Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 22 gennaio 2019, n. 546.
La massima estrapolata:
L’iscrizione di un’associazione all’elenco delle professioni non regolamentate del Ministero dello Sviluppo economico non si fonda sulla verifica preventiva di sovrapposizioni con altre attività. La responsabilità per l’eventuale esercizio abusivo di una professione è, invece, posta su un piano diverso e riguarda la sfera dei singoli.
Sentenza 22 gennaio 2019, n. 546
Data udienza 8 febbraio 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1273 del 2016, proposto dall’As., in persona del rappresentante legale pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Mo. e Ro. Ri. ed elettivamente domiciliata presso il loro studio in Roma, viale (…);
contro
il Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, in persona del rappresentante legale pro tempore dottor Fu. Gi. che agisce anche in proprio, entrambi rappresentati e difesi dall’avvocato An. Fa., presso il cui studio sono elettivamente domiciliati in Roma, corso (…);
nei confronti
– C.N.C.P.-Coordinamento nazionale counsellor professionisti, in persona del rappresentante legale pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato M. Ca. Cu. ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato Pa. Ma. in Roma, via (…);
ed altri;
e con l’intervento di
ad adiuvandum:
– del R.E.I.C.O., Associazione professionale di counseling, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Fr. Pa., presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Roma, piazza (…);
ed altri;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo per il Lazio, Sez. III-ter, 17 novembre 2015 n. 13020, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’appellato Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi nonché dei controinteressati in appello C.N.C.P. ed altri;
Visto l’intervento del Consiglio dell’Ordine degli psicologi del Lazio, dell’A.I.Co e del R.E.I.C.O. nonché i documenti allegati;
Esaminate tutte le ulteriori memorie depositate;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2018 il Cons. Stefano Toschei e uditi per le parti gli avvocati Gi. Mo., An. Fa., Fr. Pa., Ma. Ca. Ca., Lu. Le. nonché l’avvocato dello Stato Al. Gi.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. – La questione sottoposta nel presente giudizio all’esame di questo Consiglio attiene alla impugnazione in sede di appello, proposta dall’As., della sentenza 17 novembre 2015 n. 13020, resa del Tribunale amministrativo per il Lazio, Sez. III-ter, con la quale il predetto Tribunale, ha accolto il ricorso proposto dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi (ed anche in proprio dal rappresentante legale del predetto Consiglio dottor Fu. Gi.) nei confronti del provvedimento con il quale il Ministero dello sviluppo economico (d’ora in poi, per brevità, MISE) aveva inserito l’As. nell’elenco delle associazioni professionali non regolamentate e delle loro forme aggregative di cui all’art. 2, comma 7, l. 24 gennaio 2013, n. 4, disponendo la cancellazione della predetta associazione dal surriferito elenco.
2. – Riferisce l’associazione appellante che il Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, in uno con il proprio presidente che si è proposto anch’egli come parte (cor)ricorrente in primo grado, hanno sostenuto dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio la illegittimità della inclusione dell’As. nell’elenco delle associazioni non regolamentate (o non organizzate o, meglio ancora, “prive di albo”), formato ai sensi della l. 24 gennaio 2013, n. 4. Il predetto Consiglio nazionale, dopo avere esposto le ragioni giuridiche in base alle quali doveva ritenersi fornito della necessaria legittimazione alla proposizione della domanda annullatoria nonché del corrispondente interesse ad agire, in quanto portatore degli interessi degli psicologi professionisti iscritti al relativo Albo, titolari del diritto di esercitare in via esclusiva tutte le attività che la legge istitutiva dell’ordinamento dello psico, l. 18 febbraio 1989, n. 56, riserva ad essi, oltre alla titolarità delle connesse prerogative, sosteneva (insieme con il suo presidente) che gli iscritti al predetto Albo sono pregiudicati dall’inserimento nel predetto elenco ministeriale dell’associazione che raccoglie i counselor, pur se le aree di intervento dello psico e del counselor non potrebbero considerarsi sovrapponibili, anche perché lo psico è un professionista che può iscriversi all’Albo solo dopo aver superato l’esame di Stato che consente di ottenere la relativa abilitazione ai laureati in psicologia che siano in possesso di adeguata documentazione attestante l’effettuazione di un tirocinio pratico secondo le modalità stabilite con decreto del Ministero dell’istruzione, mentre la qualifica di counselor si acquisisce semplicemente frequentando un corso triennale di formazione in ambito privato, senza alcuna provenienza accademica, la circostanza che ciò basti a consentire a costoro di svolgere attività molto vicine a quelle degli psicologi professionisti, fatta eccezione per la sola attività di diagnosi che non è contemplata espressamente tra quelle svolte dagli aderenti ad As., costituisce una seria messa in pericolo dell’esclusività delle funzioni dello psico professionista, creandosi una significativa confusione (anche da parte dell’utenza) sul reale perimetro operativo esistente (anche giuridicamente) tra le attività svolte dagli uni e dagli altri.
In particolare il Consiglio ricorrente, con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, lamentava la illegittimità del provvedimento di inserimento nell’elenco di cui alla l. 4/2013 e gli atti ad esso presupposti, segnatamente il parere del consiglio superiore della sanità del 12 luglio 2011, la nota del Ministero della salute prot. DGRPROF 0015693-P del 24 marzo 2014 e la nota del MISE prot. 0178309 del 31 ottobre 2013, perché affetti dai vizi di violazione di legge e di eccesso di potere, giacché il predetto ministero, nel consentire l’inserimento nell’elenco di cui alla l. 4/2013 dell’associazione dei counselor, ha palesemente violato l’art. 1, comma 2, della citata legge che esclude la possibilità di inserimento nell’elenco di coloro che esercitano professioni sanitarie, oltre ad aver violato il disposto dell’art. 2229 c.c.. Nello specifico veniva impugnato anche il suindicato parere espresso dal Consiglio superiore di sanità il 12 luglio 2011 e richiamato nel parere del Ministero della salute reso nel corso dell’istruttoria che ha condotto all’inserimento della suindicata associazione nell’elenco, per l’erronea individuazione del criterio distintivo tra la professione di psico e l’attività di counselor, anche con riferimento a precedenti pareri espressi dal Consiglio superiore i cui contenuti non erano compatibili con quanto affermato nel parere impugnato. Infine era contestato al ministero di non avere effettuato il necessario preventivo accertamento circa l’effettivo contenuto dell’attività svolta dagli associati dell’As..
