Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 12 maggio 2020, n. 2999.
La massima estrapolata:
I diritti di uso pubblico si configurano quali diritti reali che spettano allo Stato, alle Province e ai Comuni, come esplicitato dal medesimo art. 825 c.c., “per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli cui servono i beni [demaniali] medesimi”, ossia si configurano quale peso imposto su di un bene privato nel pubblico interesse, a favore della collettività, presupponendo in tal senso una publica utilitas, ossia l’oggettiva idoneità del bene privato a soddisfare un’esigenza comune ad una collettività indeterminata di cittadini: esigenza, questa, che va intesa in senso ampio, e cioè non come pura e semplice necessità, ma anche come mera comodità.
Detto altrimenti, nelle servitù di uso pubblico, al peso gravante sul fondo servente corrisponde dal lato attivo il conseguimento di fini di pubblico interesse da parte di una comunità di persone considerate uti cives, sicché la loro connotazione peculiare è data dalla generalità di un uso indiscriminato da parte dei singoli e dalla oggettiva idoneità del bene privato al soddisfacimento di tale interesse collettivo
Sentenza 12 maggio 2020, n. 2999
Data udienza 10 dicembre 2019
Tag – parola chiave: Urbanistica – Diritti di uso pubblico – Diritto ex art. 825 c.c. – Servitù privata su suolo pubblico – Limitazione del diritto di proprietà – Area condominiale – Previsione nello strumento urbanistico – Autorizzazione da parte del Comune a favore di un unico soggetto – Insufficienza – Necessità del consenso dell’altra parte – Nella specie del condominio
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6444 del 2009, proposto dal signor Al. Pi., in proprio, e dalla signora Mo. Vi., quale rappresentante del condominio “Pi. Gi.” di via (omissis), rappresentati e difesi entrambi dall’avvocato Br. Ba. e dall’avvocato Fa. Lo., con domicilio eletto dapprima presso lo studio Fa. Lo. in Roma, via (…) e, quindi, presso lo studio dell’avvocato Li. Lo. in Roma, via (…),
contro
– il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Pr. Mi., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Lu. Ma. in Roma, via (…);
– Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Al. Bo., dall’avvocato Pi. Bo. e dall’avvocato An. Ma., con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto Sezione Terza n. 258/2009, resa tra le parti, concernente occupazione di suolo.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e della Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 10 dicembre 2019, il Consigliere Fulvio Rocco e uditi per le parti l’avvocato Ga. St. su delega dell’avvocato An. Ma., l’avvocato Pr. Mi. e l’avvocato Pi. Pa. Po. su delega dell’avvocato Br. Ba.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1.1. Gli attuali appellanti, signor Al. Pi., e signora Mo. Vi., rivestono rispettivamente la qualità di condomino e di amministratrice del condominio “Pi. Gi.”, situato a (omissis) in via (omissis) (rectius: (omissis)) n. (omissis) in posizione frontistante al complesso edilizio costituito dal locale Os. ci..
Essi espongono che il condominio, distinto in catasto al foglio n. (omissis), mappale n. (omissis), è sorto su iniziativa dei signori Gi. Pi. ed altri, ai quali sono poi subentrati la El. di Ge. Pi. & C. S.a.s. e la PI. di Gi. Pi. & C. S.a.s.
L’edificazione è avvenuta in base ad un Piano di recupero di iniziativa privata approvato à sensi degli allora vigenti artt. 11, comma 1, n. 2, lett. b), e 60 della l.r. 27 giugno 1985, n. 61, con deliberazione del Consiglio comunale di (omissis) n. 150 dd. 5 giugno 1989, seguito dalla stipulazione in data 5 settembre 1991 di un’apposita convenzione urbanistica (cfr. doc.ti n. 3 usque 6 del fascicolo di primo grado della parte ivi ricorrente).
Va sin d’ora precisato che i quattro piani fuori terra del condominio si estendono su tre lati di un quadrilatero, al cui centro è stata realizzata una piazzola, di proprietà del condominio medesimo, complessivamente estesa per una superficie di mq. 120 e aperta sul quarto lato confinante su via (omissis), dalla quale vi si accede.
In buona sostanza, quindi, l’edificio condominiale assume la forma c.d. “a ferro di cavallo” prospiciente la via (omissis).
Tale piazzola risultava inizialmente destinata all’epoca dei fatti di causa, à sensi dell’art. 35, comma 6, delle Norme tecniche di attuazione dell’allora vigente Piano regolatore generale del Comune, a “verde pubblico”, destinato a “parchi e ad aree attrezzate per il gioco dei bambini e dei ragazzi e per il riposo degli adulti”, con conseguente possibilità di realizzare ivi “bar, chioschi di ristoro, tettoie aperte, servizi igienici, gioco bambini (con esclusione di attrezzature o campi sportivi” (cfr. doc. 2 di parte appellante, riprodotto anche nel presente grado di giudizio).
A questo riguardo va sin d’ora evidenziato che l’art. 3 della predetta convenzione urbanistica prevedeva la costituzione sulla piazzola sopradescritta di un vincolo di uso pubblico come standard di Piano urbanistico attuativo (PUA).
L’invero singolare riconduzione della piazzola di proprietà condominiale a “verde pubblico” trova spiegazione, secondo gli appellanti, nella necessità – affermata dalla Relazione illustrativa del predetto Piano di recupero – di assicurare una dotazione minima di spazi pubblici, tra cui circa mq. 100 di spazi a verde, e nella correlativa circostanza che il progetto del condominio prevedeva un eccesso di mq. 120 di area a verde, corrispondente – per l’appunto – alla superficie della piazzola (cfr. pag. 7 dell’atto introduttivo del presente giudizio, nota 3).
Il susseguente art. 4 della medesima convenzione, nell’elencare le opere di urbanizzazione primaria, menzionava quindi anche le piazze “coperte e scoperte” (espressione, questa, che gli appellanti considerano del tutto “vaga e generica, considerato oltretutto che di piazza ne era prevista una soltanto”: cfr. ibidem).
Sulla medesima piazzola prospetta un pubblico esercizio denominato “Il. Ba.”, i cui locali rientrano sempre nel sopradescritto complesso condominiale, al quale è stato attribuito il numero civico n. 35 della medesima via (omissis) e di cui è titolare la Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c.
