Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 9 giugno 2020, n. 3697.
La massima estrapolata:
Dalla lettura dell’art. 3, comma 1, lett. e), punto e.5), D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 è possibile trarre una nozione di “opera precaria”, la quale è fondata non sulle caratteristiche dei materiali utilizzati né sulle modalità di ancoraggio delle stesse al suolo quanto piuttosto sulle esigenze (di natura stabile o temporanea) che esse siano dirette a soddisfare.
Sentenza 9 giugno 2020, n. 3697
Data udienza 28 maggio 2020
Tag – parola chiave: Abusi edilizi – Sanzione della demolizione – Manufatti adibiti a stabile destinazione abitativa – Non configurabile legittimo affidamento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4142 del 2016, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Ag., presso il cui Studio è elettivamente domiciliata in Roma, via (…);
contro
il Comune di -OMISSIS-, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Al. Sc., Se. Vi. e Ma. Co. ed elettivamente domiciliato presso lo Studio del terzo dei suindicati avvocati in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, Sez. II, 11 marzo 2016 n. -OMISSIS-, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Vista la costituzione in giudizio del Comune di -OMISSIS- e i documenti prodotti;
Vista l’ordinanza della Sezione 13 luglio 2016 n. 2719 con la quale è stata accolta, in parte qua, la domanda cautelare presentata dalla appellante;
Esaminate le memorie prodotte dal comune appellato e gli ulteriori documenti depositati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 28 maggio 2020 il Cons. Stefano Toschei e tenuto conto che l’udienza si è svolta secondo la disciplina prevista dall’art. 84 comma 5, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020, n. 27, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario generale della Giustizia amministrativa;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. – Con ricorso in appello il signor -OMISSIS- ha chiesto a questo Consiglio la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, Sez. II, 11 marzo 2016 n. -OMISSIS-, con la quale è stato respinto il ricorso (R.g. n. 108/2016) dallo stesso proposto ai fini dell’annullamento dell’ordinanza n. 113 del 13 novembre 2015, emessa dal Comune di -OMISSIS-, con la quale è stata ingiunta la demolizione di alcune opere edilizie abusivamente eseguite su un appezzamento di terreno di proprietà dei signori -OMISSIS- e -OMISSIS- sito in -OMISSIS-, Via -OMISSIS-, distinto al C.T. al Fg. -OMISSIS- -OMISSIS-.
2. – Dalla documentazione depositata in atti, sia nel corso del primo che in occasione del secondo grado di giudizio, può ricostruirsi la vicenda contenziosa qui in esame, nei limiti di quanto è di “stretto” interesse per la decisione dell’appello, come segue:
– il signor -OMISSIS- è un cittadino extracomunitario di etnia “Rom”, proveniente dalla Bosnia-Herzegovina, che risiede in Italia dal 1987;
– sul terreno ove egli abita (distinto al C.T. al Fg. n. -OMISSIS- n. -OMISSIS-) gli agenti della Polizia municipale del Comune di -OMISSIS-, in data 16 ottobre 2015, erano state realizzate alcune opere abusive;
