Consiglio di Stato, Sezione quarta, Sentenza 3 febbraio 2020, n. 847.
La massima estrapolata:
In materia edilizia, l’autorità amministrativa, ovvero il Comune, al quale il privato si rivolga per ottenere il titolo necessario a realizzare un intervento edilizio che consti di più corpi di fabbrica funzionalmente e strutturalmente collegati, non lo può considerare in modo parziale, ovvero assentirlo per talune parti e non assentirlo per altre, a meno che non consti in proposito una volontà implicita o esplicita del privato richiedente, perché diversamente finirebbe per rielaborare in proprio il progetto, così ingerendosi in scelte che spettano soltanto all’autonomia privata.
Sentenza 3 febbraio 2020, n. 847
Data udienza 23 gennaio 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1282 del 2017, proposto dalla società I.N. di Au. Pa. & C° S.n. c., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Gi. Ge., con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gi. Co. in Roma, via (…);
contro
il Comune di Genova, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ga. Pa. e Ma. Pa. Pe., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Pa. in Roma, viale (…);
nei confronti
della Regione Liguria, in persona del Presidente pro tempore, non costituita in giudizio;
per l’annullamento ovvero la riforma
della sentenza del TAR Liguria, sezione I, 8 novembre 2016 n. 1094, che ha respinto il ricorso n. 93/2016 R.G. proposto per l’annullamento dei seguenti atti del Comune di Genova:
a) del provvedimento 26 novembre 2015 di protocollo non indicato, con il quale il Dirigente del Settore sportello unico per l’edilizia ha disposto la sospensione dell’attività di cui alla segnalazione certificata di inizio – SCIA 9 novembre 2015, prot. n. 9549, presentata dalla IN. S.n. c. per realizzare nell’area di pertinenza dell’immobile situato a Genova, via (omissis) opere costituite da un’autorimessa interrata, un piano sovrastante sempre interrato contenente un locale tecnico, un deposito e una vasca di compensazione, nonché una piscina ancora sovrastante;
di tutti gli atti presupposti, preparatori, accessori ovvero conseguenti, e in particolare:
b) degli atti di formazione e di approvazione del progetto definitivo del Piano urbanistico comunale – PUC del Comune di Genova esecutivo dal 3 dicembre 2015 quanto alla previsione dell’art. 14 delle norme generali e delle norme di conformità relative agli ambiti di conservazione del territorio di valore paesistico – (omissis);
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune Genova;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 23 gennaio 2020 il Cons. Francesco Gambato Spisani e uditi per le parti gli avvocati Gi. Co. e Ga. Pa.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
L’appellante è proprietaria di un terreno che si trova a Genova, in località (omissis), è distinto al catasto al foglio (omissis) mappali (omissis), costituisce pertinenza di un palazzo di appartamenti che si trova nelle immediate vicinanze, in via (omissis), ed era classificato, già nel progetto preliminare di Piano urbanistico comunale – PUC adottato nel 2011, come ambito (omissis), di conservazione del territorio con valore paesistico (v. ricorso di I grado p. 2, fatti storici non controversi).
Sulla base del regime urbanistico di cui al progetto preliminare di PUC, così come adottato nel 2011, la società, intenzionata a realizzare sul terreno in questione una serie di opere interrate, ovvero un’autorimessa, un piano sovrastante contenente un locale tecnico, un deposito e una vasca di compensazione, nonché una piscina ad orlo terra, ha chiesto le relative autorizzazioni idrogeologica e paesaggistica, ottenute rispettivamente con provvedimenti 11 novembre 2013 e 5 settembre 2012 (v. ricorso di primo grado, p. 2 citata).
Peraltro, la società veniva a conoscenza che nel progetto definitivo di PUC, adottato invece nel 2015, era inserita una previsione, l’art. 14 punto 4 delle norme generali, secondo la quale, fra l’altro, negli ambiti (omissis) non sarebbe stata consentita “per la salvaguardia dell’uso del suolo… la realizzazione di parcheggi in struttura” (doc. 22 in primo grado del Comune).