3. – Il Tribunale amministrativo regionale, dopo avere dichiarato infondata l’eccezione di inammissibilità, per carenza di interesse a ricorrere, della domanda giudiziale proposta dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, giacché “In quanto ente esponenziale degli interessi degli iscritti all’ordine, il Consiglio Nazionale ha un interesse qualificato ad impugnare i provvedimenti lesivi delle attività che assume riservate alla categoria degli psicologi” (così, testualmente, a pag. 11 della sentenza qui oggetto di appello), accoglieva il ricorso ritenendo che (i virgolettati contengono stralci testuali dei passaggi più rilevanti della sentenza del giudice di prime cure nelle parti in cui traccia il percorso argomentativo di accoglimento della domanda del Consiglio nazionale ricorrente in primo grado):
– “L’As. ha definito l’attività dei propri associati, il counselling, come “attività il cui obiettivo è il miglioramento della qualità di vita del cliente, sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di autodeterminazione. Il counseling offre uno spazio di ascolto e di riflessione, nel quale esplorare difficoltà relative a processi evolutivi, fasi di transizione e stati di crisi e rinforzare capacità di scelta o di cambiamento. È un intervento che utilizza varie metodologie mutuate da diversi orientamenti teorici. Si rivolge al singolo, alle famiglie, a gruppi e istituzioni. Il Counseling può essere erogato in vari ambiti quali privato, sociale, scolastico, sanitario, aziendale”;
– la “descrizione dell’attività dell’As. non è contenuta nello Statuto, ma è stata fornita in un allegato alla dichiarazione trasmessa con la domanda di inserimento, essa è anche talmente generica da potere comprendere una vasta gamma di interventi sulla persona, sfuggendo ad una precisa identificazione dell’ambito in cui la stessa viene a sovrapporsi all’attività dello psico”;
– “è ulteriore indizio di difetto di istruttoria, che il Ministero resistente abbia ritenuto sufficiente una descrizione dell’attività dell’associazione predisposta per l’occasione e non contenuta nello statuto della stessa”;
– va poi considerata la inadeguatezza del parere del Consiglio superiore di sanità del 13 luglio 2011, che seppure non reso con specifico riferimento al procedimento oggetto di contenzioso è stato espressamente richiamato dal MISE nel percorso che ha condotto all’inserimento nell’elenco di AssoCounselor e che dunque può ben costituire elemento utile a delineare complessivamente il quadro patologico dell’intervento ministeriale impugnato, nella parte in cui contraddittoriamente per un verso ha individuato un ambito di attività del counselor che si sovrappone a quella dello psico junior per poi auspicare una migliore definizione, da parte dei ministeri competenti, della figura del counselor anche con riguardo alla individuazione dei percorsi formativi e delle modalità di controllo dell’effettivo svolgimento di tali percorsi. Di talché, anche sotto tale profilo, si accentua il difetto di valutazione procedimentale del MISE che avrebbe dovuto svolgere “una approfondita istruttoria in ordine alla tipologia di attività svolta, in ordine alla quale ha ritenuto sufficiente la descrizione della stessa fornita dal legale rappresentante nell’allegato 1 della domanda del 10 maggio 2013”;
– il suindicato vizio di difetto di istruttoria costituisce “Una omissione tanto più rilevante alla luce degli esiti negativi delle istruttorie eseguite su analoghe domande di altre associazioni di counseling (vedi nota del Ministero della Salute del 20 giugno 2013), nonché del fatto che l’attività svolta dai counselors dell’As. non è neanche contenuta nello Statuto”, tenuto conto che una attenta verifica sarebbe stata “dovuta per un corretto svolgimento dell’accertamento tecnico dei requisiti di cui all’art. 1 della legge 4/2013, in considerazione della evidente contiguità delle attività dichiarate con quella degli psicologi, ovvero di professionisti iscritti ad un albo ed operanti nell’area della salute”.
Nell’accogliere il ricorso proposto dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi il TAR per il Lazio, annullando i provvedimenti impugnati, disponeva “la cancellazione dell’Assocounselors dall’elenco delle attività non regolamentate di cui alla legge 4/2013”.
Da qui la proposizione dell’appello da parte dell’As..
4. – Nell’atto di appello la suddetta associazione, dopo avere tratteggiato il contenuto dello statuto associativo e rappresentato il ruolo del “counselor professionista”, anche tenendo conto della lettera 7 settembre 2015 dell’International Association for Counseling (TAC) nel quale sono indicati il ruolo e le attività di tali professionisti, ha sinteticamente ripercorso i fatti che hanno dato luogo al provvedimento di inserimento di As. nell’elenco di cui alla l. 4/2013.
Ha in particolare ricordato che la domanda, presentata in data 10 maggio 2013, è stata predisposta utilizzando il modello dichiarativo predisposto dal MISE nel quale è stato precisato che `il Counseling professionale è un’attività il cui obiettivo è il miglioramento delle qualità di vita del cliente, sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di autodeterminauine. Il Counseling offre uno spazio di ascolto e di riflessione, nel quale esplorare difficoltà relative a processi evolutivi, fasi di transazione e stati di crisi e rinforzare capacità di scelte o di cambiamento. E’ un intervento che utilizza varie metodologie mutate da diversi orientamenti teorici. Si rivolge al singolo, alle famiglie, a gruppi e istituzioni. Il counseling può essere erogato in vari ambiti, quali privato, sociale, scolastico, sanitario, aziendale” (così, testualmente, alle pagg. 4 e 5 dell’atto di appello). L’associazione appellante ha poi soggiunto che, una volta avviato il procedimento, i competenti uffici ministeriali hanno svolto un’approfondita istruttoria culminata nel coinvolgimento consultivo del Ministero della salute che, con la nota del 24 marzo 2014 (anch’essa oggetto del ricorso proposto in primo grado dal Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi), ha espresso il proprio favorevole avviso circa l’assenza di interferenze tra l’attività di counseling e quella di esercente una professione sanitaria in quanto “a seguito di un attento esame sia della documentazione trasmessa nonché il sito www.As..it dell’Associazione medesima questa Amministrazione non ha evidenziato interferenze con le attività riservate agli esercenti le professioni sanitarie. Nello specifico si rileva che sia la definizione di Consueling che gli atti caratterizzanti della professione medesima (pubblicati nel sito Internet), sono conformi a quanto stabilito dal Consiglio Superiore di Sanità con parere del 12 luglio 2011 che ha chiarito gli ambiti di competenza del Counselor” (così, testualmente, nel parere reso dal Ministero della salute e riprodotto a pag. 5 dell’atto di appello).
Ha quindi proposto una eccezione preliminare di difetto di giurisdizione nei confronti dell’atto di inclusione nell’elenco escludendo che esso possa avere natura giuridica di atto amministrativo, trattandosi pervero soltanto di una “pubblicazione” nel sito internet del MISE di un elenco delle associazioni professionali per come è previsto dall’art. 2, comma 7, l. 4/2013. L’iscrizione, quindi, costituiva un diritto soggettivo dell’associazione e dei suoi iscritti, senza che possano emergere riferimento ad un esercizio di potere autoritativo.
