Consiglio di Stato, Sezione quinta, Sentenza 25 febbraio 2020, n. 1391.
La massima estrapolata:
In materia di ricorso per revocazione l’errore di fatto deducibile deve: a) derivare da errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere esistente un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) essere stato un elemento decisivo della sentenza da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia;c) attenere ad un punto controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato.
Sentenza 25 febbraio 2020, n. 1391
Data udienza 17 dicembre 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso per revocazione iscritto al numero di registro generale 7357 del 2018, proposto da
So. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Fe. Te., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, largo (…);
contro
Regione Campania, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Li. Bu., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia;
Arcadis – Agenzia Regionale Campana Difesa Suolo, non costituita in giudizio;
nei confronti
D.’I. T. S.r.l. Società d’i. e tr., Comune di (omissis), non costituiti in giudizio.
per la revocazione della sentenza n. 1741/2018, resa dal Consiglio di Stato, Sez. V, pubblicata in data 19 marzo 2018 e non notificata.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Regione Campania;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 dicembre 2019 il Cons. Giuseppina Luciana Barreca e uditi per le parti gli avvocati Ca., per delega di Te., e Bu.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1.Con la sentenza di questa Sezione, n. 1741 del 19 marzo 2018, impugnata per revocazione, sono stati respinti gli appelli avanzati dalla So. S.r.l. (società che gestisce una cava di calcare nel Comune di (omissis), in località (omissis)) contro la Regione Campania e la Arcadis – Agenzia regionale campana difesa suolo, nonché nei confronti della DT. T s.r.l. società d’inerti e trasporti e del Comune di (omissis), per la riforma delle sentenze del Tribunale amministrativo regionale per la Campania n. 1599/16 e n. 1600/16.
1.1.Con la prima sentenza, n. 1599/16, era stato respinto il ricorso proposto dalla società per l’ottemperanza alla sentenza n. 4421 del 2011, appellata ma non sospesa -con la quale ultima il Tribunale amministrativo aveva, tra l’altro: a1) per un verso, annullato il provvedimento del Genio Civile di Caserta (prot. n. 2010.0819754 del 12 ottobre 2010), che aveva sancito e confermato il rigetto dell’istanza di prosecuzione dell’attività estrattiva, formulata ai sensi dell’art. 27 delle N.d.A. del vigente Piano regionale (PRAE); a2) per altro verso condannato la Regione Campania al risarcimento dei danni da perdita di utili connessi alla mancata coltivazione e recupero della cava; con la detta sentenza n. 1599/16 era stata negata la sussistenza di danni risarcibili.
1.2. Con la seconda sentenza, n. 1600/16, erano stati respinti i riuniti ricorsi avverso gli atti di rigetto dell’istanza di coltivazione e recupero ambientale della cava, da ultimo refluiti – dopo la nota del Comune di (omissis), che aveva opposto l’esistenza di vincoli inderogabili correlati, ex l. n. 353 del 2000, alla presenza di zone attraversate dal fuoco e la pedissequa nota soprassessoria del Genio civile – nella negativa e definitiva decisione assunta in sede di conferenza di servizi, nonché nel decreto dirigenziale regionale n. 34 del 13 ottobre 2015 di diniego del progetto, che aveva recepito le risultanze della conferenza.
1.3. La sentenza qui impugnata per revocazione ha esaminato per primo il ricorso contro la seconda sentenza, volto ad accertare l’illegittimità del diniego all’esercizio dell’attività estrattiva, espresso a seguito di istanza avanzata dalla società ai sensi dell’art. 27 delle Norme tecniche di attuazione del vigente Piano regionale delle attività estrattive (P.R.A.E.), ed ha giudicato infondato l’appello, per le ragioni esposte ai punti da 2.1 a 2.7 della motivazione, oggetto del presente ricorso per revocazione.
1.3.1. In conseguenza di tali ragioni, concernenti l’impedimento alla coltivazione della cava per vincolo da incendio boschivo, la sentenza ha: a) reputato prive di rilevanza le questioni concernenti il vincolo idrogeologico; b) escluso la sussistenza di un contrasto tra amministrazioni coinvolte che consentisse di rimettere la questione dalla conferenza dei servizi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 14 quater della legge n. 241 del 1990.
