Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 21 aprile 2020, n. 2540.
La massima estrapolata:
L’inerzia dell’amministrazione può integrare la fattispecie del silenzio inadempimento solo qualora sussista l’obbligo di provvedere, il quale, nondimeno, manca laddove l’istanza del privato sia volta a sollecitare il riesame di un atto divenuto inoppugnabile.
Sentenza 21 aprile 2020, n. 2540
Data udienza 16 aprile 2020
Tag – parola chiave – Silenzio della P.A. – Società cooperativa in liquidazione coatta amministrativa – Scioglimento d’ufficio – Istanza di revoca – Silenzio – Impugnazione – Inammissibilità
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 203 del 2020, proposto da
Vi. Co., rappresentato e difeso dall’avvocato Vi. Fa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero dello Sviluppo Economico non costituito in giudizio;
Br. Ma. Gu., rappresentato e difeso dall’avvocato An. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata Sezione Prima n. 907/2019.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Br. Ma. Gu.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2020 il Cons. Giordano Lamberti e rilevato che l’udienza si svolge ai sensi dell’art. 84 comma 5, del D.L.n. 18 del 17 marzo 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Mi. Te.” come previsto dalla circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa.
Rilevato che:
– l’appellante – in qualità di ex socio della cooperativa Da. (in liquidazione coatta amministrativa) – ha proposto ricorso al T.A.R. per la Basilicata, al fine di accertare l’illegittimità del silenzio serbato dal Ministero in ordine all’istanza di revoca del provvedimento ministeriale di scioglimento d’ufficio della società (ex art. 2545 septiesdecis c.c.);
– detto provvedimento è stato adottato in quanto, successivamente agli accertamenti effettuati da parte del revisore incaricato dall’amministrazione in relazione alla situazione contabile della predetta Cooperativa, è stato accertato il mancato deposito dei bilanci per più di due anni consecutivi;
– il mancato deposito per due anni consecutivi del bilancio e la successiva mancata regolarizzazione ha indotto il Ministero allo scioglimento della società ai sensi dell’art. 2454 septiesdecies c.c. ed alla nomina del Commissario liquidatore;
– il provvedimento di scioglimento della società e di nomina del Commissario non è mai stato impugnato;
– il T.A.R. ha giudicato inammissibile il ricorso, precisando che “l’azione contro il silenzio non può essere spiegata onde conseguire la riapertura di procedimenti già definiti in sede amministrativa ovvero per rimettere in discussione atti ormai divenuti inoppugnabili”;
Ritenuto che:
– il primo motivo – con cui si contesta la violazione del dovere di provvedere ai sensi dell’art. 2 della l. 241/90 da parte dell’amministrazione – debba considerarsi inammissibile, trattandosi della mera riproduzione del primo motivo del ricorso originario non contenente alcuna critica specifica alla statuizione impugnata (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6194/2019: “è inammissibile la mera riproposizione dei motivi di primo grado senza che sia sviluppata alcuna confutazione della statuizione del primo giudice, atteso che l’effetto devolutivo dell’appello non esclude l’obbligo dell’appellante di indicare nell’atto di appello le specifiche critiche rivolte alla sentenza impugnata, non sono condivisibili, non potendo il ricorso in appello limitarsi ad una generica riproposizione degli argomenti dedotti in primo grado”);
– in ogni caso, debba confermarsi la valutazione del T.A.R., dal momento che, per giurisprudenza costante, l’inerzia dell’amministrazione può integrare la fattispecie del silenzio inadempimento solo qualora sussista l’obbligo di provvedere, il quale, nondimeno, manca laddove l’istanza del privato sia volta a sollecitare il riesame di un atto divenuto inoppugnabile (ex plurimis Cons. St. Sez. VI, n. 4504/2005). Le ragioni di tale orientamento risiedono nel fatto che – volendosi affermare un generalizzato obbligo in capo all’amministrazione di rivalutare un proprio provvedimento anche quando rispetto ad esso siano decorsi i termini per proporre ricorso – sarebbe vulnerata l’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti giuridici e resterebbe lettera morta il regime decadenziale dei termini per impugnare;
– non debba trovare accoglimento neppure il secondo motivo di appello, con cui si deduce l’erroneità della sentenza di primo grado con riferimento alla violazione dell’art. 21 quinquies della l. 241/1990; come già precisato, deve infatti escludersi la sussistenza di un dovere generalizzato dell’amministrazione di provvedere sulle istanze di autotutela, che ove ammesso in modo indiscriminato costituirebbe un aggiramento del principio cardine del sistema che impone di impugnare gli atti lesivi entro un termine di decadenza, tanto più che, nella parte motiva della specifica censura, l’appellante non specifica neppure per quale ragione, tra quelle contemplate dalla norma citata, l’amministrazione dovrebbe procedere alla revoca. Più in generale, la giurisprudenza ha precisato che la richiesta avanzata dai privati nei confronti dell’amministrazione al fine di ottenerne un intervento in autotutela è da considerarsi “una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, che non fa sorgere in capo all’amministrazione alcun obbligo di provvedere” (cfr. Cons. St., Sez. VI n. 2774/2012; Cons. St., Sez. VI n. 767/2013). Invero, “i provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale dell’amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare” (cfr. Cons. Stato, sez. IV n. 1469/2010);
– anche il terzo motivo – con cui si contesta la sussistenza dei presupposti per la nomina del Commissario – non possa essere esaminato, in quanto integrante una nuova censura non dedotta con il ricorso di primo grado e, dunque, in violazione dell’art. 104 c.p.a. Come noto, non possono essere proposti in sede di appello nuovi motivi di ricorso. Pertanto, non sono ammissibili nuove censure contro gli atti già impugnati, se era possibile proporle sin dal primo grado di giudizio, in quanto la novità dei motivi equivale ad una domanda nuova (cfr. Cons. St., Sez. IV n. 2977/2008);
– le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguano la soccombenza;
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta rigetta l’appello e condanna parte appellante alla refusione delle spese di lite in favore della controparte costituita, che si liquidano in Euro2.000, oltre accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2020 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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