Quand’anche non si ritenesse sussistere l’eccepito difetto di giurisdizione, nel caso di specie difetterebbe l’interesse a ricorrere in capo al Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi ad impugnare il parere del Consiglio superiore di sanità del 12 luglio 2011 che è stato erroneamente annullato dalla sentenza qui oggetto di appello pur se trattavasi di un atto non di amministrazione attiva, ma di una mera “dichiarazione di scienza espressa dall’organo consultivo tecnico del Ministro della Salute” (così a pag. 9 dell’atto di appello), per ciò stesso privo di una autonomia funzionale direttamente contestabile dinanzi all’Autorità giudiziaria.
In conclusione, ad avviso dell’associazione appellante, “(…) nella vicenda si contrappongono, sotto le spoglie dell’azione impugnatoria, diritti soggettivi la cui occasione di conflitto è stata data dall’autodichiarazione di As. del 10 maggio 2013, cosicché la sede materiale della controversia è rappresentata dall’A.G.O., com’è tipico di tutte le vicende ove si fanno valere diritti inerenti all’ordinamento delle libere professioni” (così a pag. 10 dell’atto di appello).
5. – Nel formulare i motivi di appello l’As. ha in primo luogo segnalato l’errore nel quale è incorso il Tribunale amministrativo regionale nell’accogliere il ricorso proposto dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi sulla base della non veritiera circostanza secondo la quale la professione di counselor recasse sovrapposizione con la professione sanitaria e ciò senza avere prima proceduto ad effettuare alcuna adeguata valutazione di quanto l’associazione aveva dichiarato nell’istanza del 10 maggio 2013, tenuto conto che le disposizioni che definiscono la professione di psico e le relative attività (art. 1, l. 56/1989) non sono sovrapponibili con le precise indicazioni delle attività di counseling descritte nell’istanza presentata da As. al MISE.
In particolare se è vero che l’attività di counselorsi svolge “in vari ambiti, quali privato, sociale, scolastico, sanitario, aziendale”, nello stesso tempo è centrale precisare che il termine “sanitario” si riferisce all’ambiente ovvero al luogo dove si svolge tale attività e non al tipo di attività, in quanto costui “non svolge alcuna attività diagnostica, ma soltanto di ascolto, riflessione, invito alla riflessione orientamento nei confronti del fruitore della prestazione” (così a pag. 12 dell’atto di appello).
Differente è quindi l’attività, nello specifico tradotta nell’espressione dell’atto consulenziale, che differenzia infatti la consulenza prestata dal counselorda quella prestata dallo psico (anche nell’accezione del c.d. psico junior), atteso che il primo interviene in una fase di transizione o in una situazione di momentanea difficoltà per il singolo, al di fuori di un contesto clinico, che è proprio dell’attività dello psico professionista, il quale opera “attuando un percorso terapeutico tendente ad una più o meno profonda ristrutturazione della personalità del paziente, e non alla soluzione di una momentanea fase di confusione e smarrimento del singolo” (così a pag. 13 dell’atto di appello).
Da qui la richiesta di riforma della sentenza fatta oggetto di appello e, per l’effetto, la reiezione del ricorso proposto in primo grado dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi.
6. – Si sono costituiti in giudizio, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato il MISE ed il Ministero della salute.
7. – Si è costituito in giudizio anche il Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi contestando in via preliminare la fondatezza dell’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dall’associazione appellante, attesa la indubitabile connotazione in termini di esercizio di potere dell’atto di inclusione nell’elenco di cui all’art. 2, comma 7, l. 4/2013, rispetto al quale il potere di scrutinio giurisdizionale sulla legittimità dell’accoglimento della relativa istanza da parte del MISE non può che spettare al giudice amministrativo. Il Consiglio ha poi analiticamente contestato la fondatezza dei motivi di appello dedotti dall’As. chiedendo la reiezione del mezzo di gravame e la conferma della sentenza del TAR per il Lazio impugnata.
Si è costituito altresì in giudizio nella qualità di controinteressato nel processo di appello il C.N.C.P.-Coordinamento nazionale counsellor professionisti, interventuto ad opponendum nel processo di primo grado per sostenere la posizione ministeriale e difendere il provvedimento di iscrizione dell’As. nell’elenco di cui alla l. 4/2013. Anche nella sede di appello la suindicata associazione di counseling (fondata nel 2002 e che vede la iscrizione di circa 3000 professionisti che svolgono l’attività di counselors) reitera l’eccezione di difetto di legittimazione attiva del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi posto che l’inserimento di una associazione nell’elenco ha una valenza meramente informativa e quindi non determina alcun pregiudizio a carico di altre figure professionali. Il ridetto Comitato, comunque, contesta la fondatezza dei dedotti motivi di appello e chiede la conferma della sentenza di primo grado.
8. – E’ intervenuto nel giudizio di appello, a sostenere la correttezza e la non riformabilità della sentenza fatta oggetto di appello e quindi a contrastare il mezzo di gravame proposto dall’As., il Consiglio dell’Ordine degli psicologi del Lazio che aveva chiesto, in via stragiudiziale e prima dell’adozione della sentenza del TAR per il Lazio qui oggetto di appello, al MISE (nonché alla stessa associazione interessata) di sospendere As. dalla lista/elenco di cui alla l. 4/2013 atteso che, visionando il sito della predetta associazione, emergeva una descrizione dell’attività di counseling che costituisce una abusiva invasione della sfera delle attività professionali riservate agli psicologi, stante la presenza di informazioni contraddittorie circa i profili di attività svolte dal counseling e la facile sovrapposizione con la sfera di esercizio dell’attività professionale dello psico. Ne deriva che, a parte la infondatezza dei motivi di appello proposti dall’associazione appellante, ad avviso Consiglio dell’Ordine degli psicologi del Lazio la tutela degli psicologi professionisti può essere garantita solo dalla intangibilità di quanto declinato dal giudice di prime cure.
E’ invece intervenuto il REICO, Associazione professionale di counseling, per sostenere l’appello proposto dall’As. ribadendo che la asserita (dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi e dalla stessa sentenza appellata) sovrapposizione tra l’attività di psico e quella di counseling potrebbe cogliersi solo nel caso in cui, erroneamente, si utilizzino espressioni generiche per descrivere le due diverse professioni, ribadendo infine che l’attività svolta dal counselor non può essere confusa né ricompresa tra le attività sanitarie, “perché non riguarda in alcun modo le malattie mentali” (così, testualmente, a pag. 16 dell’atto di intervento).
