Consiglio di Stato, Sezione quarta, Sentenza 1 luglio 2020, n. 4221.
La massima estrapolata:
Non è formula meramente ricognitiva dei principi che governano la causalità giuridica consacrati dall’art. 1223 c.c. ma costituisce autonoma espressione di una regola precettiva che fonda doveri comportamentali del creditore imperniati sul canone dell’auto-responsabilità, ha, infatti, adottato un’interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2 dell’art. 1227, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall’aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno).
Sentenza 1 luglio 2020, n. 4221
Data udienza 7 maggio 2020
Tag – parola chiave: Processo amministrativo – Azione risarcitoria – Proposizione in via autonoma – Art. 1227 cc – Applicazione – Espropriazione – Occupazione d’urgenza
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5269 del 2017, proposto dall’Ar. Pio So. Sa. Ro. di Al. pr. la Ch. Sa. Do., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. St. e Ni. Pr., con domicilio eletto presso lo studio Do. Na. in Roma, (…);
contro
La ASL di Bari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Ga. Ca., con domicilio eletto presso lo studio Al. Pl. in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Sezione Terza n. 375/2017, resa tra le parti per l’accertamento del diritto alla restituzione dei suoli oggetto di occupazione sine titulo, nonché al pagamento delle somme dovute a titolo di risarcimento del danno subito a seguito dell’illegittima occupazione dei suoli, oltre interessi e rivalutazione.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della ASL di Bari;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatrice nell’udienza pubblica del giorno 7 maggio 2020 il Cons. Emanuela Loria;
Dato atto che l’udienza si svolge ai sensi dell’art. 84, commi 5 e 6, del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. L’atto di appello indicato in epigrafe trae la sua origine dalla complessa vicenda contenziosa che ha accompagnato la realizzazione da parte della ASL di Bari del plesso Ospedaliero delle Murge su terreni che erano originariamente di proprietà, tra altri, dell’appellante Ar. Pi. So. de. Sa. Ro. (d’ora innanzi “Ar.”).
2. Quest’ultima adiva la Corte d’Appello di Bari per la determinazione dell’indennità di esproprio e della indennità di occupazione legittima radicando il giudizio allibrato al n. 1548/2001.
3. Nelle more del giudizio, in data 13 settembre 2002, veniva emesso il decreto di esproprio per cui la Corte d’Appello si pronunciava, con la sentenza n. 1103/2004, soltanto sull’indennità di occupazione legittima ai sensi dell’art. 19 L. 865/1971, pervenendo, sulla base dei valori indicati in un’apposita Consulenza tecnica d’ufficio, a determinare l’indennità in complessive lire 71.023.150, pari a euro 36.000 per ciascun anno di occupazione dal 23.9.1997 al 30.6.2002 (termine dell’occupazione d’urgenza originariamente fissato dal Sindaco di Altamura), oltre agli interessi di natura compensativa.
4. La AUSL di Bari proponeva ricorso in Cassazione e la Suprema Corte riconosceva la fondatezza del gravame sotto il profilo della non corretta qualificazione del suolo rinviando pertanto la causa alla Corte d’Appello.
5. L’Ar. riassumeva il giudizio dinanzi alla Corte d’Appello di Bari per la determinazione dell’indennità di occupazione d’urgenza.
6. Nelle more del giudizio, le parti addivenivano ad un accordo transattivo: la ASL avrebbe dovuto corrispondere all’Ar. la somma di euro 872.309,00, comprensivi anche del risarcimento per la perdita di proprietà del suolo, importo da cui avrebbero dovuto essere detratti euro 222.308,63, relativi alla sentenza n. 1103/2004 della Corte d’Appello già corrisposti dalla parte debitrice, di talché residuava l’importo di euro 650.000,00.
– a seguito del mancato accordo circa le modalità del versamento del saldo di euro 350.000,00 (dal che derivava un procedimento monitorio definito con sentenza n. 5494/2016 dal Tribunale di Bari che, in accoglimento della opposizione della ASL, stabiliva l’inefficacia dell’atto di transazione e revocava il decreto ingiuntivo), la Corte d’Appello emetteva la sentenza n. 2170/2014 con la quale:
a) rilevava che oggetto esclusivo del giudizio era l’indennità di occupazione legittima;
b) determinava in euro 464.464 l’indennità per la occupazione d’urgenza dei suoli e ordinava alla ASL di depositare detta somma presso la Cassa Depositi e Prestiti di Bari, oltre agli interessi legali dal 1.7.2002 fino al soddisfo;
c) compensava le spese di giudizio e poneva a carico di ciascuna parte il rimborso delle spese della Consulenza tecnica d’ufficio nella misura onnicomprensiva di euro 20.000,00.