1.3.2. Dalla ritenuta insussistenza dei presupposti per assentire il progetto di estrazione, a causa appunto del detto vincolo da incendio boschivo, è infine stata desunta l’infondatezza della pretesa risarcitoria fatta valere con l’appello contro la sentenza n. 1599/16, che tale pretesa aveva respinto in primo grado.
1.4. Il rigetto di entrambi i gravami ha comportato la condanna dell’appellante al pagamento delle spese di lite in favore della Regione Campania.
2. La società So. S.r.l. ha proposto impugnazione per revocazione della sentenza con unico articolato motivo, col quale ha denunciato errore di fatto in relazione ai capi da 2.1 a 2.7 della sentenza d’appello (sub specie di “omessa pronuncia su una censura ritualmente introdotta in giudizio”).
2.1. Si è costituita in giudizio la Regione Campania, resistendo all’impugnazione.
2.2. All’udienza del 17 dicembre 2019 la causa è stata trattenuta in decisione, previo deposito di memorie e documenti di entrambe le parti.
3. Va premesso che l’errore di fatto deducibile per revocazione deve:
a) derivare da errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere esistente un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato;
b) essere stato un elemento decisivo della sentenza da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia;
c) attenere ad un punto controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 10 gennaio 2013, n. 1 e numerose altre, tra cui Cons. Stato, 14 maggio 2015, n. 2431; id., V, 5 maggio 2016, n. 1824).
3.1. Nel caso di specie, difetta, in primo luogo, tale ultimo requisito.
In particolare, il vizio della sentenza così come prospettato dalla ricorrente non è riconducibile alla fattispecie dell’errore di fatto revocatorio, in quanto l’asserito errore attiene a un punto controverso sul quale la sentenza ha espressamente motivato e si sostanzia, come si dirà, non nell’addebito di una falsa percezione della realtà processuale, bensì nell’attribuzione di un errore di giudizio o di un errore di valutazione delle risultanze processuali.
4. La sentenza è impugnata nella parte che -dopo aver esposto il contenuto dell’art. 27 delle Norme tecniche di attuazione del vigente Piano regionale delle attività estrattive (P.R.A.E.), approvate con ordinanza del Commissario ad acta n. 11 del 7 giugno 2006- così testualmente motiva:
” [l’art. 27 citato] pone, in questo caso, il triplice limite: e1) quantitativo (individuato nel “30% rispetto alle superfici assentite”); e2) temporale (pari a “5 anni decorrenti dalla data di rilascio della nuova autorizzazione”, peraltro prorogabile, per non più di tre anni, “in relazione alla complessità progettuale, alla estensione delle aree interessate, alla tipologia del recupero e/o ricomposizione ambientale”); d3) vincolistico (ammettendo, bensì, la possibile deroga – comunque, nei limiti del “necessario” – ai “vincoli […] ricompresi nell’art. 7 delle [stesse] norme di attuazione”, ma solo trattandosi di vincoli di per sé “derogabili”).
2.3. L’art. 7 in questione colloca all’interno del cata della aree vincolate “escluse dall’esercizio dell’attività estrattiva, anche quelle (cfr. comma 1, lett. d) “percorse dai fuochi nei termini temporali di cui all’art. 10 della Legge 353/2000 e s.m.i.”, senza precisare se si tratti o meno, come tale, di vincolo derogabile.
Milita, tuttavia, nel senso dell’inderogabilità la lettera dell’art. 10 (Divieti, prescrizioni e sanzioni) della detta legge 21 novembre 2000, n. 353 (Legge-quadro in materia di incendi boschivi), a mente del quale le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco “non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni”, essendo ammesse esclusivamente:
a) la costruzione di opere pubbliche necessarie alla salvaguardia della pubblica incolumità e dell’ambiente;
b) la realizzazione, entro il decennio, di edifici, strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive, la cui realizzazione “sia stata prevista in data precedente l’incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data”;
c) le attività urgenti “di rimboschimento e di ingegneria ambientale sostenute con risorse finanziarie pubbliche”, ove specificamente autorizzate, per quanto di rispettiva competenza, dal Ministero dell’ambiente o dalla Regione.