Tale esercizio “osserva l’orario di apertura dalle ore 07.00 alle ore 22.00” e “serve quasi esclusivamente i parenti dei ricoverati” nell’attiguo ospedale (cfr. pag. 2 del controricorso nel presente grado di giudizio presentato dalla medesima società ).
Gli attuali appellanti riferiscono peraltro che alcuni anni dopo l’ultimazione dei lavori di costruzione del condominio la proprietà del predetto bar aveva iniziato a costruire sulla piazzola una grande tettoia allo scopo di dotare di una copertura le sedie e i tavolini riservati agli avventori.
Tale iniziativa della società aveva incontrato una risoluta opposizione da parte degli altri condomini, i quali non avevano prestato il proprio assenso alla realizzazione di tale struttura, “preoccupati dal fatto che la copertura avrebbe non solo ostruito le loro vedute verso la piazzola interna, ma soprattutto trasformato l’area a pertinenza esclusiva del medesimo bar, con prevedibile costante disturbo della quiete, diurna e notturna” (cfr. pag. 5 dell’atto introduttivo del presente giudizio).
L’amministratore del condominio, in tale contesto, aveva anche segnalato la circostanza all’Amministrazione comunale affinché fosse verificata la regolarità edilizia di tale intervento e, in caso contrario, assumesse i conseguenti provvedimenti sanzionatori.
Riferiscono sempre gli appellanti che l’opera in questione è risultata in effetti non assistita da un titolo edilizio e che i lavori erano stati pertanto sospesi con un provvedimento dell’Amministrazione comunale adottato in data 8 agosto 2000 quando peraltro la copertura risultava ormai di fatto già realizzata anche con un suo prolungamento fino all’ingresso del bar.
Gli appellanti precisano quindi che la società titolare del bar ha potuto ottenere la sanatoria per la realizzazione della tettoia verosimilmente in quanto gli elaborati del Piano di recupero raffiguravano – in effetti – al centro della piazzola condominiale un’opera di arredo, costituita – per l’appunto – da una copertura, peraltro destinata ad essere non già edificata quale opera di urbanizzazione, bensì quale opera privata che sarebbe stata quindi realizzata soltanto se e quando i condomini avessero voluto determinarsi in proposito: tanto che – rilevano sempre i medesimi appellanti – la stessa Amministrazione comunale, nell’assentire la sanatoria dell’opera, non ne ha scomputato il relativo importo dal contributo di concessione, riconoscendone sotto questo profilo la natura di opera privata.
Tuttavia – allo stesso tempo – la sanatoria è stata rilasciata a beneficio della società che l’aveva chiesta con atto della Giunta comunale mediante deliberazione n. 6 dd. 25 giugno 2001, nella quale si afferma che agli effetti della sanatoria medesima, disposta à sensi dell’allora vigente art. 77 della l.r. 27 giugno 1985, n. 61, l’opera assumeva natura di pubblica utilità (cfr. doc. 12 di parte ricorrente in primo grado).
Va anche precisato che tale provvedimento è stato impugnato sub R.G. n. 899 del 2001 innanzi al T.A.R. per il Veneto dalle predette PI. S.a.s. di A. Pi. & C. e El. S.a.s. di Pi. Ge. & C., nella loro qualità di proprietarie pro tempore di alcune unità immobiliari facenti parte del condominio, deducendo al riguardo i seguenti ordini di censure:
1) violazione dell’art. 77 della l.r. n. 61 del 1985, posto che la tettoia non costituiva un’opera di urbanizzazione, ossia di un’opera di pubblica utilità ; né tantomeno poteva riguardarsi quale opera pubblica;
2) eccesso di potere per sviamento dall’interesse pubblico, in quanto la realizzazione della medesima tettoia neppure rispondeva ad un pubblico interesse, bensì risultava esclusivamente funzionale all’interesse privato e commerciale della Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c., tanto da prolungarsi per un tratto fino al bar da essa gestito, essendosi pertanto l’Amministrazione comunale avvalsa del potere di cui all’anzidetto art. 77 della l.r. n. 61 del 1985 per perseguire fini diversi da quelli per cui il potere stesso è stato attribuito;
3) eccesso di potere per travisamento dei fatti, in quanto l’Amministrazione comunale aveva del tutto travisato i presupposti di fatto sulla cui base si era determinata, in particolare ritenendo erroneamente: a) che la piazzola su cui realizzare la copertura fosse di proprietà pubblica, o almeno che fosse destinata a divenirlo; b) che la tetttoia realizzata dalla Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c. fosse conforme a quella prevista dal Piano di recupero, mentre la prima recava – a differenza della seconda – un vistoso prolungamento e l’appoggio al muro condominiale, proprio in corrispondenza del bar;
4) eccesso di potere per contraddizione con precedenti manifestazioni di volontà, posto che l’Amministrazione comunale non aveva considerato la tettoia quale opera di pubblica utilità allorquando si era discusso di scomputarla dagli oneri di urbanizzazione, mentre l’aveva reputata opera di urbanizzazione, e cioè di pubblica utilità, allorquando si era trattato di approvare il progetto in sanatoria à sensi dell’anzidetto art. 77 della l.r. n. 61 del 1985;
5) violazione sotto ulteriore profilo dell’art. 77 della l.r. n. 61 del 1985 per incompetenza, in quanto la disciplina in esso contenuta rimetteva al Consiglio comunale – e non all’organo giuntale – l’approvazione sostitutiva del titolo edilizio mancante.
Tale causa è stata chiamata in decisione dal giudice adito soltanto alla pubblica udienza del 6 marzo 2018, e nella sentenza che ha definito il relativo giudizio si legge “considerato che le parti hanno presentato… istanza congiunta di rinvio della trattazione della causa, per la pendenza di trattative volte alla composizione bonaria della lite”: istanza che peraltro il giudice medesimo non ha accolto, “ritenuta la mancanza dei presupposti….. attesi il carattere risalente (della controversia), la genericità del riferimento alle trattative pendenti e l’essere la causa matura per la decisione”, dichiarando quindi, con sentenza semplificata resa à sensi dell’art. 74 c.p.a,. il ricorso inammissibile per omessa sua notifica alla controinteressata Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c. à sensi dell’art. 41, comma 2, c.p.a. (ma forse sarebbe stato più corretto richiamare al riguardo l’art. 21, primo comma, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, vigente all’epoca della proposizione dell’impugnativa) (cfr. sentenza n. 290 dd. 6 marzo 2018 resa dalla Sez. I^ del T.A.R. per il Veneto, prodotta quale doc. n. 12 dal Comune di (omissis) in data 31 ottobre 2019 agli atti del presente giudizio).