– per come risulta dalla relazione tecnica degli uffici comunali, prot. n. 31879 dell’11 novembre 2015, accompagnata da copiosa documentazione, anche fotografica e comprensiva della planimetria opere insistenti sul terreno e di una ripresa aerea dell’aprile 2011, gli interventi edilizi contestati come abusivi consistono nelle seguenti opere: 1) un basso fabbricato ad uso abitativo, con pareti perimetrali di tamponamento realizzate con pannellature prefabbricate coibentate struttura portante e orditura in tubolare di ferro e sovrastante manto di copertura realizzato, anch’essa in pannellatura coibentate di lamiera grecate delle seguenti dimensioni: ml. 6,00 x ml 3,00 x h/colmo ml 3,00; 2) un basso fabbricato ad uso abitativo, con pareti di tamponamenti e sovrastante manto di copertura realizzati con installazione di pannellature di lamiera grecata delle seguenti dimensioni: ml. 13,00 x ml. 3.00 x h/colmo ml 3,40-h/imposta ml. 3,00; 3) un basso fabbricato ad uso abitativo con pareti di tamponamenti e sovrastante manto di copertura realizzati con installazione di pannellature di lamiera grecata delle seguenti dimensioni: ml. 7,35 x ml. 7,00 x h/colmo ml. 3,30-h/imposta ml 2,50; 4) un basso fabbricato ad uso abitativo, con pareti di tamponamenti e sovrastante manto di copertura realizzati con installazione di pannellature di lamiera grecata delle seguenti dimensioni: ml. 7,00 x ml 6,00 x h/colmo ml. 3,30-h/imposta ml. 2,50; 5) un basso fabbricato in muratura a destinazione a servizi igienici e depositato il tutto su basamento in c.a., con tamponamenti perimetrali in muratura e sovrastante copertura in pannellature di lamiera grecata delle seguenti dimensioni: ml. 4,30 x ml 3,00 x h/colmo ml. 3,20-h/imposta ml. 2,30; 6) un forno con copertura e cappa in ferro sorretto da muratura laterale e basamento in mattoni avente i seguenti dimensionamenti: ml. 2,00x ml 1 00x h ml. 2,80; 7) una roulotte avente le dimensioni di ml. 2,00 x ml. 4,00 x h/colmo ml. 2,20;
– dagli accertamenti della Polizia municipale emergeva che sul terreno erano stati realizzati anche altri interventi edilizi abusivi nel passato e rispetto ai quali erano stati già assunti provvedimenti repressivo sanzionatori che si erano consolidati anche in seguito ad una infruttuosa, per i ricorrenti, contestazione giudiziaria;
– a quanto sopra seguiva l’adozione, da parte degli uffici del Comune di -OMISSIS-, dell’ordinanza di demolizione n. 113 del 13 novembre 2015 che veniva impugnata dall’odierno appellante dinanzi al TAR per il Piemonte;
– il signor -OMISSIS- chiedeva l’annullamento del predetto provvedimento in quanto illegittimo, essendo affetto da numerosi vizi quali: 1) insussistenza dell’abuso per falso presupposto, atteso che l’ordine di demolizione avrebbe ad oggetto case mobili, ad uso precario e temporaneo e come tale non sarebbe giustificato stante la loro irrilevanza urbanistica; 2) violazione degli artt. 3 e 7 l. 7 agosto 1990, n. 241, eccesso di potere per travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti, carenza e/o insufficienza di istruttoria e motivazione, contraddittorietà, illogicità e sviamento, perché il provvedimento sanzionatorio dispone la demolizione di opere risalenti nel tempo (tra tutte il fabbricato ad uso wc) senza tenere in alcun conto l’affidamento maturato circa la loro immodificabilità e permanenza; 3) violazione e falsa applicazione dell’art. 2 d.lgs. n. 215/2003, in attuazione della direttiva 2000/43/Ce e dell’art. 6) l. 26/1993 in relazione all’art. 8 della C.E.D.U., visto che, in considerazione dell’etnia di appartenenza del ricorrente (popolazione “zingara”), l’ordinanza costituirebbe una forma di discriminazione indiretta; 4) violazione e falsa applicazione dell’art. 31 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, anche con riferimento all’art. 42 Cost., dal momento che la sanzione dell’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime, in difetto di ottemperanza all’ordine demolitorio da parte del destinatario dello stesso, costituisce una misura eccedente rispetto al fine che si pone il legislatore con la norma di tutela del corretto assetto edilizio del territorio;
– il TAR per il Piemonte, con la sentenza 11 marzo 2016 n. -OMISSIS- ha ritenuto infondate le censure dedotte dalla ricorrente.