Di conseguenza, presentava per opporsi a tale divieto un’osservazione (doc. 4 in I grado ricorrente appellante), che però non veniva accolta.
Di seguito, la società presentava al Comune, con atto 9 novembre 2015, prot. n. 9549, una segnalazione certificata di inizio attività – SCIA volta a realizzare le opere descritte, comprendenti appunto quattro autorimesse interrate qualificate come parcheggi pertinenziali ai sensi dell’art. 9 della l. 24 marzo 1989, n. 122.
Il successivo giorno 26 novembre 2015, la società stessa riceveva però il provvedimento di inibitoria dei lavori, con la stessa data, motivato nei termini ora illustrati.
Il provvedimento, in primo luogo, descrive con precisione le opere da realizzare, sinteticamente illustrate sopra: “realizzazione di una autorimessa interrata di pertinenza per il parcamento di n. 4 autoveicoli a quota 79.75, in applicazione dell’art. 9 commi 1 e 2 della legge 122/89 in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché, in collegamento con l’autorimessa, la realizzazione di un piano soprastante egualmente interrato a quota 82.55 contenente un locale tecnico, un deposito ed una vasca di compensazione con ulteriore soprastante realizzazione di una piscina a quota 87.50; l’intero sbancamento prevede un fronte di scavo totale pari a circa 8.50 mt.”.
Tanto premesso, il provvedimento ritiene che le opere oggetto della SCIA non siano ammissibili.
Quanto alla piscina, il provvedimento dà atto che essa è ammessa come tale dal PUC; osserva però che in concreto essa misura mt. 10 per 4 mt., ovvero 40 mq, e che il locale interrato sottostante, in prevalenza con destinazione funzionale alla piscina stessa, misura complessivi mq 58,50, che comprendono uno spazio di mt. 4.70 per mt. 3.90 in parte occupato dalla vasca di compensazione, un locale tecnico di mt. 3 per mt. 6.60 e un deposito di circa mq 12.
Ciò posto, il provvedimento rileva una sproporzione fra le dimensioni della piscina e quelle dei locali ad essa funzionali, che a suo avviso dovrebbero avere dimensioni molto minori rispetto alla piscina stessa, mentre nella specie sono di dimensioni maggiori.
Il provvedimento ritiene che ciò rilevi anzitutto alla luce della disciplina di ambito, che proibisce negli ambiti (omissis) di realizzare, come si è visto, cantine, ricoveri e simili: per essere ammissibili, quindi, i locali tecnici della piscina dovrebbero avere caratteristiche e dimensioni tali da poterli fare oggettivamente qualificare come tali, e non come deposito o magazzino annesso.
Il provvedimento evidenzia inoltre che i locali in questione superano il limite di 45 metri cubi ammesso per le pertinenze dall’art. 17 della l.r Liguria 6 giugno 2008 n. 16, e che comunque interessano un’area individuata dal PUC come luogo di identità paesaggistica.
Sempre il provvedimento ritiene che l’autorimessa non sia realizzabile, sulla base di un duplice contrasto con il ricordato art. 14 delle norme generali di PUC.
In ordine logico, come del resto si è già ricordato, il provvedimento rileva che negli ambiti (omissis) come quello per cui è causa l’art. 14 proibisce puramente e semplicemente di realizzare “parcheggi in struttura”.
Inoltre, il provvedimento evidenzia che lo stesso art. 14 proibisce di realizzare costruzioni interrate ad una distanza tra perimetro della nuova costruzione e perimetro degli edifici esistenti inferiore all’altezza massima del fronte di scavo, definito dallo stesso art. 14.4 come “la differenza tra la quota del profilo del terreno preesistente e la quota d’imposta del piano più basso dell’edificio in corrispondenza della sezione caratterizzante il punto di maggior dislivello”.