Tale sentenza non è stata impugnata e risulta pertanto passata in giudicato.
Ritornando agli originari atti di causa, tre anni dopo l’intervenuta sanatoria della tettoia, con atto Rep. n. 6176 dd. 29 settembre 2004, in esecuzione di quanto previsto dalla ormai risalente convenzione urbanistica dd. 5 settembre 1991, è stato formalmente costituito da tutti i condomini “un vincolo perpetuo” di “servitù di uso pubblico a favore del Comune di (omissis)… sulle aree adibite a servizi, parcheggio e verde pubblici, così censite: Comune di (omissis), NCEU, Foglio (omissis), Mapp. n. (omissis)… sub. (omissis), mq. 40,10 lastrico solare; Mapp. N. (omissis), sub. (omissis), mq. 79,80 lastrico solare” (cfr. ibidem, doc. n. 15), corrispondenti alla piazzola sopradescritta.
Va rilevato sin d’ora che, à sensi dell’art. 2 dell’atto costitutivo di tale vincolo servile, “le parti private costituenti la servitù in oggetto dichiarano di essere divenute proprietarie in forza di titoli validi ed efficaci. A tal fine garantiscono la proprietà della quota a ciascuno spettante delle aree oggetto della presente costituzione di servitù, così come risultanti anche dal regolamento di condominio con annesse tabelle millesimali…”.
A questo punto la Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c. ha chiesto all’Amministrazione comunale di occupare il “suolo pubblico in via (omissis), civico n. 35 per posa tavoli e sedie a servizio dell’esercizio pubblico, nei giorni dal 9 agosto 2006 al 31 dicembre 2006”.
Con provvedimento n. 154/2005 dd. 3 agosto 2005 a firma del Dirigente preposto al Settore Terzo – Servizio gestione patrimonio demanio del Comune di (omissis) tale autorizzazione è stata rilasciata “in via precaria – temporale”, “Eseguito il sopralluogo sul posto unitamente al Servizio Viabilità “, “Visto il parere favorevole della Giunta Comunale” non meglio specificato nei suoi estremi, nonché “Visti gli artt. 20 e 21 del Codice della Strada (d.lgs. n. 285 del 1992) e artt. dal n. 29 al n. 43 del Regolamento (d.P.R. n. 495 del 1992)”.
Tale autorizzazione, comportante l’occupazione di una superficie di mq. 75,52 (quindi pari a quasi due terzi della complessiva estensione della piazzola), è stata testualmente rilasciata “senza il pregiudizio del diritto di terzi” ed è stata contestualmente “vincolata all’osservanza” di alcune “prescrizioni speciali”, tra cui, in particolare, “che il suolo pubblico non venga manomesso, eventualmente sia ripristinato a regola d’arte”.
1.2. Con ricorso proposto sub R.G. n. 2706 del 2005 innanzi al T.A.R. per il Veneto i signori Al. Pi. e Mo. Vi. hanno chiesto l’annullamento di tale provvedimento, deducendo, quale censura assorbente la circostanza che l’area interessata non era di proprietà pubblica e che, comunque, essa non era utilizzabile come plateatico da parte di un singolo in ragione della sua destinazione servile a beneficio della collettività .
1.3. Si è costituito in tale primo grado di giudizio il Comune di (omissis), sollevando eccezioni preliminari e concludendo comunque per la reiezione del ricorso.
1.4. Si è parimenti costituita nel medesimo primo grado di giudizio la Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c., rassegnando analoghe conclusioni.
1.5. Con ordinanza n. 1025 dd. 13 dicembre 2005, emessa à sensi dell’allora vigente art. 21, ottavo comma, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, come aggiunto dall’art. 3 della l. 21 luglio 2000, n. 205, la Sezione III^ dell’adito T.A.R. ha accolto la domanda di sospensione cautelare del provvedimento impugnato, “considerato che pare opportuno richiamare il principio che vieta l’aggravamento della servitù, sicché l’atto impugnato appare confliggere con detto principio”.
1.6. Susseguentemente, con deliberazione n. 162 dd. 24 luglio 2006 la Giunta comunale di (omissis) ha adottato un atto di indirizzo al fine di “rivitalizzare il centro storico della città tramite il rilascio da parte dei Dirigenti competenti di autorizzazioni e/o provvedimenti idonei alla realizzazione di costruzioni e/o impianti ad uso bar, chioschi di ristoro, tettoie aperte, servizi igienici, gioco bambini, ecc…. previo apposito convenzionamento, sulle aree a verde pubblico, siano di demanio comunale ovvero gravate da uso pubblico, fatti salvi i diritti dei terzi”.
1.7. In conseguenza di ciò, con provvedimento Prot. n. 34538 dd. 7 settembre 2006 il medesimo Dirigente preposto al Settore Terzo – medio tempore ridenominato Servizio patrimonio demanio – del Comune di (omissis) ha accolto una nuova richiesta della medesima società intesa ad ottenere “la occupazione temporanea di suolo pubblico in Viale (sic) (omissis) (civico n. (omissis)) con sedie e tavoli a servizio del proprio esercizio”; e ciò, “Vista la convenzione rep. 3647/1991 con la quale i proprietari del terreno si impegnavano tra l’altro a ‘costituire vincolo di destinazione perpetua a titolo gratuito delle aree da destinare a… area a verde di mq. 120′”; “Vista la delibera della Giunta Comunale n. 162 del 24 luglio 2006 con la quale è stato fissato un atto di indirizzo atto a rivitalizzare il centro storico della città tramite il rilascio da parte dei Dirigenti competenti di autorizzazioni e/o provvedimenti idonei alla realizzazione di costruzioni e/o impianti ad uso bar, chioschi di ristoro, tettoie aperte, servizi igienici, gioco bambini ecc. su aree a verde pubblico anche gravate da uso pubblico; Visto il parere dell’Ufficio Legale Contratti dell’1 settembre 2006; … Visti gli artt. 20 e 21 del Codice della Strada (d.lgs. n. 285 del 1992) e artt. dal n. 29 al n. 43 del Regolamento (d.P.R. n. 485 del 1992)”.