Il Tribunale amministrativo regionale, in primo luogo, ha ritenuto che le opere edilizie contestate come abusive necessitassero tutte del rilascio del previo titolo edilizio atteso che, da quanto emerge dalla documentazione prodotta dagli uffici comunali “non si tratta dunque di roulotte (se non in un caso) ma di manufatti chiaramente adibiti a stabile destinazione abitativa; per altro la stessa parte ricorrente, nelle proprie difese, allega di aver adibito e voler adibire l’area a propria stabile residenza” (così, testualmente, a pag. 3 della sentenza qui oggetto di appello)
Inoltre il primo giudice, con la suddetta sentenza, ha ritenuto che la ulteriore principale circostanza dedotta dal ricorrente, secondo il quale l’appartenenza all’etnia “Rom” debba essere valorizzata ai fini della disapplicazione delle disposizioni che l’ordinamento giuridico appronta per combattere il fenomeno dell’abusivismo edilizio, non può essere condivisa, con la conseguenza che, in costanza di un procedimento di repressione dell’abusivismo edilizio svolto correttamente, non si presentano fondate le censure dedotte al fine di dimostrare la illegittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata.
3. – Il signor -OMISSIS- chiede ora, nella sede d’appello, la riforma della sentenza sopra richiamata e l’accoglimento del ricorso di primo grado.
In particolare l’appellante, con alcuni complessi motivo di appello, ripropone le censure dedotte in primo grado nei confronti dell’ordinanza di demolizione adottata dal Comune di -OMISSIS-, (ri)formulando anche le questioni di costituzionalità prospettate in primo grado. A ciò aggiunge, in via preliminare, una ulteriore doglianza collegata alla contraddittoria indicazione proveniente dal giudice di primo grado che, nella sentenza qui oggetto di appello, per un verso pare accogliere l’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso, sollevata dal Comune di -OMISSIS-, per poi respingere nel merito la domanda annullatoria proposta dal signor -OMISSIS-. Se il Tribunale amministrativo regionale avesse ritenuto irrilevante l’eccezione preliminare sollevata dal comune resistente, il processo avrebbe seguito il rito “ordinario” e il giudice di primo grado avrebbe avuto agio di approfondire ancor di più le questioni di merito che sostenevano la domanda di annullamento del provvedimento sanzionatorio proposta dal il signor -OMISSIS-.
Nello specifico l’appello, per quanto concerne il merito della controversia, segue le seguenti traiettorie contestative con riferimento alla sentenza di primo grado nell’ambito della quale il primo giudice sarebbe incorso nei seguenti errori:
– ancora una volta, con riferimento a persone che appartengono ad etnie che seguono percorsi di vita ritenuti “non ordinari”, (in questo caso per la etnia “Rom”) ha affermato che non si può pretendere la disapplicazione della legge in proprio favore “invocando la propria origine etnica”, finendo così per confondere il significato di concetti opposti quali sono “abusivismo” e “discriminazione” e giungendo a non valorizzare, come sarebbe stato invece necessario, il diritto di un gruppo, universalmente riconosciuto come a forte rischio di esclusione, a non essere discriminato ulteriormente;
– non ha tenuto affatto in considerazione l’ormai normato principio che vieta la discriminazione indiretta, introdotto dal d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215, in attuazione della direttiva 2000/43/CE e prima ancora le prescrizioni a tutela della Popolazione Zingara contenute nella l.r. del Piemonte 10 giugno 1993, n. 26 che all’art. 6, comma 1, stabilisce che “Per favorire l’accesso alla casa da parte delle famiglie zingare che preferiscono scegliere la vita sedentaria, i Comuni, í loro Consorzi, le Comunità Montane adottano le opportune iniziative in tema di edilizia sovvenzionata e di assegnazione di alloggi di edilizia popolare e comunale sulla base della legislazione vigente e delle misure e degli interventi previsti dal Fondo Sociale Europeo, come pure secondo quanto specificatamente previsto dal Fondo di ristabilimento del Consiglio d’Europa”;