2.4. – Alla diversa prospettazione in termini di derogabilità del vincolo non può condurre – contrariamente all’assunto della ricorrente – l’art. 7, comma 2, delle richiamate Norme di attuazione del P.R.A.E., a mente del quale “nelle aree interessate dai vincoli ricompresi nell’elenco che precede e da ulteriori vincoli, l’attività estrattiva, ove consentita dalla normativa del P.R.A.E. nelle aree perimetrate, è soggetta al parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo”.
La disposizione, in effetti, prevede bensì che il nulla osta dell’autorità preposta alla tutela del vincolo possa, in concreto, superare la astratta preclusione all’esercizio dell’attività estrattiva: ma si deve trattare, con ogni evidenza, di vincoli potenzialmente derogabili (come si evince con chiarezza dall’art. 27, comma 3, più sopra richiamato, delle stesse norme di attuazione).
È chiaro, detto altrimenti, che l’art. 7 cit. non già fonda la derogabilità del vincolo, ma la postula (dovendo la stessa discendere, volta a volta, dallo specifico statuto normativo di ciascuna tipologia di vincolo): ché – a diversamente intenderla – si tratterebbe di regola addirittura illogica e circolare, in quanto finirebbe per generalizzare, in termini paradossali, la deroga a vincoli dichiaratamente inderogabili.
2.5.- Deve desumersi, con il giudice di prime cure, che – una volta accertato (in punto di fatto) il coinvolgimento (anche parziale) delle aree interessate a pregressi “incendi boschivi” – il Comune di (omissis), quale autorità preposta alla tutela del vincolo non avrebbe potuto far altro (come, effettivamente, ha fatto nella vicenda in esame) che rilevare una pregiudiziale ragione ostativa al programmato intervento, senza possibilità di superare il divieto legale con un ipotetico e discrezionale “parere favorevole”, di suo sprovvisto di base di legge.
Bene, pertanto, la Regione Campania – richiesto e conseguito, in sede di conferenza di servizi, il parere negativo (testualmente, la “certificazione […] in ordine ai vincoli gravanti sull’area”, di cui fa parola l’art. 17 delle Norme di attuazione) da parte del Comune di (omissis) – si determinò nei sensi della “improcedibilità ” (una sostanziale reiezione) dell’istanza della società interessata, ex art. 27 delle Norme di attuazione citate.
2.6. – A detto fine – vale ancora soggiungere – non assume rilevanza la circostanza che il sito interessato fosse “perimetrato all’interno del PRAE” (ciò che, comunque, la Regione appellata assume non idoneamente comprovato in giudizio). Appare evidente, invero, che il domandato assenso alla coltivazione dovesse eventualmente discendere non già da un astratto confronto con le previsioni dell’atto di pianificazione generale, ma dalla concreta verifica di compatibilità, da svolgere alle luce delle concrete condizioni dei luoghi, nel quadro dello specifico procedimento autorizzatorio e con espresso atto che ne motivasse le ragioni.
Sono del resto chiare le previsioni di cui a:
a) l’art. 10 delle Norme di attuazione, a mente del quale “l’autorizzazione all’esercizio dell’attività estrattiva è rilasciata, su domanda dell’interessato, dal competente dirigente regionale, all’esito della conferenza di servizi di cui al successivo articolo 17, a seguito dell’acquisizione di tutti i pareri, nulla osta necessari a consentire la coltivazione della cava”;
b) il successivo e già richiamato art. 17, secondo cui “la procedura di rilascio delle autorizzazioni e concessioni estrattive ha avvio con la presentazione di una istanza da parte del richiedente corredata del programma dei lavori e degli allegati necessari, oltre che di una certificazione rilasciata dalla competente autorità comunale in ordine ai vincoli gravanti sull’area interessata dalla ricerca o dalla coltivazione mineraria, e si conclude entro il termine di 120 gg., a seguito di conferenza di servizi indetta, ai sensi ed agli effetti dell’articolo14 della legge n. 241/90 e s.m.i., dal competente dirigente regionale, che invita a partecipare gli enti ed organi il cui parere e/o nulla osta è necessario per il rilascio del permesso di ricerca e della concessione”.