7. A seguito di tali vicende contenziose instaurate dinanzi agli organi della giurisdizione civile, l’Ar., con ricorso R.G. n. 33/2011, adiva il T.A.R. per la Puglia per l’accertamento del diritto alla restituzione dei suoli oggetto di occupazione sine titulo, nonché al pagamento delle somme dovute a titolo di risarcimento del danno subito a seguito dell’illegittima occupazione dei suoli, oltre ad interessi e rivalutazione.
8. Con sentenza n. 375/2017 il gravame era respinto in adesione all’orientamento in materia di pregiudiziale amministrativa, per cui il decreto di esproprio pronunciato al di là dei termini della dichiarazione di pubblica utilità avrebbe dovuto essere impugnato nel termine di decadenza dal proprietario del bene ed essere dichiarato illegittimo per potersi poi addivenire al vaglio, da parte del Giudice, della domanda di condanna al risarcimento del danno.
9. Poiché l’impugnazione da parte dell’Ar. del decreto di esproprio non era avvenuta tempestivamente nell’ordinario termine dell’azione di annullamento, il T.A.R. stabiliva che il decreto di esproprio configurava un idoneo titolo giustificativo dell’occupazione del bene; ne conseguiva la impossibilità di valutare la antigiuridicità della condotta e conseguentemente di configurare la responsabilità aquiliana ai sensi dell’art. 2043 c.c. e di addivenire ad una pronuncia di condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno.
10. Con il ricorso in epigrafe l’Ar. impugnava la sentenza del T.A.R. del 6 aprile 2017 n. 375/2017 articolando i seguenti motivi di diritto:
A) Violazione di legge. Violazione del disposto di cui all’art. 30 del D.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, applicabile ratione temporis al ricorso in epigrafe.
L’appellante, richiamando l’evoluzione giurisprudenziale in merito alla questione della c.d. pregiudiziale amministrativa alla luce dell’entrata in vigore dell’art. 30 del D.lgs. 104/2010, ritiene che il giudice di primo grado abbia applicato supinamente una regola iuris ormai confliggente con il dettato normativo, quale chiaramente interpretato dal diritto vivente. Dagli artt. 30 ss. del D.lgs. cit. emergerebbe infatti come il Legislatore abbia adottato una soluzione intermedia tra la teoria della pregiudizialità amministrativa e quella dell’autonomia dei due rimedi, impugnatorio e risarcitorio, poiché il mancato tempestivo esercizio dell’azione impugnatoria deve essere valutato non come fatto preclusivo dell’azione risarcitoria bensì come condotta che può autorizzare il giudice a escludere il risarcimento o a ridurne l’importo nell’ambito di una valutazione complessiva del comportamento delle parti in causa.
B) Vizio di c.d. motivazione apparente. Travisamento dei fatti. Motivazione perplessa e incomprensibile.
Il Giudice a quo perviene alla conclusione che ” […] non essendo stata esperita la tutela impugnatoria, la legittimità dell’atto risulta insindacabile e, dunque, indimostrata l’antigiuridicità della condotta. Viene, in definitiva, a mancare l’illegittimità del comportamento dell’Amministrazione, requisito necessario perché possa configurarsi una sua responsabilità ex art. 2043 c.c., con la conseguente infondatezza della pretesa risarcitoria azionata in questa sede”.
Tale motivazione, intrinsecamente viziata nel proprio iter logico, presterebbe il fianco a diverse valutazioni critiche: in primo luogo, non sono percepibili le ragioni della decisione perché il ragionamento svolto è apodittico e perviene ad una conclusione tautologica non essendo stati valutati i fatti posti a fondamento della pretesa azionata; in secondo luogo, la conclusione per cui non sarebbe possibile configurare la responsabilità della Pubblica Amministrazione ex art. 2043 c.c. è carente di motivazione, non potendosi pervenire ad certa per incerta.
Infine l’appellante richiama gli elementi di quantificazione del diritto al risarcimento del danno sofferto già articolati in primo grado.
11. Si costituiva in giudizio la ASL Bari con memoria del 24.8.2017 con la quale chiedeva il rigetto dell’appello.
12. Alla pubblica udienza del 7 maggio 2020 l’appello è stato posto in decisione.
DIRITTO
L’appello è infondato e la sentenza impugnata del T.A.R. per la Puglia deve essere confermata nel suo esito, sia pure con motivazione in parte differente, per le ragioni di seguito esplicitate.
1. Con decreto n. 2226 del 16 luglio 1997 il Sindaco del comune di Altamura, su richiesta dell’AUSL di Bari 3, disponeva l’occupazione in via d’urgenza per la durata di cinque anni di suoli per complessivi mq. 128,789 di proprietà dell’Ar..