Ciò posto, il provvedimento stesso rileva che il limite non è rispettato, perché fra il volume di progetto, con fronte di scavo pari, come si è detto, a mt. 8.50 e gli edifici circostanti, al civico 46 di via Aurelia, risulterebbe una distanza di mt. 5.50.
Il provvedimento osserva su questi due ultimi punti che l’art. 14 delle norme generali del PUC contiene disposizioni finalizzate alla tutela del territorio sotto il profilo ambientale, e nel caso di specie a tutela e sicurezza dei suoli, ritiene quindi non applicabile alla costruzione per cui è causa la possibilità di deroga agli strumenti urbanistici accordata dall’art. 9, comma 1, della l. 122/89, che consentirebbe la deroga “solo alle norme con carattere urbanistico edilizio, e non a quelle aventi rilevanza ambientale e di tutela dei corpi idrici”.
Infine, il provvedimento rileva che il criterio della distanza fra edifici pari almeno alla massima altezza del fronte di scavo non è rispettato anche per i volumi soprastanti al parcheggio, in ipotesi strumentali, come si è detto, alla piscina, e anche per questa ragione ne esclude la realizzabilità (doc. 1 in primo grado dell’appellante).
La società ha impugnato in primo grado tale provvedimento, con ricorso in cui ha dedotto quattro motivi, che vanno riportati per chiarezza:
– con il primo di essi, ha dedotto la violazione delle norme generali del PUC e comunque illogicità della motivazione, quanto al diniego che riguarda specificamente i locali a servizio della piscina. In proposito, ha ritenuto inapplicabile il limite di 45 mc imposto per le pertinenze dal citato art. 17 della l.r. 16/2008, sostenendo che esso riguarderebbe le pertinenze in genere, e non le piscine, che avrebbero come tali una disciplina autonoma; ha quindi sostenuto che pertinenza in senso proprio si sarebbe potuto considerare solo il deposito, inferiore però al limite indicato; ha infine ritenuto illogico il giudizio di “sproporzione” fra la piscina ed i locali tecnici;
– con il secondo motivo, ha dedotto la violazione del più volte citato art. 14 delle norme generali del PUC ed ha sostenuto che la distanza minima richiesta fra tra perimetro della nuova costruzione e perimetro degli edifici esistenti sarebbe invece rispettata. Posta l’altezza di mt. 8.50 del fronte di scavo, esso si troverebbe a distanza superiore a tale altezza dal più vicino edificio, quello di via (omissis). La minore distanza indicata dal Comune sarebbe frutto di un errore, perché misurata non in senso orizzontale e di frontistanza, ma in senso radiale e riferendosi non ad un edificio ma ad un’area coperta da una tettoia a sbalzo;
– con il terzo motivo, ha dedotto la violazione dell’art. 9 della l. 122/1989, che a suo dire consentirebbe la deroga ad ogni e qualsiasi previsione di piano, anche se dettate con finalità ambientali;
– con il quarto motivo, ha impugnato per lo stesso motivo le norme del PUC ostative all’intervento, e in particolare l’art. 14 citato e le previsioni di ambito applicabili.
Con la sentenza indicata in epigrafe, il TAR ha respinto il ricorso, nei termini che seguono.
In primo luogo, il TAR ha respinto il primo motivo di ricorso di cui sopra, ritenendo in sintesi corretta la motivazione del provvedimento sul punto.
Ha poi respinto il secondo motivo di ricorso, osservando che sulla base dei documenti prodotti dal Comune la misurazione eseguita appariva corretta.