L’occupazione in tal caso è stata assentita per una superficie complessiva di mq. 50,99 (quindi minore rispetto a quanto assentito con il precedente provvedimento), precisando – altresì – che potevano essere collocati ivi 10 tavolini del diametro di cm. 0,60 e 40 sedie,
1.8. Con motivi aggiunti di ricorso il (omissis) e la (omissis) hanno pertanto chiesto l’annullamento anche di tali ulteriori provvedimenti.
1.9. L’Amministrazione comunale e la società controinteressata hanno aderito anche a tale ulteriore contraddittorio, parimenti concludendo per la reiezione della nuova impugnativa avversaria.
1.10. Con sentenza n. 258 dd. 4 febbraio 2009, recante un’ampia e dettagliata motivazione, la medesima Sezione III^ dell’adito T.A.R. ha respinto l’originario ricorso e i motivi aggiunti susseguentemente proposti, rilevando innanzitutto che, secondo la tesi fondamentalmente dedotta dai ricorrenti, l’area di cui trattasi non sarebbe compatibile con l’uso a plateatico, e che tale assunto comportava pertanto la necessità “di un accertamento incidentale, pregiudiziale alla decisione sulla legittimità del provvedimento impugnato, e, dunque, ammissibile anche davanti a questo giudice (art. 7, l. 1034 del 1971)…. Il primo motivo del ricorso principale è rubricato nella violazione degli artt. 20 e 21 del d.lgs. n. 285 del 1992, nonché degli artt. 29-43 del d.P.R. n. 495 del 1992, e nell’eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto d’istruttoria. Esso muove dall’affermazione che il cortile interno, interessato dai due successivi provvedimenti, non sarebbe un’area pubblica, ma un’area privata ‘soggetta a semplice servitù d’uso pubblico, la cui proprietà è stata trasferita e appartiene per millesimi ai singoli titolari delle unità immobiliari in base a contratti regolarmente trascrittà . L’errore sarebbe confermato dall’incongruo richiamo, contenuto nell’autorizzazione, alle disposizioni appena citate, le quali stabiliscono i requisiti necessari per il rilascio dell’autorizzazione ad occupare suolo pubblico. Al contrario, l’area in questione non sarebbe una strada pubblica, ovvero un altro spazio pubblico quanto un’area scoperta, ‘pertinenziale di un edificio condominiale, caratterizzata… dal peso di una servitù di uso pubblicò . Ciò risulterebbe da una sequenza documentale, costituita: a) dal piano di recupero, approvato con deliberazione 5 giugno 1989, n. 150, del consiglio comunale di (omissis), seguito dalla convenzione urbanistica 5 settembre 1991: essi prevedono la realizzazione della corte interna, e la costituzione gratuita di un vincolo di uso pubblico; b) dei contratti di vendita delle unità immobiliari incluse nel condominio, le quali comprendono una quota dell’area de qua; c) il decreto 10 settembre 2004, n. 171 con cui il dirigente del settore comunale urbanistica autorizza la costituzione di una servitù perpetua d’uso pubblico sull’area, seguita dall’atto di costituzione della stessa servitù, di data 24 settembre 2004, il quale, specificano i ricorrenti, ‘riguarda ancora e soltanto un diritto parziale costituito su un’area di proprietà privatà …Per altro verso, poi, il provvedimento sarebbe viziato da grave carenza d’istruttoria, e ciò anche qualora l’area fosse effettivamente pubblica, poiché, prima di autorizzare il plateatico, si sarebbe dovuto procedere alla comparazione dei diversi interessi, anche privati, qui contrapposti accertando se l’autorizzazione non compromettesse la vivibilità di un’unità immobiliare privata…Il secondo motivo – concretamente irrilevante, come si vedrà – è rubricato nella violazione e falsa applicazione degli artt. 38 e 39 del d.lgs. n. 507 del 1993, nonché nell’eccesso di potere per travisamento dei fatti sotto altro profilo. Rilevano, infatti, i ricorrenti – richiamando Cass. s.u., 18 marzo 1999, n. 158 – come la titolarità di una servitù di pubblico passaggio su un’area privata, consenta all’Ente d’esercitare ‘i soli poteri che siano rivolti a garantire e disciplinare l’uso generale da parte della collettività, nell’ambito del pubblico interesse giustificativo della servitù medesimà . Pertanto, ove il titolo costitutivo della servitù non lo consenta espressamente, non si possono concedere ad un singolo usi eccezionali e particolari su porzioni di detto immobile, non potendo, d’altro canto, neppure farsi discendere dalla parificazione delle aree private soggette a servitù di pubblico passaggio, a quelle del demanio o del patrimonio indisponibile, operata ex artt. 38 e 39 cit. agli effetti dell’applicazione della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche. Tale parificazione, fondata sulla circostanza che l’occupazione limita il godimento della servitù da parte della collettività e, dunque, può importare un corrispettivo, attiene esclusivamente al piano dei rapporti tributari e comporta soltanto che il Comune può pretendere la tassa da chi occupa l’area in forza di contratto con il privato proprietario o possa interferire, inibendolo o subordinandolo a propria autorizzazione, in ragione della suindicata giustificazione, sul diritto del proprietario di cedere a terzi l’uso di porzioni dell’area…Invero, soprattutto dopo l’esposizione del secondo motivo di ricorso, pare chiaro a questo Collegio come la vertenza proceda da un fraintendimento – il quale traspare anche dal provvedimento cautelare emesso da questa Sezione – e cioè che sull’area in questione, certamente privata, gravi una servitù prediale pubblica di passaggio…È anzitutto opportuno rammentare che i diritti reali pubblici parziali su beni privati, comunque definiti, non possono essere contenuti nell’ambito delle servitù prediali: ex art. 825 c.c., i diritti reali spettanti agli Enti territoriali su beni appartenenti ad altri soggetti, sono sottoposti al regime del demanio pubblico, anzitutto quando i diritti stessi sono costituiti ‘per l’utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedentà – e qui, indubbiamente, il riferimento più immediato è alle servitù prediali – ma, altresì, ‘per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimà …Secondo questa specifica disposizione, dunque, si possono avere in astratto dei diritti reali pubblici (ovvero, utilizzando una comune locuzione, delle servitù d’uso pubblico) che non richiedono un vincolo funzionale con altri beni pubblici (qui, ad esempio, la corte non è di passaggio tra due spazi pubblici) ed hanno il loro limite nello scopo, ed un contenuto stabilito dal titolo, il quale può essere costituito da un atto, volontario o coattivo, ovvero da una situazione di fatto tipica (usucapione, dicatio ad patriam)…. Per questi diritti non si pone, invero, una questione d’aggravamento della servitù, ma di compatibilità dell’utilizzazione, data al bene privato dall’Ente pubblico, con il contenuto del diritto reale pubblico, secondo il suo titolo costitutivo: ed è appunto questo a dover formare ora oggetto di esame…Nella fattispecie, invero, come già accennato, il diritto reale è sorto pattiziamente: e per determinarne natura e contenuto è necessario considerare quegli stessi atti cui accennano i ricorrenti nel primo motivo di ricorso…Orbene, il 5 settembre 1991, fu sottoscritta la convenzione per l’attuazione del piano di recupero tra il Comune e la proprietà : quest’ultima s’impegno (art. 3) a costituire ‘un vincolo di destinazione perpetua a titolo gratuito delle aree da destinare a: area a servizi e parcheggio di m² 635; area a verde m² 120’, e quindi, per un totale di m² 755…Realizzato l’edificio, furono cedute le unità immobiliari, richiamando negli atti di compravendita la stessa convenzione, divenuta così vincolante anche per gli aventi causa…Dopo che, nel 2004, fu infine emesso il certificato di collaudo per le opere d’urbanizzazione relative al piano, venne formato l’atto pubblico 24 settembre 2004, sottoscritto dal Comune e dalla proprietà …L’art. 1 di questo stabilisce che, in ottemperanza degli obblighi assunti nella predetta convenzione, i comparenti costituiscono servitù di uso pubblico a favore del Comune di (omissis), che accetta, e precisamente sulle aree adibite a servizi, parcheggio e verde pubblica , per una superficie complessiva di m² 771 in eccedenza a quanto previsto dalla convenzione in oggetto, rientrante nei limiti di tolleranza catastale …Tra questi sono le aree, qualificate come lastrico solare, a mapp. n. (omissis) sub (omissis), per m² 40,10, e sub (omissis) per m² 79,90: nel complesso esse – la documentazione in atti non lascia dubbi – identificano la corte interna e costituiscono i m² 120 aventi, sin dal 1991, destinazione a verde pubblico…Attraverso l’atto de quo è stata dunque pattiziamente costituita in perpetuo una servitù a verde pubblico (e non, si badi bene, una servitù prediale pubblica, di passaggio o di altro genere) in cui, al peso gravante sul fondo servente, si vuol far corrispondere immediatamente un vantaggio in favore di una comunità di persone considerate uti cives…La servitù pubblica de qua è dunque un diritto reale pubblico dell’Ente, costituito (non è superfluo ribadirlo) per perseguire ‘fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servonò i beni demaniali – o patrimoniali indisponibili – del Comune, ex art. 825 c.c., e non invece per l’utilità di un determinato suo bene pubblico, rispetto al quale l’area privata si possa qualificare come servente, e per la quale si possa porre una questione di aggravamento…La questione successiva, a questo punto, è di stabilire quale sia il contenuto della servitù in questione, ovvero quali poteri e facoltà essa attribuisca all’Ente pubblico sul bene che ne costituisce oggetto. Il titolo – e cioè l’atto pubblico del 2004 – non contiene per vero alcun elemento risolutivo; a sua volta, la convenzione del 1991 stabilisce che la ditta attuatrice s’impegna a costituire vincolo di destinazione perpetua a titolo gratuito delle aree da destinare a servizi e parcheggio e ad area a verde, e ciò all’art. 3, intitolato vincolo di destinazione perpetua di uso pubblico delle aree per le opere di urbanizzazione primaria …Ancora – e quanto si esporrà è forse utile, per restituire le giuste dimensioni alla vicenda – già la relazione del dicembre 1988 alla proposta privata per il piano di recupero poi approvato, nel paragrafo ‘indici e standards urbanisticà, dopo aver individuato la superficie utile da edificare, e le relative destinazioni, puntualizza come, ex art. 9 delle norme d’attuazione del piano regolatore generale, fosse necessaria una determinata dotazione minima di spazi pubblici, tra cui circa m² 100 di spazi a verde: e aggiunge che, in progetto, erano stati in eccesso previsti m² 120 d’area a verde (e si tratta del noto cortile, dunque liberamente scelto dal proponente)…Considerato che fonte del vincolo di destinazione è la disciplina urbanistica locale, è dunque a questa, che si deve fare rinvio per determinare il contenuto della destinazione a verde, e, specificatamente, all’art. 35 (zone per spazi pubblici a servizio della residenza) delle citate n. t.a. del piano. Segnatamente, il paragrafo 6 è appunto intitolato alle zone a verde pubblico, destinate a parchi e ad aree attrezzate per il gioco dei bambini e dei ragazzi e per il riposo degli adulta : in esse, seguita la previsione, possono essere realizzate unicamente ‘costruzioni ad uso bar, chioschi di ristoro, tettoie aperte, servizi igienici, gioco bambini (con esclusione di attrezzature o campi sportivi)’…Ora, sebbene sia evidente che la disposizione non sia stata immaginata per una corte condominiale, la stessa si può ben applicare anche a quest’ultima: sedie e tavolini sono infatti qualificabili come attrezzature che servono al riposo degli adulta ; e, d’altra parte, se in un’area verde si possono realizzare costruzioni ad uso bar e chioschi di ristoro, a fortiori vi potranno essere installati sedie e tavolini, che ne sono meri accessori. E, va aggiunto, proprio questa stessa disposizione, nulla specificando sulla proprietà di tali costruzioni, non preclude in alcun modo che queste siano private, e neppure che siano assentite con un provvedimento comunale che permetta