L’art. 2 del decreto prevedeva che l’occupazione d’urgenza, da effettuarsi entro tre mesi dalla data del decreto (e in effetti avvenuta in data 23 settembre 1997) non avrebbe dovuto protrarsi oltre il 30 giugno 2002, data entro la quale avrebbe dovuto essere completato il procedimento espropriativo intrapreso per l’acquisizione degli immobili individuati a mezzo dell’Accordo di Programma sottoscritto il 7 maggio 1996 tra la Regione Puglia, il Comune di (omissis) e l’AUSL Bari 3 ai fini della realizzazione del plesso ospedaliero.
2. Con decreto n. 1 del 13 settembre 2002, notificato il 16 settembre 2002, il Dirigente della Ripartizione Tecnica della Città di Altamura emetteva il decreto di esproprio definitivo e autorizzava l’occupazione permanente delle aree di proprietà dell’Ar..
Con lo stesso provvedimento il Comune dava atto che l’appellante non aveva accettato l’indennità di occupazione offerta dall’AUSL, ritenendo incongrua la quantificazione, e che comunque l’Azienda aveva attestato con quietanza il deposito presso la cassa Depositi e Prestiti del 22 agosto 2002 della somma pari a euro 100.879,52.
3. I suoli in questione erano accatastati in proprietà dell’AUSL di Bari sin dal 7 novembre 2002, con nota di trascrizione n. 34644 (all. n. 6 produzione della ASL nell’ambito del fascicolo primo grado).
4. L’Ar. insorgeva dinanzi al giudice civile, con i giudizi sopra richiamati, avverso la determinazione dell’indennità di occupazione legittima e per la quantificazione dell’indennità di esproprio.
5. A seguito della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Bari nel 2004 n. 1104 e in particolare in relazione al capo relativo alla declaratoria del difetto di giurisdizione in punto di risarcimento per occupazione illegittima, l’Ar., con ricorso depositato il 10 gennaio 2011, adiva il T.A.R. per la Puglia (R.G. 33/2011), chiedendo l’accertamento del diritto alla restituzione dei suoli siti tra il Comune di (omissis) e quello di (omissis) per un’estensione complessiva pari a mq. 128.789, con rimozione delle opere realizzate a spese della ASL nonché per la condanna della stessa (subentrata alla ex AUSL BA/3), alla restituzione delle aree oggetto di occupazione, nonché al pagamento delle somme dovute a titolo di risarcimento del danno subito a seguito dell’illegittima occupazione, oltre ad interessi e rivalutazione.
6. Con la sentenza in epigrafe, il T.A.R. per la Puglia ha respinto il ricorso sia sotto il profilo dell’accertamento del diritto alla restituzione dei suoli, per non essere stato impugnato il decreto di esproprio nel termine decadenziale dell’azione impugnatoria, sia sotto il profilo della delibazione della domanda di condanna al risarcimento del danno rimanendo indimostrata l’antigiuridicità della condotta dell’Amministrazione.
7. Con l’atto di appello viene contestato l’impianto del ragionamento del Giudice di prime cure partendo dall’assunto per cui nel processo amministrativo la scelta di non avvalersi della tutela impugnatoria non pregiudicherebbe l’ammissibilità dell’autonoma azione di danno ai sensi dell’art. 30 c.p.a. e dell’orientamento giurisprudenziale a cui sono approdato sia questo Consiglio di Stato sia la Corte di Cassazione (tra i molti pronunciamenti citati: Cons. Stato, Sez. V, 29 aprile 2016 n. 1649, Cass. SS.UU. ordd. 13 giugno 2006 nn. 13659 e 13660, Cons. Stato Ad. Plen. 9 febbraio 2006 n. 2 e 23 marzo 2001 n. 3; Sez. V, 27 aprile 2011 n. 2466).
8. Inoltre la sentenza conterrebbe una motivazione apparente e apodittica facendo derivare dalla insindacabilità del provvedimento non impugnato nel termine decadenziale anche il diniego di tutela risarcitoria.
9. Invero, con l’atto di appello, a differenza che con il ricorso di primo grado, non è riproposta la questione della inesistenza/nullità del provvedimento di espropriazione per essere stato emanato tardivamente e quindi in carenza di potere né è riproposta la censura relativa alla giuridica impossibilità di ricondurre il potere esercitato dall’amministrazione all’istituto dell’acquisizione sanante di cui all’art. 43 d.P.R. 327/2001 per essere stato espunto dall’ordinamento ad opera della decisione della Corte Costituzionale n. 293/2010.