Infine, il TAR ha dato atto testualmente della “sufficienza di quanto sin qui considerato” ai fini della reiezione del ricorso; ha però ritenuto per “evidenti ragioni di completezza” di “esaminare anche il terzo ordine di rilievi”, di censura della pianificazione per mancato rispetto dell’art. 9 della l. 122/1989. In proposito, ha allora osservato che la norma di piano suddetta potrebbe “rischiare di scontrarsi con la normativa statale invocata” che assumerebbe valore di principio, aggiungendo che il progetto avere “ottenuto l’assenso delle amministrazioni competenti in ordine ai preminenti profili paesaggistici ed ambientali” e che in tale ipotesi non sarebbe “ammissibile che la pianificazione urbanistica escluda l’ammissibilità di un progetto sotto profili che le amministrazioni dotate di competenza primaria abbiano invece assentito” (motivazione, pp. 4 e 5).
Contro questa sentenza, la società ha proposto impugnazione, con appello che contiene tre motivi:
– con il primo di essi, critica la sentenza impugnata per avere ritenuto non assentibili i locali del piano interrato strumentali alla piscina. Sostiene in proposito che l’art. 11 delle norme generali di PUC distingue fra pertinenze in generale, previste al § 22, e manufatti diversi dagli edifici, tra i quali anche le piscine, previsti invece al § 23, ai quali non si applicherebbero i limiti dimensionali di cui all’art. 17 della l.r. 16/2008. Nel caso di specie, quindi, unica pertinenza in senso proprio sarebbe il deposito, contenuto però entro i limiti previsti. Sostiene poi che sarebbe comunque illegittimo applicare il regime delle pertinenze a un manufatto come la piscina, che costituirebbe un tutto unitario, comprensivo quindi anche delle strutture interrate in esame;
– con il secondo motivo, critica la sentenza impugnata per avere ritenuto non rispettata la norma sulle distanze, sotto i tre profili che seguono. In primo luogo, il calcolo delle distanze, eseguito con metodo cd radiale, sarebbe stato effettuato in modo scorretto, dovendosi invece adottare il metodo cd lineare, che avrebbe, come si afferma per implicito, dato un risultato conforme. In secondo luogo, non vi sarebbe il presupposto per applicare la norma, perché la distanza sarebbe stata calcolata da una tettoia a sbalzo e non da un edificio. In terzo luogo, la norma sarebbe derogabile, trattandosi di realizzare parcheggi, sulla base dell’art. 9 della l. 122/1989;
– con il terzo motivo, critica infine la sentenza impugnata per non avere pronunciato sulla domanda di annullamento degli atti di pianificazione, e in particolare dell’art. 14 in esame, per contrasto con l’art. 9 della l. 122/1989 più volte citato.
Il Comune si è difeso con memoria contenente anche contestuale appello incidentale, depositata il giorno 21 aprile 2017, in cui:
– chiede che sia respinto il primo motivo di appello, ritenendo congruo il giudizio di sproporzione fra la piscina ed i manufatti dichiaratamente al servizio di essa;
– chiede che sia respinto il secondo motivo di appello, evidenziando che la misurazione dovrebbe di necessità eseguirsi con metodo radiale perché la distanza sia “uniformemente rispettata” (memoria, p. 8 sesto rigo dal basso) e che il limite di cui alla norma non sarebbe soddisfatto, perché il manufatto rispetto al quale è stata fatta la misurazione sarebbe non una tettoia a sbalzo, ma un volume vero e proprio;
– chiede che sia respinto anche il terzo motivo, facendone anche oggetto dell’unico motivo di appello incidentale, sostenendo in sintesi la non applicabilità dell’art. 9 della l. 122/1989 al caso di deroga a norme urbanistiche o edilizie di valenza ambientale.
Con memoria 23 dicembre 2019 la società e con replica 2 gennaio 2020 il Comune, le parti hanno ribadito le rispettive posizioni.
All’udienza del 23 gennaio 2020, la Sezione ha quindi trattenuto il ricorso in decisione.
DIRITTO
1. L’appello principale è infondato e va respinto, per le ragioni che seguono, con le quali si dà altresì conto della corretta qualificazione dell’appello incidentale del Comune.