E’ infine intervenuta l’Associazione italiana di counseling per sostenere l’appello di As..
Le parti hanno poi presentato memorie con le quali hanno puntualizzato i diversi ed opposti approcci alla questione controversa.
9. – In via preliminare può ritenersi infondata l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dall’Associazione appellante atteso che, in disparte il tipo di indagine preventiva che la legge impone al MISE in occasione dell’esame della domanda per l’inserimento nell’elenco di cui all’art. 2, comma 7, l. 4/2003, non può negarsi che l’esame della presenza dei presupposti indicati dal legislatore come necessari per l’accoglimento dell’istanza costituisca attività connotata da esercizio di potere autoritativo, rispetto alla quale la posizione soggettiva dell’associazione richiedente l’iscrizione non può che qualificarsi di interesse legittimo, con conseguente ed inevitabile sottoposizione al vaglio del giudice amministrativo della domanda giudiziale volta a contestare la legittimità della scelta ministeriale. In altri termini, anche in base alle indicazioni provenienti dall’esame letterale delle disposizioni recate dalla l. 4/2013, l’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 2, comma 7, della predetta legge, a conclusione del procedimento di valutazione della domanda presentata dall’associazione aspirante ad ottenere l’iscrizione, va qualificata a tutti gli effetti un provvedimento amministrativo.
Nello stesso tempo possono ritenersi infondate le reiterate eccezioni di inammissibilità del ricorso di primo grado proposto dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi per difetto di legittimazione attiva del predetto Consiglio, trattandosi all’evidenza dell’ente esponenziale che cura gli interessi degli iscritti quali professionisti psicologi.
Nello stesso tempo l’eccezione deve considerarsi infondata anche sotto il profilo del paventato difetto di interesse all’azione stante la sostenuta incapacità dell’inserimento di una associazione di counseling nell’elenco di cui alla l. 4/2013 a provocare conseguenze pregiudizievoli ai professionisti iscritti all’Ordine degli psicologi, posto che tale eventuale pericolo di conseguenze dannose costituisce l’essenza stessa del contenzioso avviato dinanzi al giudice amministrativo, avente ad oggetto non solo la legittimità dell’inserimento nell’elenco sotto il profilo del corretto svolgimento della relativa istruttoria ma anche (e soprattutto) se l’attività di counseling, per essere stata l’As. ammessa nell’elenco tenuto dal MISE, autorizza coloro che la svolgono ad invadere legittimamente l’attività regolamentata degli psicologi professionisti.
Di conseguenza non si rinvengono profili giuridici che impediscano sia la proposizione del ricorso dinanzi al giudice amministrativo nei confronti dell’atto di inserimento di As. nell’elenco di cui alla l. 4/2013 sia la proposizione dell’appello nei confronti della sentenza di primo grado che tale ricorso ha respinto, non vertendosi in tema di tutela di posizioni di diritto soggettivo.
10. – Ritiene il Collegio che lo scrutinio dell’appello debba muovere dalla esegesi delle espressioni contenute nelle disposizioni, rilevanti per la soluzione del presente contenzioso, contenute nella l. 14 gennaio 2013, n. 4.
L’art. 1 della predetta legge, recante l’oggetto e le definizioni degli istituti e delle espressioni contenute nel testo:
– al comma 1 specifica che il suo scopo è quello di disciplinare le professioni che non siano (già ) organizzate in ordini o collegi;
– e al comma 2 chiarisce che con l’espressione “professione non organizzata in ordini o collegi” il legislatore intende riferirsi alla “attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo, con esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell’art. 2229 del codice civile, delle professioni sanitarie e relative attività tipiche o riservate per legge e delle attività e dei mestieri artigianali, commerciali e di pubblico esercizio disciplinati da specifiche normative”;
All’art. 2, con riferimento alle associazioni alle quali sono iscritti i professionisti non organizzati in ordini o collegi, è poi stabilito che:
– (comma 1) “Coloro che esercitano la professione di cui all’art. 1, comma 2, possono costituire associazioni a carattere professionale di natura privatistica, fondate su base volontaria, senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva, con il fine di valorizzare le competenze degli associati e garantire il rispetto delle regole deontologiche, agevolando la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza”;
– posto che dette associazioni debbono predisporre statuti e clausole associative in modo da garantire “la trasparenza delle attività e degli assetti associativi, la dialettica democratica tra gli associati, l’osservanza dei principi deontologici, nonché una struttura organizzativa e tecnico-scientifica adeguata all’effettivo raggiungimento delle finalità dell’associazione” (comma 2), esse “promuovono, anche attraverso specifiche iniziative, la formazione permanente dei propri iscritti, adottano un codice di condotta ai sensi dell’art. 27-bis del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, vigilano sulla condotta professionale degli associati e stabiliscono le sanzioni disciplinari da irrogare agli associati per le violazioni del medesimo codice” (comma 3) ed ancora “promuovono forme di garanzia a tutela dell’utente, tra cui l’attivazione di uno sportello di riferimento per il cittadino consumatore, presso il quale i committenti delle prestazioni professionali possano rivolgersi in caso di contenzioso con i singoli professionisti, ai sensi dell’art. 27-ter del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, nonché ottenere informazioni relative all’attività professionale in generale e agli standard qualitativi da esse richiesti agli iscritti” (comma 4);
– “Alle associazioni sono vietati l’adozione e l’uso di denominazioni professionali relative a professioni organizzate in ordini o collegi” (comma 5);
– “Ai professionisti di cui all’art. 1, comma 2, anche se iscritti alle associazioni di cui al presente articolo, non è consentito l’esercizio delle attività professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti, salvo il caso in cui dimostrino il possesso dei requisiti previsti dalla legge e l’iscrizione al relativo albo professionale” (comma 6).
L’art. 2, comma 7, istituisce l’elenco delle associazioni alle quali sono iscritti i professionisti non organizzati in ordini o collegi, facendo riferimento anche alle “forme aggregative di associazioni”, alle quali è dedicato il successivo articolo 3 della legge, prescrivendo che “L’elenco delle associazioni professionali di cui al presente articolo e delle forme aggregative di cui all’art. 3 che dichiarano, con assunzione di responsabilità dei rispettivi rappresentanti legali, di essere in possesso dei requisiti ivi previsti e di rispettare, per quanto applicabili, le prescrizioni di cui agli articoli 5, 6 e 7 è pubblicato dal Ministero dello sviluppo economico nel proprio sito internet, unitamente agli elementi concernenti le notizie comunicate al medesimo Ministero ai sensi dell’art. 4, comma 1, della presente legge”.