Invero, nell’appello la parte richiama esclusivamente ai fini della quantificazione del diritto al risarcimento del danno (lettera C) le ragioni già diffusamente articolate in primo grado, senza tuttavia ripetere la richiesta di condanna alla restituzione dei beni in conseguenza della nullità del decreto di esproprio. Pertanto, sul punto n. 7.1. della sentenza impugnata che ha optato per la ricostruzione del potere esercitato come inquadrabile nella categoria della illegittimità e non della nullità deve ritenersi che si sia consolidato il giudicato interno.
10. In ogni caso, anche volendo esaminare detto profilo in relazione al potere officioso del giudice ex art. 31 comma 4 c.p.a. e alla luce della intervenuta sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2010 dichiarativa dell’incostituzionalità della norma attributiva del potere di acquisizione sanante, occorre considerare che i provvedimenti amministrativi, in ragione delle evidenti esigenze di certezza dell’ordinamento, sono assistiti da una presunzione di validità, superabile solo ove la contestazione intervenga nei ristretti termini decadenziali previsti dalla legge, e il giudice, in accoglimento della domanda pronunci sentenza demolitoria (l’illegittimità, invero, può essere accertata a fini risarcitori a prescindere dai termini di decadenza, ma tale accertamento non refluisce sulla validità del provvedimento).
In tal senso, il provvedimento amministrativo non impugnato ben può considerarsi atto di autoritativa ed esauriente regolazione del rapporto, non più controvertibile, finanche in ipotesi di sopravvenuta invalidità della legge che ne abbia fondato o disciplinato l’emanazione. La sopravvenuta caducazione della legge non vale dunque ad invalidare anche i provvedimenti amministrativi che ne abbiano fatto incontestata applicazione.
Tale affermazione è valida segnatamente per gli atti ad efficacia istantanea, qual è quello in esame, atto al quale non sopravvive un rapporto per essere la situazione giuridica del privato definitivamente e esaurientemente modificata giacché le nuove facoltà del proprietario pubblico discendono direttamente dal titolo e non dal rapporto con il soggetto espropriato.
In tale prospettiva va quindi affermato che il decreto di espropriazione in questione non può essere considerato nullo o inesistente poiché si tratta di un atto ad efficacia istantanea non tempestivamente impugnato e sul quale non si è riverberata la carenza di potere derivante dalla citata pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 43 d.P.R. 327/2001.
11. Venendo all’esame degli ulteriori profili, il Collegio ritiene che le ragioni addotte dall’appello sul punto della “pregiudizialità amministrativa” siano fondate poiché non è condivisibile la conclusione a cui perviene il ragionamento del Giudice di primo grado in ordine alla impossibilità di procedere, ai fini della delibazione della fondatezza della domanda risarcitoria, a verificare la legittimità del decreto di espropriazione a causa della sua mancata impugnativa nel termine decadenziale.
Tale orientamento sul rapporto tra azione di annullamento e azione risarcitoria era invero già stato superato anteriormente all’emanazione del D.lgs. 104/2010 (Cons. Stato Sez. VI, 19 giugno 2008 n. 3059; Sez. V, 22 maggio 2008 n. 2515), laddove era stato stabilito che la domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento non impugnato (o tardivamente impugnato) è ammissibile, ma è infondata nel merito in quanto la mancata impugnazione dell’atto fonte di danno consente a tale atto di operare in modo precettivo dettando la regola del caso concreto, autorizzando la produzione dei relativi effetti ed imponendone l’osservanza ed impedisce così che il danno possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dall’amministrazione in esecuzione dell’atto impugnato.
12. Come rilevato dalle Sentenze dell’Adunanza Plenarie n. 2 del 9 febbraio 2006 e, in particolare, dalla n. 3 del 13 marzo 2011, “sui termini del dibattito è destinata ad incidere, a regime, la disciplina dettata dal codice del processo amministrativo di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, entrato in vigore il 16 settembre 2010 (art. 2).
L’art. 30 del codice ha infatti previsto, ai fini che qui rilevano, che l’azione di condanna al risarcimento del danno può essere proposta in via autonoma (comma 1) entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo (comma 3, primo periodo).
La norma, da leggere in combinazione con il disposto del comma 4 dell’art. 7 – il cui inciso finale prevede la possibilità che le domande risarcitorie aventi ad oggetto il danno da lesione di interessi legittimi e di altri diritti patrimoniali consequenziali siano introdotte in via autonoma – sancisce, dunque, l’autonomia, sul versante processuale, della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio.