2.7.- Le conclusioni che precedono non sono negate dal rilievo che l’attestazione del vincolo non fosse stata, di fatto, regolarmente censita, nelle forme previste dall’art. 10 l. n. 353 del 2000: basta osservare – alla luce dell’orientamento già espresso da questo Consiglio di Stato, dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi – che “l’operatività dei divieti [de quibus] e, più in generale, delle prescrizioni fondamentali della norma, peraltro caratterizzati dalla sanzione penale in caso di violazione, non può essere subordinata all’effettivo adempimento dell’attività di censimento dei soprassuoli percorsi dal fuoco tramite apposito catasto” (cfr. Cons. Stato, V, 1° luglio 2005, n. 3674; in senso conforme, ai fini penali, Cass., V, 27 giugno 2003, n. 27799). Si tratta, invero, di divieti che derivano direttamente dalla legge e in relazione ai quali il censimento, tramite apposito catasto, dei soprassuoli percorsi dal fuoco ha mero carattere dichiarativo e non costitutivo.”.
4.1. L’unico motivo di revocazione riepiloga, in primo luogo, il contenuto della censura riportata nel motivo sub 1) dell’atto di appello (da pag. 19 a 25, concernenti il primo motivo del ricorso introduttivo, riproposto perché non esaminato in primo grado), soffermandosi sulle parti in cui:
– dopo aver richiamato l’art. 2, commi 1, 5 e 9, della legge della Regione Campania n. 54 del 1985 e s.m.i. e l’art. 5 delle norme tecniche di attuazione del P.R.A.E., era dedotto che “sulla scorta di tale normativa, ancorché il Comune di (omissis) non abbia adeguato il proprio strumento urbanistico al P.R.A.E., le previsioni regionali si sono sovrapposte automaticamente alla pianificazione comunale, con la conseguenza che l’area di cava perimetrata all’interno del P.R.A.E. è da intendersi destinata ex lege ad attività di cava”;
– dopo aver richiamato l’art. 10 della legge n. 353 del 2000 ed evidenziato la ratio di tale normativa, era “sottolineato che nel caso di specie, poiché per effetto della sovrapposizione del P.R.A.E. sullo strumento urbanistico comunale l’area della Sogem srl è destinata ex lege ad attività di cava, i presunti incendi che si sarebbero verificati dal 2007 in poi sull’area interessata dal progetto di ampliamento non comportano l’applicazione del divieto ex art. 10 della legge 353/2000”, rimarcandosi che: il progetto di coltivazione e recupero non avrebbe determinato alcun mutamento di destinazione d’uso, ma restando immutata la destinazione di cava l’intervento sarebbe stato assentibile sia prima che dopo i “presunti” incendi; gli incendi si sarebbero comunque verificati dopo l’entrata in vigore del P.R.A.E., che ha impresso la destinazione di cava; questa è così censita nella cartografia del P.R.A.E. e la relazione del Corpo forestale dello Stato del 26 novembre 2008 esclude che sia stata interessata dagli incendi dal 1997 al 2007;
– si era concluso, quindi, censurando “la ritenuta sussistenza dell’elemento ostativo dell’art. 10 della L. 353/2000 in quanto la realizzazione del progetto era consentita prima degli incendi e non è previsto alcun mutamento di destinazione d’uso per effetto del progetto”.
4.2. L’illustrazione del motivo di revocazione prosegue, richiamando solo per sintesi il motivo sub 2 (da pag. 25 a pag. 26, concernenti il secondo motivo non esaminato in primo grado) dell’atto di appello, relativo alla deduzione dell’illegittimità dell’inderogabilità del vincolo ex lege n. 353 del 2000.
4.3. Date le dette censure, la ricorrente sostiene che il Consiglio di Stato non avrebbe “tenuto in considerazione” il primo motivo di ricorso riproposto con l’atto di appello in quanto avrebbe omesso di pronunciarsi “sul fondamento giuridico del motivo di gravame consistente nell’ambito di applicazione dell’art. 10 della Legge 353/2000 e dei conseguenti interventi ritenuti ammissibili dalla stessa previsione vincolistica […]”, tra i quali si sarebbe dovuto ricomprendere, secondo la ricorrente, il progetto presentato dalla So. S.r.l.