11. – A questo punto va rammentato che il punctum dolens del contenzioso ora in esame in grado di appello, tenendo conto del tenore del ricorso proposto dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi e dalle valutazioni espresse dal giudice di primo grado nella sentenza qui fatta oggetto di appello, è costituito dalla legittimità della scelta operata dal MISE, sentito il Ministero della salute, di accogliere l’istanza presentata da As. volta ad ottenere la iscrizione nell’elenco di cui all’appena citato art. 2, comma 7, l. 4/2013.
In altri termini va fin da subito specificato che sia l’oggetto del contenzioso sia, inevitabilmente (nel rispetto del principio del chiesto e pronunciato sul quale fonda l’esercizio del potere giudiziario da parte del giudice amministrativo), il contenuto della presente decisione nel grado di appello sono circoscritti e limitati alla valutazione della legittimità o meno dell’inclusione della predetta associazione nell’elenco tenuto dal MISE che raccoglie le associazioni delle professioni che non siano (già ) organizzate in ordini o collegi, non potendosi anche (ed ulteriormente, rectius ultroneamente) estendersi ad esprimere considerazioni circa la legittimità dell’attività di counseling e la sovrapponibilità o meno, nell’esercizio effettivo della professione di counseling, con l’attività propria dello psico professionale, costituendo semmai un siffatto comportamento territorio tipicamente appropriato alla irrogazione delle sanzioni previste dall’art. 10 l. 4/2013, ma non condizionante la iscrizione nell’elenco di cui all’art. 2, comma 7, della stessa legge.
Perimetrato nel modo di cui sopra il petitum sostanziale della controversia giudiziale qui in esame nel grado di appello, si conferma quanto più volte espresso negli atti processuali già nel primo grado di giudizio in merito alla non limpida ed immediata percepibilità degli obiettivi che il legislatore si è voluto porre con il varo della l. 4/2013. Ciò che però può percepirsi indubitabilmente è la ratio dell’intervento legislativo che pare concentrarsi sull’esigenza che professionisti che svolgano attività non riconducibili a quelle organizzate in ordini o collegi e, quindi, rispetto alle quali non sia prevista l’obbligatoria iscrivibilità del singolo professionista in Albi o elenchi, trovino comunque una loro disciplina operativa con il principale obiettivo di salvaguardare la sfera degli utenti (o, più genericamente, consumatori), attraverso l’attento rispetto di obblighi di formazione costante e trasparenza per il tramite delle associazioni di professionisti alle quali costoro possono scegliere di appartenere.
Si tratta pervero della prima regolamentazione, in modo organico nel nostro ordinamento, delle c.d. professioni non organizzate (o, senza Albo) dalla quale sono escluse tutte le professioni il cui esercizio presuppone l’iscrizione a un ordine o un collegio professionale, che continuano ad essere svolte, anche con riferimento alle attività non esclusive che comunque sono riconducibili all’attività principale connessa alla iscrizione all’Albo o al collegio e sono ad essi non impedite dalla legge (si pensi, ad esempio, all’attività di amministratore di condominio esercitata da un avvocato o un commercialista), sulla base delle disposizioni normative e di settore che disciplinano l’attività professionale regolamentata. Tali professionisti, iscritti ad un Albo ovvero ad un collegio o appartenenti ad un ordine professionale, non vedono gli ordinamenti di settore (quindi non solo la legge, ma anche statuti, regolamenti interni e codici di condotta), che da tempo regolamentano i vari aspetti dell’attività professionale (ad esempio, i requisiti per l’iscrizione all’albo o al collegio o all’ordine e, quindi, per l’esercizio della professione, le incompatibilità, i doveri deontologici, gli aspetti previdenziali, gli oneri fiscali e tutto ciò si rivolge anche alla tutela della “clientela”), restano estranei alle disposizioni recate dalla l. 4/2013.
Nel novero delle esclusioni dall’applicazione della l. 4/2013 vanno inserite anche (per quanto si è sopra visto in ragione del contenuto dell’art. 1 l. 4/2013) le categorie professioni degli “esercenti professioni sanitarie e attività e mestieri artigianali, commerciali e di pubblico esercizio”, in quanto anche per queste tipologie di professionisti esistono già specifiche normative, sentendosi obbligato il legislatore a specificare ancora meglio l’ambito di esclusione dall’applicazione della normativa dedicata alle “professioni non organizzate”, al fine di evitare pericolosi (in particolare per l’utenza) rischi di confusione nella individuazione dei professionisti e delle attività incluse o meno nella disciplina della l. 4/2013.
12. – Fermo quanto sopra, per le c.d. professioni non organizzate la l. 4/2013 intende attribuire comunque un inquadramento all’attività di quei professionisti, sempre più numerosi, che non sono inseriti in albi, ordini o collegi e che svolgono attività spesso molto rilevanti in campo economico, consistenti nella prestazioni di servizi o di opere a favore di terzi, esercitate abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo (si pensi, ma solo per fare alcuni esempi, ai tributaristi, ai consulenti fiscali, agli amministratori di condominio, agli urbanisti, ai consulenti legali in materia stragiudiziale, a chi si occupa di tenuta della contabilità, dichiarazione dei redditi, imposizione fiscale, ai consulenti aziendali, che non siano già iscritti a un albo o collegio professionale).
A queste figure professionali il legislatore ha imposto di evidenziare, in ogni documento e rapporto scritto con il cliente, il riferimento alla l. 4/2013, che risulta applicabile proprio per la tutela della clientela e della fiducia che essa ripone nel professionista. Qualora questa disposizione non venga rispettata, il professionista è sanzionabile ai sensi del Codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), in quanto “responsabile” di una pratica commerciale scorretta nei confronti del consumatore, ai sensi dell’art. 27 del predetto Codice (così è previsto dall’art. 10 l. 4/2013).
Sempre nel solco del rapporto tra disciplina delle professioni non organizzate e tutela del consumatore e quindi della estensione anche nei confronti di tali tipi di professionisti (e delle attività da costoro dispiegate) delle regole recate dal Codice del consumo, l’art. 2 l. 4/2013 stabilisce che le associazioni professionali (di professionisti non – diversamente per previsione di legge – organizzati) sono chiamate a promuovere forme di garanzia a tutela dell’utente, tra cui l’attivazione di uno sportello di riferimento per il cittadino consumatore, al quale i committenti delle prestazioni professionali possano rivolgersi in caso di contenzioso con i singoli professionisti, ai sensi dell’articolo 27-ter del ridetto Codice.
