. 241 del 1990, dell’art. 92, comma 2, Cod. proc. civ. nonché della consolidata giurisprudenza civile e amministrativa formatasi sulla materia, violazione che ritiene tanto più grave in considerazione della espressa richiesta formulata nel giudizio di primo grado, e ribadita nel corso dell’udienza pubblica di trattazione, di condanna del ricorrente alle spese.
Anche tale censura non merita favorevole considerazione.
3.1. In linea generale, per consolidata giurisprudenza, il giudice amministrativo ha ampi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali ovvero per escluderla, con il solo limite del divieto di condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio. Tale discrezionalità è sindacabile in sede di appello nei soli limiti in cui la statuizione sulle spese possa ritenersi illogica o comunque errata, alla stregua dell’eventuale motivazione adottata, ovvero tenendo conto da un lato, in punto di diritto, del principio in base al quale, di regola, le spese seguono la soccombenza, e dall’altro, in punto di fatto, della vicenda e delle circostanze emergenti dal giudizio (tra tante, Cons. Stato, V, 25 luglio 2018, n. 4536; IV 9 ottobre 2012, n. 5253).
Si tratta, insomma, di un ampio potere valutativo del giudice, sostanzialmente sottratto al sindacato del giudice di appello, salva, come detto, l’ipotesi di statuizioni macroscopicamente irragionevoli, abnormi e illogiche, ravvisabili in caso di condanna alle spese della parte vittoriosa (Cons. Stato, V, 27 luglio 2017, n. 3706), potendo la compensazione essere disposta anche tenuto conto della condotta processuale delle parti (Cons. Stato, VI, 25 febbraio 1998, n. 198; VI, 12 dicembre 2011 n. 6497), e salva l’ipotesi di decisione manifestamente irrazionale, con una valutazione di merito non sindacabile in appello neppure per difetto di motivazione (tra altre, Cons. Stato, IV, 20 dicembre 2017, n. 5981; V, 17 luglio 2017, n. 3504; IV, 27 marzo 2017, n. 1338): i “giusti motivi” che consentono la deroga al criterio generale della soccombenza fissato dall’art. 92 Cod. proc. civ., ove non puntualmente specificati, possono infatti essere desumibili anche direttamente dal contesto della decisione (ex plurimis, Cons. Stato, III, 17 febbraio 2016, n. 643; VI, 5 dicembre 2013, n. 5789; IV, 28 novembre 2012, n. 6023). Sotto altro profilo, è stato rilevato che il principio della soccombenza riceve attenuazione nel processo amministrativo a fronte della complessità delle regole che governano l’azione amministrativa, soggette a mutamento nel tempo con effetto sulla graduazione degli interessi dalla stessa coinvolti, alla cui cura è preposto l’organo pubblico chiamato in giudizio (Cons. Stato, III, 4 luglio 2014 n. 3394).
3.1. In applicazione delle predette coordinate ermeneutiche, da cui non vi è ragione di discostarsi nella fattispecie, va in primo luogo escluso che la ribadita richiesta dell’Amministrazione comunale di condanna del ricorrente alle spese di lite possa aver inciso, riducendola, sulla latitudine della valutazione discrezionale che in materia è attribuita al giudice.
Egli restava, pertanto, libero di valutare tale richiesta, alla luce di tutti gli elementi della controversia.
Avuto poi riguardo a questi ultimi, la disposta compensazione delle spese di lite non risulta irrazionale, tenuto conto dell’oggetto del giudizio, costituito dalla revoca dell’incarico di assessore, atto sorretto da una valutazione di opportunità politico-amministrativa rimessa in via esclusiva al Sindaco o al Presidente della Provincia o della Regione in vista di varie evenienze (tra cui esigenze di carattere generale o di maggiore operosità o efficienza di specifici settori dell’Amministrazione; affievolimento del rapporto fiduciario sottostante) che costituisce frutto dell’esercizio di una ampia discrezionalità (Cons. Stato, V, 5 dicembre 2012, n. 6228; V, 10 luglio 2012, n. 4057), che la rende, salvo che per gli aspetti formali, “difficilmente sindacabile in sede di legittimità ” (così, Cons. Stato, V, 3 aprile 2004, n. 1042).
Nel relativo giudizio vengono quindi in rilievo elementi affatto peculiari, discendenti dalla connotazione di tale tipo di controversia e dalla natura dei contrapposti interessi fatti valere dalle parti, che, unitamente a quelli derivanti dalle caratteristiche specifiche del caso concreto, ben potevano essere apprezzati dal giudice in sede di regolamento delle spese.
4. Con l’ultimo mezzo l’appellante contesta la forma del provvedimento che ha deciso il giudizio di primo grado, ritenendo che nella fattispecie doveva trovare applicazione (ratione temporis) l’art. 26, comma 7 della l. n. 1034 del 1971, che stabilisce che “La rinuncia al ricorso, la cessazione della materia del contendere, l’estinzione del giudizio e la perenzione sono pronunciate, con decreto, dal presidente della sezione competente o da un magistrato da lui delegato”, disposizione che, ove applicata, gli avrebbe consentito la possibilità di difendere le proprie ragioni avverso la statuizione innanzi allo stesso Tribunale di primo grado, nella forma della opposizione, anziché mediante la proposizione dell’odierno appello.
La censura non è fondata.
4.1. Basti osservare, al riguardo: che, come precedentemente osservato, non veniva in rilievo, nella fattispecie, una rituale rinunzia al ricorso, trattandosi, invece, di dare atto della sopravvenuta carenza di interesse alla sua decisione e, indi, dell’improcedibilità dello stesso, esito per il quale il quarto comma dell’art. 26 della l. n. 1034 del 1971 prevede l’adozione della sentenza semplificata (“Nel caso in cui ravvisino la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, il tribunale amministrativo regionale e il Consiglio di Stato decidono con sentenza succintamente motivata”); che, come emerge dalla sentenza appellata, la “istanza di rinuncia al ricorso, per sopravvenuta carenza di interesse” era stata depositata dal ricorrente “in vista dell’udienza di merito”, che, quindi, era già stata fissata, sicché, anche sotto il profilo strettamente procedimentale, la causa andava definita mediante provvedimento collegiale.
5. L’appello va, per tutto quanto sopra, respinto.
Nulla per le spese, non essendosi costituita in giudizio la parte appellata.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello di cui in epigrafe, lo respinge.
Nulla per le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 6 giugno 2019 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Prosperi – Presidente FF
Valerio Perotti – Consigliere
Federico Di Matteo – Consigliere
Anna Bottiglieri – Consigliere, Estensore
Elena Quadri – Consigliere
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