– non ha tenuto affatto in considerazione che la popolazione di etnia “Rom”, nel concreto, incontra insuperabili impedimenti nell’acquisto di terreni edificabili, a causa del pregiudizio che comunemente è ingiustamente nutrito nei confronti di tale etnia, di talché il primo giudice avrebbe dovuto rappresentarsi la impossibilità per la odierna appellante, di coltivare il proprio desiderio e quello della sua famiglia a sviluppare una vita “stanziale”, integrandosi il più possibile (come ha dimostrato di fare iscrivendo alle scuole i figli ed i nipoti, che le frequentano regolarmente) nella comunità del comune ove si trova il terreno nel quale sono state installate le opere;
– non ha preso in considerazione la ulteriore circostanza legata al fatto che il comune, oggi appellato, “tollerando l’abusivismo per moltissimo tempo -dato che i precedenti ordini di demolizione non sono mai stati eseguiti – ha ingenerato nell’appellante un incolpevole affidamento circa la possibilità di occupare il terreno di via Trento ed ivi istallare le proprie case su ruote, in attesa di un’offerta del Comune” (così, testualmente, a pag. 11 dell’atto di appello). Il legittimo affidamento riguarda in particolare il locale adibito a wc, che in epoca recente è stata soltanto “aggiustato” (così ancora, testualmente, a pag. 11 dell’atto di appello), senza poi dimenticare che anche per la realizzazione del “forno” non si comprendono le ragioni dell’intervento repressivo sanzionatorio da parte del comune;
– in modo del tutto anomalo il comune in questione, anche in violazione delle disposizioni legislative sopra richiamate, ha preferito reprimere l’attività asseritamente abusiva posta in essere dall’appellante, piuttosto che ricercare gli strumenti per poter sanare amministrativamente la situazione di difficoltà obiettiva nella quale versa il medesimo appellante, disponendo anche una sanzione sproporzionata, quale è quella dell’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime nel caso di mancata ottemperanza all’obbligo di demolizione, prevista da una norma che il primo giudice avrebbe dovuto restituire alla Corte costituzionale al fine di permettere al Giudice della leggi di effettuare su di essa il necessario vaglio di proporzionalità ed adeguatezza rispetto ai principi della Carta fondamentale nonché con riferimento alle altre disposizioni, anche di diritto internazionale, che tutelano le minoranze e il diritto di proprietà .
4. – Il Comune di -OMISSIS- si è costituito in giudizio sostenendo la infondatezza dei motivi di appello dedotti e richiamando l’attenzione sull’esercizio del potere vincolato correttamente rappresentato nel provvedimento sanzionatorio impugnato in primo grado e, altrettanto correttamente, ritenuto legittimo dal primo giudice.
Con ordinanza 13 luglio 2016 n. 2719 la Sezione ha accolto la domanda cautelare presentata dalla appellante nella sola parte riferita alla condanna alle spese di lite disposta in primo grado.
Il comune appellato ha prodotto memoria conclusiva, depositando anche il verbale di inottemperanza all’ordine di demolizione delle opere contestate come abusive, con la quale ha ribadito la propria posizione opposta a quella dell’appellante concludendo per la reiezione dell’appello perché infondato.
5. – In via preliminare il Collegio ritiene di non poter condividere la prima censura dedotta nel presente grado di appello dal signor -OMISSIS- in quanto, come è noto, nel processo d’appello la censura con la quale si denuncia la carenza dei presupposti per la definizione del giudizio di primo grado con sentenza in forma semplificata, oltre ad essere inammissibile se le parti, espressamente informate dell’intenzione del collegio giudicante di definire immediatamente nel merito la causa, nulla hanno obiettato, è anche infondata nel merito, atteso che la doglianza si sostanzia in una censura di difetto di motivazione della sentenza impugnata, che non rileva nel giudizio di appello, giacché l’effetto devolutivo di quest’ultimo consente al giudice di appello di provvedere, eventualmente integrando la motivazione mancante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19 marzo 2018, n. 1723).