Altra caratteristica della spinta all’associazionismo di questi particolari professionisti, che traspare in tutto il testo della l. 4/2013, è rinvenibile nell’incoraggiamento verso la creazione di forme di associazioni “a livello superiore” (per esempio in ambito provinciale, regionale o statale) che raccolgano il microcosmo associazionistico locale, con l’evidente obiettivo di spingere i singoli professionisti ad iscriversi a tali organizzazioni (anche sotto la spinta di vantaggi che essi possono ricevere dall’adesione del singolo all’associazione attraverso il percorso di attestazione di qualità, di cui agli artt. 7, 8 e 9 l. 4/2013), onde potersi sviluppare un ordinamento parallelo a quello delle professioni organizzate e garantire così maggiore sicurezza, rispetto ad operatori che agiscano in condizione di assoluto “isolamento di competenze” ovvero in una sorta di “incognito professionale”, in favore dell’utenza che si affidi al professionista (non – legislativamente – organizzato).
La legge in questione intende raggiungere i suindicati obiettivi di tutela attraverso la spinta all’associazionismo, invogliando i singoli professionisti ad iscriversi (anche al fine di meglio caratterizzarsi qualitativamente dinanzi all’utenza) ed obbligando le associazioni di professionisti a:
– predisporre statuti e clausole associative in modo da garantire la trasparenza delle attività e degli assetti associativi, la dialettica democratica tra gli associati, l’osservanza dei principi deontologici nonché prevedere la creazione di una struttura organizzativa e tecnico-scientifica adeguata all’effettivo raggiungimento delle finalità dell’associazione (art. 2, comma 2);
– promuovere, anche attraverso specifiche iniziative, la formazione permanente dei propri iscritti, adottando un codice di condotta ai sensi dell’art. 27-bis del Codice del consumo e curandone l’attenta applicazione sia vigilando sulla condotta professionale degli associati sia prevedendo ed irrogando sanzioni disciplinari nel caso di violazioni del codice (art. 2, comma 3);
– attivare uno sportello di riferimento per il cittadino consumatore, presso il quale i committenti delle prestazioni professionali possano rivolgersi in caso di contenzioso con i singoli professionisti (ai sensi dell’art. 27-terdel Codice del consumo), altre ad ottenere informazioni relative all’attività professionale in generale e agli standard qualitativi richiesti dalle associazioni agli iscritti (art. 2, comma 4);
– dotarsi di un sito web nel quale pubblicare tutti gli elementi informativi che presentano utilità per il consumatore, secondo criteri di trasparenza, correttezza, veridicità (art. 4);
– pubblicare, in particolare, sul sito web di cui all’art. 4 l’atto costitutivo e lo statuto, la precisa identificazione delle attività professionali cui l’associazione si riferisce, la composizione degli organismi deliberativi e titolari delle cariche sociali, la struttura organizzativa dell’associazione, i requisiti per la partecipazione all’associazione, con particolare riferimento ai titoli di studio relativi alle attività professionali oggetto dell’associazione, all’obbligo degli appartenenti di procedere all’aggiornamento professionale costante e alla predisposizione di strumenti idonei ad accertare l’effettivo assolvimento di tale obbligo e all’indicazione della quota da versare per il conseguimento degli scopi statutari, l’assenza di scopo di lucro (art. 5, comma 1);
– pubblicare, ancor più nello specifico, anche il codice di condotta con la previsione di sanzioni graduate in relazione alle violazioni poste in essere e l’organo preposto all’adozione dei provvedimenti disciplinari dotato della necessaria autonomia, l’elenco degli iscritti, aggiornato annualmente, le sedi dell’associazione sul territorio nazionale, in almeno tre regioni, la presenza di una struttura tecnico-scientifica dedicata alla formazione permanente degli associati, in forma diretta o indiretta, l’eventuale possesso di un sistema certificato di qualità dell’associazione conforme alla norma UNI EN ISO 9001 per il settore di competenza, le garanzie attivate a tutela degli utenti, tra cui la presenza, i recapiti e le modalità di accesso allo sportello previsto dall’art. 2, comma 4, l. 4/2013 (art. 5, comma 2).
13. – L’intero impianto della legge, quindi, per quello che è dato di cogliere dall’esame del testo, è rivolto:
– per un verso a incoraggiare forme di associazionismo tra imprenditori o professionisti che, svolgendo attività professionali non incanalate legislativamente verso la regolamentazione propria di ordini o collegi professionali, opererebbero in uno stato di completa anarchia con potenziali ripercussioni pregiudizievoli nei confronti degli utenti/clienti;
– per altro verso a sollecitare le associazioni a predisporre regole di condotta che, seppur non riconducibili alla previsione legislativa, possano comunque imporsi ai singoli professionisti (i quali si impegnano a non violarli al momento dell’iscrizione) disciplinando aspetti peculiari delle singole attività e definendo un assetto deontologico comportamentale degli associati tale da garantire gli utenti/clienti, la cui violazione possa tradursi nella irrogazione di sanzioni amministrative a carico dei professionisti trasgressori.
A tali obiettivi si aggiunge quello di curare una trasparenza telematica diffusa, attraverso il sito web della singola associazione o del raggruppamento, che renda possibile una accessibilità immediata ed approfondita sulle peculiarità dell’attività professionale svolta dagli iscritti all’associazione e sulla identificabilità del singolo professionista.
Per converso nulla il testo indica di specifico in ordine ai requisiti per l’iscrizione di una associazione all’elenco di cui all’art. 2, comma 7, l. 4/2013 tenuto dal MISE o alle regole procedurali per tale inserimento nonché alla disciplina della gestione dello stesso elenco da parte del MISE.
Infatti la formulazione dell’art. 2, comma 7, l. 4/2013 si presenta inidonea a considerare esistente, per previsione normativa, la necessità che l’iscrizione alla quale aspirano le associazioni in questione sia preceduta dalla verifica del possesso di taluni requisiti ritenuti indispensabili per ottenere l’inserimento nell’elenco. Addirittura i requisiti per l’iscrizione nell’elenco non sono affatto indicati in modo dettagliato. La citata disposizione sembra considerare l’elenco quale un luogo virtuale nel quale, spontaneamente, le associazioni di professionisti la cui attività non prevede la iscrizione in albi, ordini o collegi possono “confluire” (piuttosto che, tecnicamente, “iscriversi”), atteso che a tale scopo appare sufficiente dimostrare di avere rispettato le prescrizioni di cui ai successivi articoli 5 (l’esistenza di un atto costitutivo o di uno statuito, la puntuale declaratoria del tipo di attività professionale svolta dagli associati, la individuazione di coloro che siedono negli organismi deliberativi e siano titolari delle cariche sociali, la rappresentazione della struttura organizzativa dell’associazione, la dichiarazione che l’associazione non ha scopo di lucro), 6 (l’esistenza di un modello di autoregolamentazione in conformità a norme tecniche UNI ISO, UNI EN ISO, UNI EN e UNI, di cui alla direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 giugno 1998, e sulla base delle linee guida CEN 14 del 2010) e 7 (la predisposizione di un sistema di attestazione di professionalità degli iscritti).