5. Orbene, come sopra anticipato e come è desumibile dai detti argomenti del ricorso per revocazione, la sentenza della quale è chiesta la revocazione ha espressamente affrontato la questione posta col motivo riproposto in appello, occupandosi proprio dell’ambito di applicazione dell’art. 10 della legge n. 353 del 2000, in generale, e con specifico riguardo a “la circostanza che il sito interessato fosse “perimetrato all’interno del PRAE” (ciò che, comunque, la Regione appellata assume non idoneamente comprovato in giudizio)” (pagg. 9-10 della motivazione). Ha tuttavia escluso la rilevanza di siffatta perimetrazione, ritenendo che “il domandato assenso alla coltivazione dovesse eventualmente discendere non già da un astratto confronto con le previsioni dell’atto di pianificazione generale, ma dalla concreta verifica di compatibilità, da svolgere alla luce delle concrete condizioni dei luoghi, nel quadro dello specifico procedimento autorizzatorio e con espresso atto che ne motivasse le ragioni”.
5.1. Giova precisare che, nel prospettare il motivo di revocazione, la ricorrente trascura di considerare sia un’affermazione della sentenza rilevante in punto di realtà processuale (avere cioè la Regione contestato che fosse stato “idoneamente comprovato in giudizio” che il sito interessato fosse “perimetrato all’interno del PRAIE”) sia quanto argomentato al punto 2.5 della motivazione, laddove la sentenza richiama il parere negativo del Comune di (omissis), nel quale il riferimento a “pregressi “incendi boschivi”” (pag. 9 della sentenza) riguarderebbe -come rileva la Regione Campania nella memoria depositata nel presente giudizio- incendi verificatisi più volte nel corso degli anni dal 2000 al 2008 che avrebbero coinvolto la cava, quindi, anche prima dell’inserimento di questa della perimetrazione nel PRAIE (laddove la citazione, nel ricorso per revocazione, della sopra detta relazione del Corpo forestale dello Stato del 2008 non può, di per sé, stare ad indicare un ulteriore lacuna della sentenza d’appello, perché non l’avrebbe considerata e, comunque, non si tratterebbe certo di errore revocatorio, ma tutt’al più di mancato o inesatto apprezzamento di risultanze processuali).
5.2. Nell’illustrare il motivo di revocazione, la ricorrente sostiene piuttosto che, motivando come sopra, il Consiglio di Stato avrebbe:
– frainteso la censura di appello, perché avrebbe valutato la rilevanza della perimetrazione della cava all’interno del P.R.A.E. “marginalmente e al solo dichiarato fine di dimostrare che il rilascio dell’autorizzazione è sempre condizionato alla verifica del regime vincolistico e della concreta compatibilità, ossia sotto un profilo diametralmente diverso da quello prospettato in appello dalla Sogem”;
– omesso di pronunciarsi sulla questione giuridica posta dal motivo di appello, cioè sulla “circostanza che avendo l’area destinazione ad attività di cava in virtù della sovrapposizione delle previsioni del P.R.A.E. allo strumento urbanistico comunale intervenuta nel 2006 ed a fronte di presunti incendi verificatisi nel 2007 in poi sull’area interessata dal progetto di ampliamento, trova piena applicazione quanto previsto dall’ultima parte dello stesso art. 10 della L. 353/2000 che ammette espressamente la realizzazione di edifici, strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive, la cui realizzazione “sia stata prevista in data precedente l’incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data””, sicché il presupposto giuridico del motivo di censura sarebbe stato l’applicabilità dell’art. 10 della legge n. 353 del 2000 nella parte in cui consente l’uso conforme alla destinazione pregressa all’incendio.