2. Il primo motivo di appello principale, volto a sostenere che i locali interrati sottostanti alla piscina sarebbero assentibili al pari di quest’ultima, è infondato e va respinto.
2.1 In via preliminare, è necessaria una precisazione.
Di regola, l’autorità amministrativa, ovvero il Comune, al quale il privato si rivolga per ottenere il titolo necessario a realizzare un intervento edilizio che consti di più corpi di fabbrica funzionalmente e strutturalmente collegati, non lo può considerare in modo parziale, ovvero assentirlo per talune parti e non assentirlo per altre, a meno che non consti in proposito una volontà implicita o esplicita del privato richiedente, perché diversamente finirebbe per rielaborare in proprio il progetto, così ingerendosi in scelte che spettano soltanto all’autonomia privata: sul principio, si vedano C.d.S., sez. IV 29 novembre 2017, n. 5598, e sez. V, 11 ottobre 2005, n. 5495.
2.2 Nel caso di specie, l’intervento si deve presumere unitario, dato che è oggetto di un’unica domanda e riguarda una costruzione a tre livelli strutturalmente collegati, ovvero, a partire dal livello del suolo, la vasca della piscina, i locali ad essa immediatamente sottostanti e l’ancora sottostante autorimessa, e come intervento unitario il Comune lo ha considerato nel provvedimento di diniego impugnato, che motiva in modo diffuso sui suoi vari aspetti, ma lo considera in tutto non assentibile.
A tutto voler concedere, si potrebbe ipotizzare una considerazione separata da un lato dell’autorimessa, dall’altro del complesso costituito dalla vasca e dai locali immediatamente sottostanti, che corrispondono a funzioni diverse, anche se il tutto è progettato come unitario. Tuttavia, oltre non è possibile andare, anche in via di sola ipotesi, perché i locali sottostanti alla vasca sono prospettati come al servizio di essa: non è possibile considerare separatamente il deposito e le altre strutture.
A ben guardare, poi, in tal senso è la stessa parte, là dove afferma (appello, p. 8 in fine) quanto ricordato in premesse, ovvero che il manufatto nel suo complesso sarebbe un “unicum”.
2.3 Ciò premesso, il motivo di appello dedotto sostiene che i locali del primo piano interrato, cioè il complesso che essi formano con la vasca, sarebbero assentibili, perché rientrerebbero nella previsione dell’art. 11 § 23 delle norme generali di PUC, e non in quella del più restrittivo art. 11 § 22.
Solo per le opere previste dal § 22 l’art. 11 del PUC richiama i limiti dimensionali di cui all’art. 17 della l.r. 16/2008; non li richiama invece per i “manufatti diversi dagli edifici”, fra i quali appunto le “piscine” (doc. 22 Comune in I grado, estratto del Piano, a p. 10 delle norme generali).
2.4 In proposito il Collegio ritiene che l’art. 11 § 23 delle norme di PUC appena citate vada interpretato con un criterio restrittivo, dato che si tratta di una normativa derogatoria.
Sarà quindi possibile derogare ai limiti dimensionali del manufatto ove effettivamente esso si possa considerare una piscina secondo il comune apprezzamento, non invece quando la qualificazione come tale sia uno strumento per eludere il limite.
In tal senso un indizio si ricava dallo stesso § 23, secondo il quale le piscine devono evitare “il più possibile” di alterare l’andamento del suolo, e quindi il concetto deve essere limitato alle sole opere che propriamente vanno a costituirle.
2.5 In tal senso, il Collegio ritiene corretto quanto affermato dal Comune nel provvedimento impugnato e condiviso dal Giudice di primo grado, ovvero che fra la vasca d’acqua vera e propria e le strutture sotterranee ad essa funzionali, senza che per le ragioni esposte sia possibile considerare separatamente il deposito, sussiste una sproporzione, che impedisce di considerare il manufatto come piscina ai sensi della norma derogatoria.