Pervero, sia l’art. 2, comma 7, sia l’art. 6 fanno riferimento a “requisiti” che sono necessari per la partecipazione all’associazione (i titoli di studio relativi alle attività professionali oggetto dell’associazione, l’obbligo degli appartenenti di procedere all’aggiornamento professionale costante e la predisposizione di strumenti idonei ad accertare l’effettivo assolvimento di tale obbligo e l’indicazione della quota da versare per il conseguimento degli scopi statutari), ma si pongono quali elementi da “dichiarare”, “con assunzione di responsabilità dei rispettivi rappresentanti legali”, piuttosto che “dimostrare”, tanto è vero che la norma neppure richiama la disciplina di cui al DPR 28 dicembre 2000, n. 445 in materia di dichiarazioni sostitutive di atto notorio o di autocertificazione.
In conclusione, quindi, la l. 4/2013 non specifica quali siano le doverose indagini rimesse ai competenti uffici del MISE per vagliare l’accoglibilità o meno dell’istanza di una associazione di imprenditori o professionisti che svolgono una professione non organizzata in ordini o collegi, la cui presentazione ha natura di attività prettamente compilativa che si perfeziona con il deposito presso gli uffici del MISE che dovranno vagliare la domanda degli elementi documentali richiesti dalla legge, quasi come se detti uffici non debbano svolgere alcun filtro ai fini dell’iscrizione se non quello di verificare che tutte le dichiarazioni siano state rese e depositate con la documentazione necessaria, senza entrare nel merito dei contenuti di tale documentazione.
Quindi gli uffici del MISE, secondo il dettato legislativo, non eseguono un effettivo e penetrante intervento valutativo sull’istanza presentata, ma eseguono una mera attività di acclaramento circa la completezza documentale della domanda proposta dall’associazione, spingendosi non oltre la verifica circa la presenza di tutti i contenuti richiesti dalla l. 4/2013 nella domanda stessa, non potendo dunque indagare sulla reale applicazione di quanto dichiarato dall’associazione e dai suoi iscritti circa il tipo di attività svolta e gli adempimenti necessari per essere inserita nell’elenco.
Tale limitato intervento indaginistico posto in capo agli uffici istruttori del ministero competente si spiega in ragione di due principali evidenze, da considerarsi nell’ambito di una lettura costituzionalmente orientata delle norme contenute nella l. 4/2013:
A) per un verso lo svolgimento di una attività professionale lecita è libero in base al principio secondo il quale “la tutela costituzionale del diritto al lavoro non postula una rigida ripartizione delle varie attività lavorative fra categorie diverse, nè richiede la difesa degli appartenenti ad una categoria da iniziative concorrenziali di soggetti ad essa estranei” (così Cass. civ., Sez. un., 7 settembre 1989 n. 3879). D’altronde il principio suesposto è stato già messo in evidenza dal giudice delle leggi nell’affrontare il tema degli ordinamenti professionali, come è stato anche ricordato dalle parti controvertenti in molti atti processuali depositati nel presente grado di appello, affermando che il sistema degli ordinamenti professionali di cui all’art. 33 Cost., comma 5, deve essere ispirato al principio della concorrenza e della interdisciplinarità, “che appaiono sempre più necessarie in una società, quale quella attuale, i cui interessi si connotano in ragione di una accresciuta e sempre maggiore complessità ed alla tutela dei quali – e non certo a quella corporativa di ordini o collegi professionali, o di posizioni di esponenti degli stessi ordini – è, in via di principio, preordinato e subordinato l’accertamento e il riconoscimento nel sistema degli ordinamenti di categoria della professionalità specifica di cui all’art. 33, quinto comma, della Costituzione. Il che porta ad escludere una interpretazione delle sfere di competenza professionale in chiave di generale esclusività monopolistica (cfr. ad esempio le zone di attività mista tra avvocati e dottori commercialisti nel settore tributario anche contenzioso; degli ingegneri e architetti nel settore di determinate progettazioni; degli ingegneri o dei geologi in alcuni settori della geologia applicata e della tutela dell’ambiente; degli ingegneri e dottori in scienze forestali nell’ambito di talune sistemazioni montane)” (così Corte Cost. 21 luglio 1995 n. 345);
B) sotto altro versante poi, la ripercussione che ha avuto nel nostro ordinamento l’introduzione in sede europea del principio di massima concorrenza nell’ambito dei Paesi dell’Unione quale regolatore delle normazioni dei singoli ordinamenti statali in materia di “servizi interni”, plasticamente scolpito nei considerando e nelle disposizioni della direttiva 2006/123/CE, ha prodotto la creazione legislativa di un criterio di attuazione (si potrebbe dire “coacervato”) in merito ai principi di cui agli artt. 3, 33 e 41 Cost., con la introduzione della norma (anch’essa richiamata dalle parti processuali nel presente grado di giudizio) contenuta nell’art. 1, comma 2, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 convertito nella l. 24 marzo 2012, n. 27 (recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività ) che così dispone: “Le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all’accesso ed all’esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo eragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi costituzionali per i quali l’iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, presenti e futuri, ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all’ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale, con l’ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica”. Su tale aspetto va rimarcato che solo sei mesi prima, con l’art. 3, comma 1, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella l. 14 settembre 2011, n. 148, il legislatore nazionale aveva proclamato il principio secondo cui “(…) l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge (…)”, limitando poi le ipotesi in cui il legislatore può disporre il divieto, al fine di accentuare la cogenza e la portata del principio di massima liberalizzazione espresso, elencando tassativamente detti casi di vincolo alla liberalizzazione dell’attività economica. A ciò si aggiunga che con il d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella l. 22 dicembre 2011, n. 214 all’art. 33 sono state introdotte disposizioni specifiche al fine di sopprimere limitazioni all’esercizio di attività professionali ed all’art. 34 si è puntualizzato che le disposizioni in materia di liberalizzazione di ogni tipo di attività economica (e quindi anche per quanto concerne le professioni) sono adottate ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. e) ed m) Cost. “al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità e il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché per assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di accessibilità ai beni e servizi sul territorio nazionale” (comma 1) e che “La disciplina delle attività economiche è improntata al principio di libertà di accesso, di organizzazione e di svolgimento, fatte salve le esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono giustificare l’introduzione di previ atti amministrativi di assenso o autorizzazione o di controllo, nel rispetto del principio di proporzionalità ” (comma 2), abrogando al successivo comma 3 talune restrizioni allo svolgimento di attività economiche e professionali disposte da “norme vigenti”.