Infatti, se una sentenza è resa in forma semplificata (con ciò supponendosi una più stringata motivazione in relazione all’esame e decisioni assunte sui motivi di ricorso), ciò rileva non sul piano formale, poiché è irrilevante la qualificazione testuale dell’atto del giudice, bensì sul piano sostanziale e cioè in ordine alla concreta sussistenza dei presupposti, quali la completezza di istruttoria e di contradditorio, nonché l’adeguatezza della motivazione; il che comporta la proposizione, in sede d’impugnazione, di un motivo che impinge il merito della decisione assunta dal primo giudice e non già di una censura meramente formale. In altri termini, nel processo d’appello la censura con la quale si denuncia la carenza dei presupposti per la definizione del giudizio di primo grado con sentenza in forma semplificata all’esito della camera di consiglio fissata dal Tribunale amministrativo regionale per la trattazione dell’incidente cautelare è inammissibile se le parti, espressamente informate dell’intenzione del collegio giudicante di definire immediatamente nel merito la causa, nulla hanno obiettato (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 7 febbraio 2018, n. 782).
Nel caso di specie, dalla lettura dell’atto di appello, non si rileva alcuna contestazione circa la mancata comunicazione alle parte dell’intendimento del Tribunale amministrativo regionale di definire con sentenza in forma semplificata il giudizio di primo grado pur trovandosi nella fase cautelare, per come è consentito espressamente dall’art. 60 c.p.a.. Ne deriva la infondatezza nel merito della prima censura dedotta dal signor -OMISSIS- nella presente sede di appello.
6. – Passando all’esame delle altre censure dedotte dall’appellante, giova rammentare che, come la Sezione ha già affermato in sentenze pronunciate nel corso degli ultimi anni, in occasione dell’esame di vicende analoghe a quella qui oggetto di appello (cfr., ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 10 agosto 2016 n. -OMISSIS-7), il cui contenuto è qui condiviso e rispetto alle quali il Collegio non individua la presenza di elementi innovativi che potrebbero superarne lo sviluppo logico-giuridico ed i conseguenti esiti, le norme a tutela del governo del territorio, nella parte in cui prescrivono con forza cogente che la realizzazione di determinati manufatti (quali sono quelli in esame) può avvenire solo previo rilascio di uno specifico titolo abilitativo conforme agli strumenti urbanistici e alla disciplina della materia, trovano generale applicazione, in disparte da questioni eventuali afferenti all’appartenenza etnica del soggetto che le ha violate.
Le norme poste dall’ordinamento a tutela del corretto assetto del territorio trovano, d’altronde, il loro presupposto proprio nei principi della Carta costituzionale, nel caso di specie contenuti negli artt. 3 e 42 Cost., (invocati dall’appellante, erroneamente ad avviso del Collegio, per sostenere l’illegittimità del provvedimento di demolizione adottato dal Comune di -OMISSIS- nei suoi confronti, sotto il profilo discriminatorio con riferimento alla etnia alla quale appartiene il medesimo appellante), che pretende un uniforme controllo dello ius aedificandi in tutto il territorio nazionale, indipendentemente dalla nazionalità ovvero dall’etnia di appartenenza del proprietario o del realizzatore dell’opera priva di titolo abilitativo. Da ciò deriva la conseguenza per cui “l’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del configgente interesse al mantenimento in loco della res, dove la repressione dell’abuso corrisponde per definizione all’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato. Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio” (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 6 settembre 2017 n. 4243).
7. – Nel caso di specie, tenuto conto della relazione predisposta dagli uffici comunali in occasione del sopralluogo effettuato nel 2015 e della copiosa documentazione fotografica, anche allegata al verbale di inottemperanza all’ordine di ripristinare lo stato dei luoghi, emerge con chiarezza che le opere più rilevanti contestate come abusive si compendiano in strutture simili a conteiner o a prefabbricati che in un caso presenta l’apparenza di una roulotte.