un uso particolare, sebbene parziale e strumentale, di un’area a verde pubblico…In sintesi, secondo la disciplina applicabile, non v’è contrasto – o, almeno, questo non esiste nei termini proposti in ricorso – tra la destinazione a verde pubblico del cortile del condominio (omissis), e l’autorizzazione al plateatico oggetto del ricorso principale, essendone tale utilizzo pienamente conciliabile, secondo quanto sin qui esposto, con la destinazione ad area verde. Inoltre, non c’è dubbio che la servitù di uso pubblico consenta all’Ente di utilizzare il bene, seppure privato, in tutti i modi conciliabili con la servitù d’uso medesima, e quindi anche destinandolo a plateatico di un bar… Il primo motivo di ricorso è quindi infondato, e ciò vale anche per la parte in cui si censura il provvedimento perché l’Amministrazione non avrebbe verificato la compatibilità della destinazione con l’interesse dei vicini. In sé, invero, l’autorizzazione ad occupare uno spazio d’uso pubblico di norma non determina lo svolgimento di un’attività pregiudizievole, tale da richiedere una valutazione preliminare di pericolosità da parte dell’Amministrazione. Spettava dunque ai ricorrenti indicare quali peculiari elementi non siano stati tenuti nella dovuta considerazione dall’Amministrazione, o quale singolare pregiudizio – prevalente sugli altri interessi coinvolti – sia derivato dall’apertura del plateatico: ma nulla di tutto ciò è esposto in ricorso, il quale si limita ad esporre doglianze del tutto generiche…Inammissibile è poi il secondo motivo di ricorso, il quale, in realtà, più che individuare un profilo d’illegittimità del provvedimento impugnato, è destinato a confutare un possibile suo fondamento normativo: ma quanto sopra esposto rende del tutto irrilevante il contenuto della censura…I motivi aggiunti, proposti contro la seconda autorizzazione, disposta per un breve intervallo nel 2006, perdono interesse, una volta accertata la legittimità del primo provvedimento, il quale comprende anche l’intervallo relativo al secondo…In ogni caso, dei motivi nuovi proposti (per altra parte le censure corrispondono a quelle formulate con il ricorso principale) è certamente infondato quello che assume la nullità della nuova autorizzazione per contrasto con il ‘giudicato cautelarè , asseritamente intervenuto per effetto della mancata impugnazione in termini dalla citata ordinanza 1025/05 della Sezione…Orbene, anzitutto il rimedio per il caso che l’Amministrazione non presti ottemperanza alle misure cautelari concesse, non è il ricorso ordinario di legittimità, ma l’istanza di cui all’art. 21, XIV comma, della l. n. 1034 del 1971. In ogni caso, è bensì nullo ex art. 21 septies della l. n. 241 del 1990 il provvedimento adottato in elusione od in violazione del giudicato, ma tale deve intendersi la statuizione contenuta nella sentenza passata in giudicato formale e non in un’ordinanza cautelare, provvedimento in sé provvisorio ed interinale, e dunque privo dei caratteri di stabilità e definitività perché le sue prescrizioni possano essere qualificate come un giudicato…La seconda censura è quella di violazione dell’art. 7 della l. n. 241 del 1990, non essendo stato il nuovo provvedimento preceduto dal prescritto avviso d’avvio nei confronti del condominio e degli ulteriori controinteressati. Peraltro, può qui trovare agevolmente applicazione l’art. 21 octies della l. n. 241 del 1990: è stato cioè dimostrato in giudizio che le parti controinteressate, e qui ricorrenti, non disponevano di validi argomenti perché il plateatico non fosse autorizzato, e l’avviso era pertanto superfluo…Il ricorso va dunque nel complesso rigettato, ma le incertezze nella corretta ricostruzione del titolo nella disponibilità dell’Amministrazione inducono all’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti”.
2.1. Con l’appello in epigrafe i Signori Al. Pi. e Mo. Vi. chiedono ora la riforma della surriportata sentenza, deducendo al riguardo i seguenti ordini di motivi:
i) erronea e falsa applicazione dell’art. 35.6 delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore generale del Comune di (omissis); violazione dell’art. 11 del t.u. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380; erronea qualificazione giuridica e sostanziale capovolgimento dei termini del rapporto costituito per servitù di uso pubblico; carenza assoluta di motivazione su un punto decisivo della controversia;
ii) error in iudicando rispetto ai presupposti di fatto degli atti impugnati: inesistenza del presupposto del “suolo pubblico” ai fini delle autorizzazioni; error in iudicando con riferimento alla mancata comparazione degli interessi, come riverberatasi anche nel mancato avvio del procedimento all’esito del quale è stata emessa la seconda autorizzazione; violazione e falsa applicazione dell’art. 21-octies della l. n. 241 del 1990;
iii) error in iudicando con riferimento al diritto di uso pubblico; violazione dell’art. 825 c.c.;
iv) error in iudicando rispetto al secondo motivo di ricorso: violazione e falsa applicazione di legge: artt. 38 e 39 del d.lgs. n. 507 del 1993; eccesso di potere per travisamento dei fatti sotto altro profilo.
2.2. Si è costituita anche nel presente grado di giudizio la Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c., eccependo in via preliminare l’improcedibilità dell’appello in epigrafe per sopravvenuto difetto di interesse alla sua decisione, posto che dopo la sua proposizione sono state puntualmente rilasciate dall’Amministrazione comunale, anno per anno, ben 13 analoghe autorizzazioni ad occupare con tavoli e sedie una porzione della piazzola, ivi compresa quella n. 10/2019 dd. 17 gennaio 2019, da ultimo emessa.
Tali ulteriori provvedimenti, debitamente prodotti nel presente grado di giudizio dalla medesima società, ad avviso della stessa sostanzierebbero ad oggi una posizione giuridica degli attuali appellanti riconducibile ad una sopravvenuta acquiescenza della nuova situazione attualmente venutasi a determinare, in quanto da loro mai giudizialmente contestati.