14. – Quanto si è fin qui osservato permettere di giungere ad una conclusione, centrale ai fini della definizione del contenzioso sottoposto all’esame di questo Consiglio, nello scrutinio dell’appello proposto dall’As. rispetto alla procedura di iscrizione all’elenco di cui all’art. 2, comma 7, l. 4/2013. Nel senso che le censure proposte in primo grado dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi nei confronti del provvedimento di iscrizione nell’elenco di cui sopra di As. e volte a rilevare l’insufficiente e difettosa istruttoria svolta dagli uffici ministeriali che, in particolare, non si sono spinti, nell’ambito di una asserita doverosa indagine preliminare, ad accertare che l’attività di counseling presenta delle rilevanti sovrapposizioni con l’attività tipica dello psico professionale tali da impedire l’iscrizione nell’elenco, determinandosi in tal modo una ipotesi (tipizzata dall’art. 1, comma 2, l. 4/2013) di divieto normativo alla iscrizione, non potevano trovare accoglimento in quanto dalla fonte legislativa istitutiva dell’elenco e disciplinante le modalità di esercizio del relativo potere ministeriale non traspare nessun obbligo di accentuazione indaginistica a carico del ministero procedente.
Sicché, proprio perché la previsione normativa non reca delle puntuali e circoscritte indicazioni in merito al percorso istruttorio che il MISE deve ordinariamente seguire nella verifica circa la presenza dei requisiti che l’associazione deve dichiarare di possedere ai fini dell’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 2, comma 7, l. 4/2013, correttamente il predetto ministero, nel silenzio della legge, ha arricchito il percorso istruttorio con la richiesta di espressione di un parere – di natura chiaramente endoprocedimentale, non obbligatoria e non vincolante, in quanto non previsto da espressa norma di legge – al Ministero della salute che, valutata la possibilità che le indicazioni provenienti dagli atti e documenti depositati da As. potessero o meno caratterizzare ipotesi di sovrapposizione tra l’attività di counseling e le attività di professionisti organizzati in albi, ordini e collegi, segnatamente riconducibili all’esercizio di una professione sanitaria, ha escluso (con di cui alla nota 24 marzo 2014) tale evenienza, confortando in tal modo l’assenza di elementi impeditivi all’iscrizione nel ridetto elenco della suindicata associazione.
Ne deriva che, sotto tale profilo, il giudice di primo grado, nella sentenza qui fatta oggetto di appello, ha erroneamente ritenuto che il MISE avrebbe dovuto svolgere una istruttoria maggiormente approfondita, fino a doversi sincerare se, effettivamente e concretamente, sotto ogni sfaccettatura della caleidoscopica attività di counseling (per come emerge dalla lettura degli atti prodotti nei due gradi di giudizio), si potesse assolutamente escludere l’emersione di tratti di sovrapposizione tra l’attività svolte dal counselor e quella dispiegata dallo psico professionista, laddove tale compito non era ad esso attribuito dal legislatore.
Nello stesso tempo il giudice di prime cure ha poi ritenuto di poter scrutinare il contenuto del parere reso dal Ministero della salute, di evidente natura tecnico scientifica, peraltro espresso in ambito endoprocedimentale senza alcuna connotazione di vincolatività nei contenuti per la decisione da assumere da parte del ministero procedente, valutando la sostenibilità scientifica (oltre il consueto limite della non illogicità ed irragionevolezza, proprio del confine comunemente riconosciuto come insuperabile nell’ambito dell’esercizio del potere del giudice amministrativo rispetto all’indagine circa la legittimità di atti espressione dell’esercizio di potere connotato da discrezionalità tecnica) di un precedente parere del 12 luglio 2011, reso da altro organo consultivo del Ministero della salute di cui alla nota 24 marzo 2014, quale è il Consiglio superiore della sanità, richiamato nel parere ministeriale a rafforzamento di taluni percorsi descrittivi circa l’incerto confine tra l’attività di counseling e quella di psico professionista, giungendo a dichiararne la illegittimità ed a sancire l’annullamento (non del parere reso dal Ministero della salute, di cui alla nota 24 marzo 2014, bensì ) del parere reso dal Consiglio superiore della sanità il 12 luglio 2011 (solo richiamato nel parere del Ministero della salute, di cui alla nota 24 marzo 2014).
Appare quindi evidente che in ragione delle suillustrate osservazioni le censure mosse nella presente sede di appello nei confronti della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio da As. trovino fondatezza, non spettando a questo giudice, per le ragioni più sopra approfonditamente riferite, di dover delimitare i confini tra l’attività di counseling e l’attività di psico professionale né individuare in quali ambiti possano manifestarsi sovrapposizione, trattandosi di questioni rimesse all’esercizio del potere sanzionatorio da parte delle Autorità competenti nei confronti dei singoli professionisti iscritti ad As. che dovessero trasgredire le previsioni contenute nelle normative di settore, indipendentemente dalla intervenuta iscrizione dell’associazione di riferimento nell’elenco di cui all’art. 2, comma 7, l. 4/2013.
Quanto invece alle contestazioni mosse in primo grado nei confronti della legittimità del percorso istruttorio svolto dagli uffici ministeriali e della legittimità dell’atto del 10 novembre 2014 con il quale si è ammessa l’iscrizione di As. nell’elenco di cui all’art. 2, comma 7, l. 4/2013, esse non appaiono sostenute da alcun riferimento normativo e quindi non possono trovare accoglimento nella sede giurisdizionale allo scopo di acclarare la sostenuta (dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi nel primo grado del presente processo) illegittimità dell’accoglimento da parte del MISE dell’istanza di iscrizione nel ridetto elenco di As..
15. – In considerazione delle suesposte osservazioni, ritenute infondate le eccezioni preliminari, l’appello va, dunque, accolto con conseguente riforma della sentenza impugnata e reiezione del ricorso di primo grado.
Sussistono, nondimeno, giusti motivi legati alla peculiarità della vicenda sottesa al presente contenzioso per disporre, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., per come espressamente richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a, l’integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello (n. R.g. 1273/2016), come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla la impugnata sentenza di primo grado (del Tribunale amministrativo per il Lazio, Sez. III-ter, 17 novembre 2015 n. 13020) e respinge il ricorso (R.g. n. 14877/2014) in quella sede proposto.
Spese del doppio grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 febbraio 2018 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Marco Buricelli – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere
Stefano Toschei – Consigliere, Estensore
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