Detta autonomia è confermata, per un verso, dall’art. 34, comma 2, secondo periodo, che considera il giudizio risarcitorio quale eccezione al generale divieto, per il giudice amministrativo, di conoscere della legittimità di atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento; e, per altro verso, dal comma 3 dello stesso art. 34, che consente l’accertamento dell’illegittimità a fini meramente risarcitori allorquando la pronuncia costitutiva di annullamento non risulti più utile per il ricorrente.
Questo reticolo di norme consacra, in termini netti, la reciproca autonomia processuale tra i diversi sistemi di tutela, con l’affrancazione del modello risarcitorio dalla logica della necessaria “ancillarità ” e “sussidiarietà ” rispetto al paradigma caducatorio.”
Prosegue la Plenaria affermando che: “L’autonomia dell’azione si apprezza, con argomento a contrario, se si rileva che, alla stregua dell’inciso iniziale del comma 1 dell’art. 30, salvi i casi di giurisdizione esclusiva del giudizio amministrativo (segnatamente, con riferimento alle azioni di condanna a tutela di diritti soggettivi) ed i casi di cui al medesimo articolo (relativi proprio alle domande di risarcimento del danno ingiusto di cui ai successivi commi 2 e seguenti), la domanda di condanna può essere proposta solo contestualmente ad altra azione. Si ricava allora che mentre la domanda tesa ad una pronuncia che imponga l’adozione del provvedimento satisfattorio, non è ammissibile se non accompagnata dalla rituale e contestuale proposizione della domanda di annullamento del provvedimento negativo (o del rimedio avverso il silenzio ex art. 31), per converso la domanda risarcitoria è proponibile in via autonoma rispetto al rimedio caducatorio.”
13. Inoltre, quanto al regime temporale di applicazione delle disposizioni del D.lgs. 104/2010, occorre tener presente che la stessa Plenaria del 2011 ha preso posizione in ordine all’applicabilità delle norme del codice, entrato in vigore il 16 settembre 2010, ad una fattispecie e ad un giudizio risalenti ad epoca anteriore poiché la disciplina degli artt. 30 ss. “perviene a una soluzione convincente delle divergenze interpretative, estensibile anche a situazioni anteriori in quanto ricognitiva di principii evincibili dal sistema normativo antecedente all’entrata in vigore del codice”.
14. Pertanto, nel caso all’esame non sussiste la preclusione, rilevata dal Giudice di primo grado, a sindacare ai sensi dell’art. 3, comma 3, c.p.a. la legittimità del decreto di esproprio poiché la mancata impugnativa nel termine decadenziale, che inibisce la pronuncia di annullamento, non impedisce che possa esserne accertata incidentalmente la illegittimità a fini risarcitori in ordine alla qualificazione dell’antigiuridicità del comportamento dell’Amministrazione, a maggior ragione vertendosi in materia di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133 lett. f) c.p.a..
Come già più sopra rilevato, il decreto di esproprio è stato effettivamente emesso il 13 settembre 2002 e notificato alla proprietà il successivo 17 novembre, oltre il termine del 30 giugno 2002, fissato dall’art. 2 del provvedimento di occupazione d’urgenza quale termine finale dell’occupazione d’urgenza degli immobili; né del resto risulta contestata tra le parti tale circostanza.
15. Sotto questo profilo è indubbio (e anche incontestato tra le parti) che il decreto sia stato tardivamente emesso oltre il termine previsto e ciò colora di antigiuridicità il comportamento della Pubblica Amministrazione.
16. Venendo alla domanda risarcitoria, l’appellante chiede – in riforma del capo della sentenza appellata che ha stabilito la non spettanza del risarcimento del danno – il risarcimento del danno patrimoniale relativo al valore dei beni “espropriati” e ripercorre le vicende giudiziali e stragiudiziali che hanno interessato le parti così come dettagliate nella parte in “fatto”; in alternativa la maggiore e/o minore somma da determinarsi in sede giudiziale e in ogni caso la rivalutazione all’indice ISTAT e gli interessi legali a far data dalla scadenza del periodo di occupazione legittima.
In particolare, si richiede sostanzialmente di prendere a fondamento della richiesta risarcitoria il valore base dei terreni così come determinato nella relazione di Consulenza Tecnica d’ufficio disposta nel giudizio civile svoltosi in Corte d’Appello (R.G. n. 209/2011 definito con sentenza n. 2170/2014) ai fini della determinazione dell’indennità di occupazione d’urgenza e già utilizzato nella transazione di cui alla Delibera del direttore generale della ASL del 17.4.2013, rispetto alla quale si pronunciava in sede monitoria il Tribunale di Bari rilevando la sua inefficacia per problemi insorti tra le parti in relazione alle modalità di pagamento di quanto transatto.