In subordine tale parte insiste per la reiezione dell’appello.
2.3. Si è parimenti costituito anche nel presente grado di giudizio il Comune di (omissis), producendo identica documentazione e rassegnando analoghe conclusioni.
2.4. All’odierna pubblica udienza la causa è stata trattenuta per la decisione.
3.1. Preliminarmente il Collegio deve farsi carico di disaminare l’eccezione di improcedibilità dell’appello in epigrafe per sopravvenuto difetto di interesse alla sua decisione, comunemente sollevata dall’Amministrazione comunale e dalla Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c. con riguardo alla circostanza dell’avvenuto rilascio da tredici anni a questa parte, e quindi sino al corrente anno, di analoghe autorizzazioni ad occupare una porzione della piazzola in questione con sedie e tavolini senza contestazioni di sorta da parte degli attuali appellanti, e quindi con la loro acquiescenza.
Tale eccezione non può essere accolta.
Fondatamente gli appellanti invocano, infatti, al riguardo l’assunto secondo cui “se è vero che l’interesse all’impugnazione deve sussistere sia al momento della proposizione del ricorso sia, e soprattutto, al momento in cui esso viene spedito per la decisione in modo da recare alla parte un vantaggio concreto, è altrettanto vero che tale principio deve trovare un temperamento nei casi in cui si tratti di situazioni che producono effetti giuridici limitati nel tempo ma che, per loro natura, sono suscettibili di ripresentarsi in maniera ripetitiva, con la conseguenza che in questi casi deve essere riconosciuto il permanere dell’interesse al ricorso in capo al ricorrente, al fine di consentirgli di risolvere il problema di merito e di impedire il ripresentarsi di una analoga situazione lesiva del suo interesse” (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 12 novembre 2012, n. 571; in termini analoghi ancora la medesima Sezione V con la precedente sentenza n. 4067 dd. 28 agosto 2008).
In tal senso, quindi, va evidenziato che l’originario interesse a ricorrere degli attuali appellanti non può, nella specie, reputarsi ad oggi estinto in dipendenza della circostanza che nelle more del giudizio è decorso il tempo durante il quale i provvedimenti impugnati hanno dispiegato i propri effetti.
Semmai l’interesse medesimo permane, sia in quanto la sentenza eventualmente favorevole agli attuali appellanti potrebbe comunque vincolare l’Amministrazione pro futuro, impedendo la reiterazione dell’illegittimità da loro lamentata mediante l’emanazione di ulteriori provvedimenti analoghi a quelli impugnati, sia in quanto costituirebbe presupposto di ordine strumentale per poter poi fondare la proposizione di un’ulteriore azione giudiziale avente ad oggetto il risarcimento degli eventuali danni subiti.
In tal senso nella presente sede di giudizio rileva pertanto la giurisprudenza, del tutto consolidata, secondo la quale la sentenza dichiarativa del sopravvenuto difetto di interesse alla decisione nel merito della causa può essere pronunciata soltanto al verificarsi di una situazione di fatto o di diritto nuova, che comunque muta radicalmente la situazione esistente al momento della proposizione del ricorso e che sia tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della sentenza nel merito per aver fatto venir meno per il ricorrente ovvero per l’appellante, qualsiasi residua utilità della pronuncia sulla domanda azionata, foss’anche soltanto strumentale o morale (così, ad es., tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. IV, 8 agosto 2019, n. 5639, e Sez. III, 19 novembre 2018, n. 6489; cfr., altresì, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 15 settembre 2015, n. 4307; Cons. Stato, Sez. III, 14 marzo 2013, n. 1534): il che – per quanto rilevato dianzi – non è dunque ravvisabile nel caso di specie, anche avuto riguardo alla necessità in tal senso di una valutazione di ogni fattispecie che deve essere improntata a criteri rigorosi e restrittivi, al fine di evitare che la preclusione dell’esame del merito della controversia si trasformi in un’inammissibile elusione dell’obbligo del giudice di provvedere sulla domanda (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. III, 14 marzo 2013, n. 1534; Sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4637; Sez. V, 9 settembre 2013, n. 4473, e 27 marzo 2013, n. 1808)
Né, comunque, va sottaciuto che tutti gli anzidetti, successivi 13 provvedimenti di autorizzazione rilasciati nei confronti della Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c. risultano nella sostanza meramente confermativi di quelli qui impugnati in primo grado.
Essi invero conseguono da un’istruttoria riesperita anno per anno mediante canoni indefettibilmente ripetitivi, con la scontata conseguenza che non evidenziano nel loro contenuto assunti motivazionali differenti rispetto a quelli contenuti nella seconda autorizzazione adottata dall’Amministrazione comunale e nella presente sede contestata.
Rispetto a tale precedente questi ulteriori provvedimenti si limitano pertanto “a reiterarlo, riprodurlo o ripeterlo meccanicamente evidenziando, quindi, l’inesistenza di qualsiasi connotato di autonomia decisoria, circostanza che comporta in caso di annullamento del primo provvedimento, la conseguenziale caducazione dell’atto confermativo” (così, puntualmente, Cons. Stato, Sez. V, 6 marzo 1990, n. 259), da intendersi a sua volta – come, per l’appunto, nel caso di specie – come atto che, per se stante, non risulta idoneo a riaprire i termini di impugnazione proprio in quanto adottato senza un’istruttoria sostanzialmente nuova rispetto alla precedente e senza una altrettanto rinnovata ponderazione di interessi (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 27 gennaio 2017, n. 357, id. 12 ottobre 2016, n. 4214, e 12 febbraio 2015, n. 758).
Né pare superfluo rimarcare che tale indirizzo giurisprudenziale in ordine all’esenzione di impugnativa nei riguardi degli atti meramente confermativi ben si attaglia a tutte le vicende analoghe alla presente fattispecie, nella quale gli attuali appellanti hanno invero tempestivamente impugnato in primo grado anche la seconda autorizzazione rilasciata dall’Amministrazione comunale mediante una parziale revisione del precedente impianto motivazionale, poi puntualmente confermata e divenuta tralatizia ad ogni riedizione annuale dell’assolutamente omologa azione amministrativa.