Orbene, in disparte la comunque significativa attestazione da parte dell’appellante, ripetutamente reiterata nel corso del primo grado di giudizio e qui ribadita in appello, circa l’intendimento di assicurarsi una soluzione abitativa stanziale, circostanza ovviamente apertamente contrastante con la eventuale configurazione delle opere come “mobili” o “precarie”.
Si osserva, infatti, che dalla lettura dell’art. 3, comma 1, lett. e), punto e.5) d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 è possibile trarre una nozione di “opera precaria”, la quale è fondata non sulle caratteristiche dei materiali utilizzati né sulle modalità di ancoraggio delle stesse al suolo quanto piuttosto sulle esigenze (di natura stabile o temporanea) che esse siano dirette a soddisfare.
Invero, la norma qualifica come “interventi di nuova costruzione” (come tali assoggettati al previo rilascio del titolo abilitativo), “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili (…)” (così la disposizione richiamata nella parte applicabile ratione temporis alla vicenda in questione, tenuto conto che la parte aggiunta con la l. 28 dicembre 2015, n. 221, recante il seguente periodo “ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore”, in ogni caso non troverebbe applicazione, ratione materiae, al caso in esame).
Dunque, la natura di opera “mobile” o “precaria” (non soggetta al titolo abilitativo) riposa non nelle caratteristiche costruttive ma piuttosto in un elemento di tipo funzionale, connesso al carattere dell’utilizzo della stessa.
Conseguentemente ci troviamo al cospetto di opere che necessitavano di titolo edilizio.
8. – Viene posta poi dall’appellante la questione relativa alla persistenza nel tempo delle opere ritenute abusive, in particolare del locale adibito a wc, peraltro in gran parte contestate nel corso di altri interventi di controllo in precedenza effettuati dalla Polizia municipale del Comune di -OMISSIS-.
Anche tale censura non può trovare accoglimento.
E’, infatti, ormai consolidato nella giurisprudenza (cfr., per tutte, Cons. Stato, Ad. pl., 17 ottobre 2017 n. 9) l’insegnamento secondo il quale il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso neanche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso ovvero il trasferimento del diritto di proprietà non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.
Non si comprende, quindi, sulla base di quale ragionamento giuridico si vorrebbe escludere dall’obbligo di osservanza di tali norme soggetti che, per la loro “appartenenza etnica”, avrebbero difficoltà a rinvenire una idonea sistemazione abitativa. Le doglianze nella specie dedotte in appello (come del resto quelle proposte in primo grado) si fondano tutte su considerazioni extragiuridiche che, in quanto tali, non possono, in alcun modo, trovare ingresso in un giudizio amministrativo di legittimità dell’azione amministrativa.
Né varrebbe sostenere che il Comune, chiedendo il rispetto di norme imperative poste a tutela dell’interesse pubblico, avrebbe adottato una misura discriminatoria. Tali norme, si ribadisce, sono indistintamente applicabili ai cittadini italiani e non, rappresentando l’attuazione e non la violazione del principio di uguaglianza.
9. – Con un ultimo profilo di contestazione l’appellante deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha rilevato il vizio di eccesso di potere e la violazione dell’art. 42 Cost. con riferimento al provvedimento sanzionatorio adottato dal Comune di -OMISSIS-, nella parte in cui il predetto comune ha disposto l’acquisizione dell’area al patrimonio pubblico, dovendosi al contrario ritenere che l’attribuzione di tale potere, in ragione delle esigenze di tutela delle minoranze etniche, sia sproporzionato rispetto al fine di interesse pubblico perseguito dall’amministrazione. Si assume, inoltre, che tale rimedio acquisitivo sarebbe in contrasto con le garanzie che, in questi casi, sono assicurate dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Va premesso che l’ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile del comune dell’immobile costruito in totale difformità o assenza della concessione si connota per la duplice funzione di sanzionare comportamenti illeciti e di prevenire perduranti effetti dannosi di essi e dunque dà luogo ad acquisto a titolo originario da parte dell’ente competente ad esercitare detto potere. La fattispecie è assimilabile al perimento del bene, giacché l’immobile abusivo è destinato al “perimento giuridico”, normalmente conseguente alla demolizione, salva la eccezionale acquisizione al patrimonio comunale, che lo trasforma irreversibilmente in res extra commercium sotto il profilo dei diritti del debitore e dei terzi che vantino diritti reali limitati sul bene (cfr., ad esempio, Cass. civ., Sez. VI, 6 ottobre 2017 n. 23453 e Sez. III, 26 gennaio 2006 n. 1693).