Si applica quindi, come ancora una volta correttamente apprezzato dal Comune, il limite di dimensioni previsto per le pertinenze, che nella specie è incontestatamente superato quanto ai metri cubi ammessi.
3. Quanto sin qui esposto potrebbe a rigore essere ritenuto sufficiente per respingere l’appello, in quanto comporta che non sia assentibile una parte dell’intervento unitario, e quindi secondo logica tutto l’intervento complessivamente inteso.
Per completezza, e per il caso in cui l’intervento si ritenga scindibile almeno per la parte che riguarda l’autorimessa, si esaminano però anche i residui motivi di appello, che sono a loro volta infondati.
4. Il secondo motivo di appello, centrato sul presunto rispetto delle distanze da parte dell’opera in questione, è a sua volta infondato in tutti i tre profili dedotti.
4.1 L’appellante sostiene anzitutto che la violazione delle norme che impongono una certa distanza fra gli scavi e gli edifici esistenti, ovvero come si è detto distanza tra perimetro della nuova costruzione e perimetro degli edifici esistenti inferiore all’altezza massima del fronte di scavo, ai sensi dell’art. 14.4 delle norme generali di PUC, sarebbe rispettata perché il calcolo andrebbe eseguito con metodo lineare, e non con il metodo radiale nella specie adottato, che dà, come si ammette per scontato, un risultato non conforme.
4.2 Va premesso al riguardo che, nella scienza delle costruzioni, la misurazione della distanza fra due strutture avviene con metodo lineare quando considera il minimo distacco delle facciate di un fabbricato da quelle dei fabbricati che lo fronteggiano; la misurazione si chiama lineare perché è fatta come se le facciate avanzassero parallelamente verso l’edificio che si trova di fronte.
La stessa misurazione avviene invece con metodo radiale quando considera la minima distanza intercorrente tra le due strutture considerate, e in tal caso considera non la direzione dettata dall’inclinazione delle fronti, come appunto nel metodo lineare, ma quella che fornisce la distanza minore.
In definitiva, con il metodo radiale occorre verificare l’assenza di porzioni di edificio entro una circonferenza di raggio pari ad una certa distanza con centro in ciascuno dei suoi spigoli, mentre con il metodo lineare occorre verificare l’assenza di porzioni di edifici antistanti a distanze inferiori a quella minima.
La misurazione con metodo lineare si impiega quando si debbano considerare le distanze richieste per assicurare aria e luce ai fabbricati, e quindi per evitare le cd intercapedini; la misurazione radiale, che dà risultati più restrittivi, è invece evidentemente più coerente con il concetto di distanze di sicurezza, richieste per evitare pregiudizi alla statica degli edifici.
4.3 Nel caso di specie, il Collegio ritiene quindi corretto e congruo il metodo radiale adottato dal Comune, trattandosi di garantire la sicurezza delle costruzioni in una zona di pendio che si trova in una regione per comune esperienza geologicamente fragile e franosa come la costa ligure.
4.4 L’appellante sostiene ancora che, anche accettato il valore della distanza così come calcolato dal Comune, i presupposti per applicare la norma non vi sarebbero, perché la distanza riguarderebbe non una costruzione, ma una tettoia aperta.
Il rilievo però è smentito in fatto dalla replica del Comune, per cui si tratterebbe di un edificio vero e proprio, in corso di realizzazione, come risulta dai doc. ti 23 e 24 in primo grado del Comune, e quindi secondo logica preventivamente assentito.
L’appellante, a p. 6 della memoria 23 dicembre 2019, si limita a negare il punto, che quindi deve ritenersi provato dai documenti citati.
4.5 Quanto sin qui esposto vale per l’intervento in ogni sua parte: l’appellante prospetta infine, con deduzione che all’evidenza sarebbe sostenibile solo se si considerasse l’autorimessa come scindibile dal resto dell’intervento, che la norma sulle distanze citata sarebbe derogata, appunto per l’autorimessa, dall’art. 9 della l. 122/1989: la questione è la medesima oggetto del terzo motivo di appello, e quindi in proposito si rinvia a quanto subito si dirà sul punto.