La Relazione del Consulente Tecnico d’ufficio, richiamata dall’appellante, assumeva a valore base dei terreni quello di mercato ossia euro 10,33 a mq. corrispondente a lire 20.000 a mq., laddove nell’atto di transazione le parti concordavano per una diversa parametrazione del valore base dei suoli pari a euro 5,60 al mq.
17. Così delimitato il campo delle pretese risarcitorie, è necessario verificare se, a fronte dell’accertamento sia pure in via incidentale dell’antigiuridicità del decreto di esproprio per essere stato emesso con ritardo (13 settembre 2002, notificato il 17 novembre 2002) rispetto al termine del 30 giugno 2002, previsto dal decreto d’occupazione d’urgenza, siano sussistenti gli ulteriori requisiti indefettibili per potere accedere alla tutela risarcitoria ossia l’elemento soggettivo doloso o colposo dell’agente, che costituisce elemento necessario della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c. (ad eccezione dei casi tassativi di responsabilità oggettiva), nonché il rapporto causale tra la condotta posta in essere e il danno cagionato (danno evento).
18. In particolare, nell’esame del nesso causale occorre altresì valutare, ai sensi dell’art. 30, comma 3, D.lgs. 104/2010 e dell’art. 1227 c.c., quest’ultimo richiamato dall’art. 2056 c.c., tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e la loro diligenza nell’evitare i danni da risarcire, anche attraverso l’esperimento tempestivo dei mezzi di tutela previsti dall’ordinamento.
19. Così posta la questione, il Collegio stima che non sia ravvisabile l’elemento soggettivo, che funge normativamente da capo di imputazione della responsabilità, in capo alla ASL convenuta: in primo luogo e sotto un profilo “formal- procedimentale”, il decreto emesso tardivamente dal Dirigente del Comune di Altamura, competente ratione temporis, richiama nelle sue premesse “la nota in data 13.06.2002 al n. 16894 con la quale l’AUSL BA/3 3 ha chiesto l’emissione del decreto definitivo di esproprio”, elemento da cui si evince che la AUSL intimata ha richiesto all’autorità amministrativa formalmente competente l’emanazione del decreto di esproprio entro il termine del 30 giugno 2002; tale azione sollecitatoria già esclude sotto un primo aspetto che possa essere ascritto alla parte intimata un comportamento non diligente, connotato da dolo o colpa.
20. In secondo luogo, giova rilevare che nel prosieguo degli accadimenti e in particolare nell’atto di transazione sopra richiamato, le parti si sono confrontate sia in ordine alla determinazione dell’indennità da occupazione legittima sia sull’entità del risarcimento da perdita di proprietà del suolo e, giusto in esecuzione della transazione sopra richiamata e dichiarata successivamente inefficace, riguardante in misura prevalente il risarcimento da perdita di proprietà del suolo (il cui valore veniva concordemente parametrato a euro 5,60/mq.), la ASL versava a titolo di acconto euro 300.000,00 rispetto ai 650.000,00 rimanenti a seguito dello scomputo di euro 222.308,63 già versati in esecuzione della sentenza della Corte d’Appello di Bari n. 1104/2004.
Come più sopra riportato, la transazione non si concludeva, ma la somma versata a titolo di acconto non veniva restituita dall’Ar., tant’è che la sentenza della Corte d’Appello n. 2170/2014 afferma in una sorta di obiter: “Viceversa, lo scomputo di quanto già corrisposto anticipatamente resta una questione spettante ai rapporti puramente interni tra le due parti in causa ed esula dalla competenza di questa Corte adita ai sensi della L. 327/01 in opposizione alla stima, anche perché tale anticipazione si inserisce nella più ampia definizione del contenzioso riguardante anche (e soprattutto) il risarcimento da perdita di proprietà del suolo, che sicuramente è estraneo all’oggetto del presente giudizio”.
In sede di giudizio di ottemperanza della sentenza della Corte d’Appello n. 2170/2014, questo stesso Collegio, con la sentenza n. 4081/2020, ha affermato – negando la fondatezza della tesi della difesa della ASL che sosteneva che il credito dell’Ar. derivante dalla sentenza 2170/2014 si fosse integralmente estinto in relazione al versamento della suindicata somma in esecuzione della transazione – che tale passaggio della sentenza non poteva autorizzare a ritenere che potesse essere opposto in compensazione da parte dell’Amministrazione un credito estraneo alla sentenza da ottemperare (che riguardava l’indennità di legittima occupazione) poiché l’eventuale estinzione di poste creditorie e debitorie reciproche deve essere oggetto del giudizio di cognizione a monte dell’ottemperanza.