Dispone, invero, il comma 4 dell’articolo 31 d.P.R. 380/2001 che “L’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all’interessato, costituisce titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente”.
Di conseguenza, la giurisprudenza (cfr., in argomento, Cons. Stato, Sez. VI, 20 luglio 2018, n. 4418) ha avuto modo di affermare che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale ed è subordinato esclusivamente all’accertamento dell’inottemperanza e al decorso del termine di legge (novanta giorni) fissato per la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi.
Sulla compatibilità costituzionale della norma sanzionatoria (e sulla sua applicabilità addirittura nei confronti di chi, non autore delle realizzazioni abusive, sia coinvolto sol perché proprietario dell’area) la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di affermare che il sistema repressivo-sanzionatorio in materia di realizzazione di immobili abusivi non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base all’art. 117 Cost.). Trattasi, infatti, di sanzioni in senso improprio, non aventi carattere “personale” ma “reale”, essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio (cfr., Cons. Stato, Sez. IV, 10 luglio 2017 n. 3366 e Sez. VI, 15aprile 2015 n. 1927).
In conclusione, anche tale ultimo profilo di censura si presenta infondato in quanto, con riferimento all’art. 31 del c.d. Testo unico dell’edilizia, valgono le considerazioni sopra svolte in ordine alla sua generalizzata applicazione quale precetto che non può subire una deroga “amministrativa o giudiziale” alla luce delle esigenze di tutela prospettate dall’appellante. Né tale norma, come si è detto sopra, si pone in contrasto con le norme di diritto internazionale, genericamente evocate.
10. – Da ultimo va precisato che il Collegio non può confermare, nella sede di merito, quanto la Sezione aveva espresso con l’ordinanza 13 luglio 2016 n. 2719 che, in sede cautelare, aveva disposto la sospensione dell’efficacia della sentenza qui oggetto di appello sotto il limitato profilo della condanna alle spese della odierna parte appellante.
Quest’ultima, infatti, non ha formulato alcuno specifico motivo di appello nei confronti del capo della sentenza di primo grado nel quale si è disposto sulle spese di quel grado di giudizio, conseguentemente il Collegio, essendo passata in cosa giudicata la suddetta statuizione, in assenza di specifica formulazione del relativo motivo di appello non può rimuovere detta statuizione del giudice di primo grado, atteso che l’appello, sugli altri capi della sentenza di primo grado, non può trovare accoglimento e va respinto.
11. – Deriva, pertanto, da quanto sopra, la infondatezza dei motivi di appello dedotti, il che conduce alla reiezione del mezzo di gravame proposto e alla conferma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, Sez. II, 11 marzo 2016 n. -OMISSIS-, con la quale è stato respinto il ricorso di primo grado (R.g. n. 108/2016).
In ragione dei peculiari profili che sottendono al presente contenzioso, possono ritenersi sussistenti i presupposti per disporre la compensazione delle spese di lite (solo) del presente grado di giudizio, tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., per come richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a..
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello n. R.g. 4142/2016, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, Sez. II, 11 marzo 2016 n. -OMISSIS- e la reiezione del ricorso di primo grado (R.g. n. 108/2016).
Spese del grado di appello compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistono i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 nonché dell’art. 9, par. 1 e dell’art. 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellante signor -OMISSIS-.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 28 maggio 2020 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Andrea Pannone – Consigliere
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere
Stefano Toschei – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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