5. Il terzo motivo di appello, centrato sulla prospettata derogabilità dell’art. 14 delle norme di PUC da parte del citato art 9 della l. 122/1989 quanto alla sola autorimessa, è infine a sua volta infondato.
5.1 Anche in questo caso, è necessaria una precisazione.
La sentenza di primo grado impugnata, come si deduce dalla sua motivazione, si esprime sul punto a titolo di obiter, dato che introduce il discorso sul punto con la frase “pur dinanzi alla sufficienza di quanto sin qui considerato in termini di impossibilità di accoglimento del gravame” e soprattutto perché sull’eventuale illegittimità dell’art. 14 delle norme del PUC nella parte in cui proibisce di realizzare parcheggi interrati nell’area considerata si esprime in modo ipotetico, affermando come “la norma di piano… possa rischiare di scontrarsi” con quella statale.
5.2 Peraltro, l’appellante, che aveva sollevato la questione con apposito motivo in primo grado, la ha riproposta in questa sede, e ciò comporta che la si debba esaminare, appunto ipotizzando la natura scindibile dell’intervento quanto all’autorimessa.
In tali termini, le difese qualificate dal Comune come l’appello incidentale sul punto -appello che sarebbe stato inammissibile come tale, mancando una statuizione da impugnare sul punto da parte della sentenza di primo grado- vanno qualificate come difese a fronte del terzo motivo in esame, e come tali valutate.
5.3 Ciò premesso, il motivo è infondato.
L’art. 9 comma 1 della l. 122/1989 prevede che “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell’uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell’ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni”.
Tali disposizioni, quanto alla realizzazione dei parcheggi sotterranei in questione, prevedono una deroga molto ampia alle norme urbanistiche, ma non una deroga totale e incondizionata, comprendendosi quindi perché la giurisprudenza – per tutte, C.d.S. sez. IV 16 aprile 2012, n. 2185- la consideri norma di stretta interpretazione.
Esse in particolare fanno salve la tutela dei corpi idrici e i vincoli in materia paesaggistica ed ambientale, e ciò si comprende osservando che, in linea di fatto, lo scavo eseguito per realizzare un’opera interrata presenta evidenti rischi per la stabilità del suolo.
Risulta quindi evidente, data la logica della norma, come essa non consenta deroghe ai vincoli di tal tipo, anche se posti a rigore non direttamente dalla normativa statale, ma dalla pianificazione comunale ad essa conforme (sul principio per cui i vincoli fatti salvi dall’art. 9 l. 122/1989 siano non soltanto quelli previsti dalla legge dello Stato in via diretta, già C. cost. 27 luglio 1989, n. 459). La tesi sostenuta dal Comune va quindi condivisa, sicché vanno respinte le censure proposte avverso l’art. 14, nella parte in cui vieta i parcheggi sotterranei in zona.
5.4 Per le ragioni che precedono, va respinto anche il terzo profilo dedotto nel secondo motivo di appello, perché la norma sulla distanza degli scavi di cui all’art. 14.4 è ispirata alla stessa logica di difesa dei suoli.
6. In conclusione, l’appello principale va respinto, mentre l’appello incidentale va qualificato come atto difensivo che ha controdedotto alle censure proposte dall’appellante principale.
7. Le spese del secondo grado seguono la soccombenza e si liquidano così come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto (ricorso n. 1282/2017), e riqualificato come in motivazione l’appello incidentale, respinge l’appello principale.
Condanna la ricorrente appellante a rifondere al Comune intimato appellato le spese del presente grado di giudizio, spese che liquida in Euro 7.000 (settemila/00), oltre accessori di legge, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 gennaio 2020 con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti – Presidente
Leonardo Spagnoletti – Consigliere
Daniela Di Carlo – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere, Estensore
Alessandro Verrico – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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