21. Il richiamo a tale ulteriore sub-vicenda contenziosa vale ad affermare che, a prescindere dal rilievo sopra richiamato della sentenza della Corte d’Appello e dalle vicende del giudizio di ottemperanza, il versamento effettuato dalla ASL in acconto della complessiva somma pattuita all’esito di una transazione non perfezionatasi a causa della discordanza tra le parti sulla forma di pagamento del saldo, connota il comportamento complessivo dell’Azienda Sanitaria come immune dall’elemento della colpa, per cui, sotto questo profilo, manca uno degli elementi per il riconoscimento della spettanza del risarcimento del danno da perdita della proprietà .
22. In ordine alla valutazione dell’incidenza sul nesso eziologico del contegno complessivo del creditore ai sensi dell’art. 30 c.p.a., il Collegio richiama l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria n. 3 del 23 marzo 2011, secondo il quale la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, sia ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un’interpretazione evolutiva del capoverso dell’articolo 1227 c.c.
In particolare la Sentenza della Plenaria, nel disegnare l’ambito dell’obbligazione mitigatoria del creditore nell’evitare il danno o nella riduzione del suo aggravamento afferma: “Come è noto, le regole di cui al primo e al secondo comma dell’art. 1227 disciplinano i due diversi segmenti del nesso causale in materia di illecito civile. In particolare, il comma 1, in combinato disposto con l’art. 1218 c.c., nell’affrontare il primo stadio della causalità (c.d. causalità materiale), inerente al rapporto tra condotta illecita (o inadempitiva) e danno-evento, valorizza il concorso di colpa del danneggiato come fattore che limita il risarcimento del danno-causato in parte dallo stesso danneggiato o dalle persone di cui questi risponde.
Il comma 2, invece, operando sui criteri di determinazione del danno-conseguenza ex art. 1223 c.c, regola il secondo stadio della causalità (c.d. causalità giuridica), relativo al nesso tra danno-evento (o evento-inadempimento contrattuale) alle conseguenze dannose da esso derivanti.
In questo quadro la norma introduce un giudizio basato sulla cd. causalità ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza. Si vuole, a questa stregua, circoscrivere il danno derivante dall’inadempimento entro i limiti che rappresentano una diretta conseguenza dell’altrui colpa.
Sul piano teleologico, la prescrizione, espressione del più generale principio di correttezza nei rapporti bilaterali, mira a prevenire comportamenti opportunistici che intendano trarre occasione di lucro da situazioni che hanno leso in modo marginale gli interessi dei destinatari tanto da non averli indotti ad attivarsi in modo adeguato onde prevenire o controllare l’evolversi degli eventi (cfr., per ulteriori applicazioni del principio di causalità ipotetica, artt. 1221, comma 1 e 1805, comma 2 c.c., 369 cod. nav.).
L’articolo 1227, capoverso, costituisce allora applicazione del più generale principio di esclusione della responsabilità ogni volta in cui si provi, in base ad un giudizio ipotetico più che strettamente causale, che il danno prodottosi non rappresenta una perdita patrimoniale per il creditore o per il danneggiato in quanto l’avrebbe egualmente subita o perché avrebbe potuto evitarla.
La giurisprudenza e la dottrina hanno nel tempo dilatato, in sede interpretativa, la portata ed i confini dell’impegno cooperativo gravante sul creditore vittima di un altrui comportamento illecito.
Risulta così superato il tradizionale indirizzo restrittivo secondo il quale il canone della “diligenza” di cui all’art. 1227, comma 2, imporrebbe il mero obbligo (negativo) del creditore di astenersi da comportamenti volti ad aggravare il danno, mentre esulerebbe dallo spettro degli sforzi esigibili la tenuta di condotte di tipo positivo sostanziantisi in un facere. La giurisprudenza più recente, muovendo dal presupposto che la disposizione in parola non è formula meramente ricognitiva dei principi che governano la causalità giuridica consacrati dall’art. 1223 c.c. ma costituisce autonoma espressione di una regola precettiva che fonda doveri comportamentali del creditore imperniati sul canone dell’auto-responsabilità, ha, infatti, adottato un’interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2 dell’art. 1227, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall’aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno).
Tale orientamento si fonda su una lettura dell’art. 1227, comma 2, alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost. Detto approccio ermeneutico è, quindi, ispirato da una lettura della struttura del rapporto obbligatorio in forza della quale, anche nella fase patologica dell’inadempimento, il creditore, ancorché vittima dell’illecito, è tenuto ad una condotta positiva (cd. controazione) tesa ad evitare o a ridurre il danno.”
Ed ancora: “Si deve allora preferire al tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sincadabilità delle condotte processuali ai sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., un più duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto.
7.2.3. Applicando detto criterio interpretativo, si deve allora ritenere che la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo possa essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno (in questo senso, Cons. Stato, sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124; sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 5183; sez. V, 31 dicembre 2007, n. 6908; sez. IV 3 maggio 2005, n. 2136).