6. L’inammissibilità di entrambe tali censure -alla stregua dei principi sopra richiamati, sia quanto ai presupposti della revocazione per errore ex art. 395 n. 4 cod. proc. civ., che quanto alla configurazione dell’errore revocatorio, come errore di fatto e non di diritto- è dovuta alle seguenti, concorrenti, ragioni:
– avendo la sentenza espressamente affrontato il motivo di censura riproposto con l’atto di appello e la questione, ivi formulata, dell’ambito di applicazione dell’art. 10 della legge n. 353 del 2000, la ricorrente per revocazione imputa al collegio decidente, in primo luogo, di avere male interpretato tale questione così come posta in giudizio: all’evidenza è denunciato un errore, o meglio un fraintendimento, nel quale il collegio sarebbe incorso nell’interpretare l’atto di parte (cioè l’atto di appello, nella parte in cui alle pagine da 19 a 25 riportava il motivo di ricorso in primo grado);
– in conseguenza di tale erronea interpretazione della censura, o in aggiunta ad essa, la ricorrente imputa quindi al collegio di avere esaminato il dato di fatto oggetto della censura -l’avvenuto inserimento della cava nella perimetrazione del P.R.A.E.- riferendolo ad un profilo di diritto che sarebbe stato “diametralmente diverso” da quello prospettato dalla Sogem, con l’ulteriore conseguenza di avere perciò trascurato l’argomento di diritto posto a fondamento della censura medesima: all’evidenza, la censura si traduce nell’addebito al collegio di non avere tratto tutte le conseguenze giuridiche dovute (e addirittura prospettate dalla ricorrente) da una determinata situazione di fatto (che il collegio ha esaminato), da correlarsi ad una determinata disposizione di legge (che il collegio ha pure esaminato), sicché si tratterebbe, tutt’al più, di un errore di diritto per la mancata sussunzione di detta situazione di fatto nella disposizione di diritto dell’art. 10 della legge n. 353 del 2000 (con l’ulteriore implicazione, sempre in diritto, della necessità di interpretare tale disposizione, e la deroga ivi prevista, nel senso preteso dalla ricorrente), non certo di un errore di fatto né di un’omissione di pronuncia, nei limiti in cui anche quest’ultima si sia ritenuta rilevante a fine revocatori.
6.1. A riscontro delle ragioni di inammissibilità appena evidenziate, è sufficiente richiamare la consolidata giurisprudenza per la quale:
– l’errore revocatorio, oltre ad apparire immediatamente rilevabile, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (cfr., tra le altre, Cons. Stato, IV, 13 dicembre 2013, n. 6006), non va confuso con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice e non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione, che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall’ordinamento (cfr., tra le altre, Cons. Stato, V, 11 dicembre 2015, n. 5657; id., 12 gennaio 2017, n. 1296; id., 6 aprile 2017, n. 1610; id., 21 agosto 2017, n. 4047, richiamate da Cons. Stato, VI, 17 luglio 2018, n. 4372);
– l’errore di fatto, eccezionalmente idoneo a fondare una domanda di revocazione, è configurabile solo riguardo all’attività ricognitiva di lettura e di percezione degli atti acquisiti al processo, ma non coinvolge la successiva attività di ragionamento e apprezzamento, cioè di interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande, delle eccezioni e del materiale probatorio, ai fini della formazione del convincimento del giudice (cfr. Cons. Stato, V, 7 aprile 2017, n. 1640);
-l’errore revocatorio quindi è configurabile (anche) in ipotesi di omessa pronuncia su una censura sollevata dal ricorrente purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima, in quanto incorso in una vera e propria svista o disattenzione nella lettura degli atti, che ha comportato la totale mancanza di considerazione del motivo (o della domanda), non in un difetto di motivazione della decisione (cfr., tra le altre, Cons. Stato, Sez. V, 12 maggio 2017, n. 2229) o nella mancata specifica confutazione di ciascuno degli argomenti che la parte ha posto a fondamento del motivo (o della domanda), qualora, come accaduto nel caso di specie, questo sia stato esaminato in sentenza
7. In conclusione, la revocazione è inammissibile.
7.1. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sulla revocazione, come in epigrafe proposta, la dichiara inammissibile.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida, in favore della Regione Campania, nell’importo complessivo di Euro 6.000,00 (seimila/00), oltre accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Luciano Barra Caracciolo – Presidente
Federico Di Matteo – Consigliere
Giuseppina Luciana Barreca – Consigliere, Estensore
Anna Bottiglieri – Consigliere
Elena Quadri – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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