Si deve, infatti, considerare che il ricorso per annullamento finalizzato a rimuovere la fonte del danno, pur non essendo più l’unica tutela esperibile, è il mezzo di cui l’ordinamento giuridico processuale dota i soggetti lesi da un provvedimento illegittimo proprio per evitare che quest’ultimo produca conseguenze dannose. Ne deriva che l’utilizzo del rimedio appropriato coniato dal legislatore proprio al fine di raggiungere gli obiettivi della tutela specifica delle posizioni incise e della prevenzione del danno possibile, costituisce, in linea di principio, condotta esigibile alla luce del dovere di solidale cooperazione di cui alla norma civilistica in esame.
Nella specie assume un ruolo decisivo la considerazione, di tipo comparativo, che la tecnica di tutela non praticata, quella di annullamento, se si eccettua il profilo del termine decadenziale, non implica costi ed impegno superiori a quelli richiesti per la tecnica di tutela risarcitoria, ed anzi si presenta più semplice e meno aleatoria nella misura in cui richiede il solo riscontro della presenza di un vizio di legittimità invalidante senza postulare la dimostrazione degli altri elementi invece necessari a fini risarcitori, quali l’elemento soggettivo, il duplice nesso eziologico nonché l’esistenza e la consistenza del danno risarcibile in base ai parametri di cui agli artt.1223 e seguenti del codice civile
Si deve allora reputare che la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile.”
23. Pertanto, il comportamento complessivo dell’Ar., se letto – come deve essere letto – alla stregua dei citati passaggi dell’Adunanza Plenaria, risulta essere stato elemento concausale del danno e comunque risulta non avere contribuito al suo non aggravamento e ciò per due elementi fattuali che appaiono chiaramente desumibili dalla ricostruzione documentale della complessa e articolata vicenda:
I. il non avere tempestivamente esperito l’azione di annullamento avverso gli atti della procedura espropriativa (come rilevato, sia pure per eccepire la inammissibilità della domanda risarcitoria, da parte del Giudice di prime cure) e in particolare avverso il decreto di esproprio, emesso con un ritardo minimale rispetto al termine stabilito nel decreto di occupazione d’urgenza, per cui l’iniziativa giurisdizionale, ove assistita da domanda di sospensione del provvedimento, avrebbe comportato anche la possibilità di una restituzione dei suoli ancora presumibilmente non irreversibilmente trasformati e comunque la mitigazione del danno; l’appellante ha infatti instaurato tempestivamente apposito contenzioso in sede civile anche a fini risarcitori (donde la declaratoria di incompetenza della sentenza n. 1104/2004 sul punto), ma non ha poi perseguito la via della richiesta di annullamento del decreto di esproprio in sede amministrativa; l’azione di annullamento al T.A.R. Puglia è stato instaurata nel 2011 (R.G. n. 33/2011), quando ormai lo stato dei beni era irreversibilmente trasformato;
II. la mancata ricezione del saldo previsto dall’atto transattivo del 16.4.2013 che pure era stato offerto dalla ASL – sia pure con modalità di pagamento ritenute dall’appellante non conformi a quanto concordato – secondo la ricostruzione operata dalla sentenza n. 5494/2016 del Tribunale di Bari, che ha revocato il decreto ingiuntivo n. 3471/2014 che pure l’Ar. aveva ottenuto per ottenere il saldo di quanto previsto nel contratto dichiarato inefficace, saldo che, si ribadisce, era comunque stato offerto dall’intimata ASL.
24. Conclusivamente il Collegio, valutato il comportamento complessivo delle parti ai sensi dell’art. 30 comma 3 c.p.a. e la sorte della liquidazione di alcuni elementi del credito in capo all’appellante che sono stati riconosciuti e liquidati sia pure a seguito della transazione non perfezionatasi, ritiene che la domanda risarcitoria sia da respingere.
25. Per le suesposte motivazioni l’appello deve essere respinto e la sentenza impugnata va riformata quanto alla sua motivazione.
26. Sussistono giuste ragioni per la compensazione delle spese di giudizio in relazione alla obiettiva difficoltà e complessità delle questioni esaminate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello (R.G. n. 5269/2017), come in epigrafe proposto, lo respinge nei sensi di cui in motivazione.
Compensa tra le parti le spese e gli onorari di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso dal Consiglio di Stato nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2020, svoltasi ai sensi dell’art. 84, commi 5 e 6, del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa, con l’intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi – Presidente
Daniela Di Carlo – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere
Alessandro Verrico – Consigliere
Emanuela Loria – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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