In tale contesto, quindi, la prospettazione delle parti appellate nel senso della sussistenza di un onere per i ricorrenti in primo grado di riproporre altrettanto omologhe impugnazioni di anno in anno per ben 13 volte determinerebbe, invia del tutto illogica, quella “inutile proliferazione di giudizi, risorgendo l’interesse ogni qualvolta si riproduca la medesima situazione” che la giurisprudenza – per l’appunto – intende da sempre razionalmente evitare laddove tempera il principio della sussistenza dell’interesse al momento della decisione quando “la situazione determinata dal provvedimento impugnato sia per natura ripetitiva, cioè tenda a ripresentarsi con le stesse caratteristiche, in relazione agli stessi soggetti” (così, puntualmente, Cons. Stato, Sez. V, 23 marzo 1991, n. 344).
3.2.1. Premesso tutto ciò, l’appello in epigrafe va accolto.
3.2.2. L’art. 825 c.c., intitolato “Diritti demaniali su beni altrui”, dispone che sono assoggettati al medesimo regime del demanio pubblico di cui all’art. 823 del medesimo codice – ossia sono inalienabili, non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi stabiliti dalle leggi che lo riguardano, e alla loro tutela la pubblica amministrazione che ne è titolare può provvedere in via ordinaria secondo la disciplina dello stesso codice civile apprestata per la difesa della proprietà e del possesso, ovvero mediante azione amministrativa – “i diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per l’utilità di alcuno dei beni indicati negli articoli precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi”.
E’ ben noto che tale articolo disciplina in tal modo unitariamente i principi informatori dell’istituto delle cc.dd. “servitù di uso pubblico”, invero definite correntemente come “diritti di uso pubblico”, le quali pertanto rientrano nel più ampio novero dei diritti reali pubblici di godimento costituiti su immobili di proprietà privata.
Proprio in tale contesto l’articolo in esame comunque concettualmente distingue le cc.dd. “servitù prediali pubbliche” e i veri e propri “diritti” (o “servitù “) “di uso pubblico”.
Le prime corrispondono ai diritti reali ivi indicati come “costituiti per l’utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedenti”, mentre i secondi corrispondono ai diritti costituiti “per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi”.
Le servitù prediali pubbliche sono pertanto particolari diritti reali spettanti alle pubbliche amministrazioni e che gravano su beni di proprietà privata.
I privati risultano in tal senso destinatari di una limitazione del loro diritto in funzione della pubblica utilità segnatamente posta a vantaggio di un bene demaniale, alla stessa guisa dell’istituto della servitù prediale disciplinato dagli artt. 1027 e ss. c.c., e ciò anche se la relativa disciplina è prevalentemente devoluta a leggi speciali e l’imposizione del vincolo servile avviene pertanto mediante l’emanazione di un provvedimento amministrativo (cfr. art. 1032, primo comma, c.c.).
In tale ipotesi è infatti la stessa disciplina di settore di diritto pubblico che prevede per talune categorie di beni, in ragione di un rapporto di funzionalità fra bene pubblico e bene privato, la costituzione in favore del primo di un diritto reale parziario, quale servitù coattiva: il che accade, ad esempio, per le funicolari aeree, gli elettrodotti, la servitù di scolo delle acque sui terreni posti ai lati (o sottostanti) le strade pubbliche, le servitù militari o quelle aeronautiche.
Dalle “servitù prediali pubbliche”, come sopra sintetizzate, devono essere quindi distinti i cc.dd. “diritti di uso pubblico”, contemplati nel medesimo art. 825 c.c, sebbene – come dianzi rilevato, e come anche accaduto nel caso di specie – seguitino comunque ad essere parimenti definiti nel linguaggio comune quali “servitù pubbliche”, ancorché – per l’appunto – “non prediali”.
Essi consistono in un diritto reale di cui è titolare un ente pubblico al fine del perseguimento di un pubblico interesse e che è gravante su beni appartenenti a privati, seppur in assenza di un rapporto funzionale tra beni.
Sulla base di un diritto di uso pubblico una determinata collettività di persone può infatti essere in tal modo ammessa ad una parziale utilizzazione di tali beni che, in tal modo, pur rimanendo di proprietà privata, nel contempo sono destinati al soddisfacimento del predetto pubblico interesse.
L’esempio più significativo è costituito dalle strade o spazi privati aperti al pubblico passaggio, come accade, tra l’altro, per le cc.dd. “strade vicinali” di cui all’allegato F, artt. 1, 9, 18, 19, 20, 51 e 84 del r.d. 20 marzo 1865, n. 2248, e al d.l. lgt. 1 settembre 1918, n. 1146.
Giova rimarcare che il fondamentale elemento distintivo tra servitù prediali pubbliche e diritti di uso pubblico risiede comunque nell’assenza, nei secondi, di un rapporto funzionale tra beni.
I diritti di uso pubblico sussistono infatti in questa evenienza a favore delle collettività non già per l’utilità di un bene demaniale, bensì in quanto ogni membro della collettività medesima può legittimamente fruire del bene asservito nei limiti del relativo vincolo al pubblico interesse, realizzato mediante la costituzione di un diritto reale parziale, non obliterante la proprietà privata, ma che ne funzionalizza il contenuto al pubblico interesse, coerentemente all’art. 42 Cost. e come conseguente obbligo contemplabile dall’ordinamento giuridico nel contesto del c.d. “statuto della proprietà privata”, à sensi degli artt. 832 e ss. c.c..
Va dunque ribadito che in tal senso i diritti di uso pubblico si configurano quali diritti reali che spettano allo Stato, alle Province e ai Comuni, come esplicitato dal medesimo art. 825 c.c., “per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli cui servono i beni [demaniali] medesimi”, ossia si configurano quale peso imposto su di un bene privato nel pubblico interesse, a favore della collettività, presupponendo in tal senso una publica utilitas, ossia l’oggettiva idoneità del bene privato a soddisfare un’esigenza comune ad una collettività indeterminata di cittadini: esigenza, questa, che va intesa in senso ampio, e cioè non come pura e semplice necessità, ma anche come mera comodità .
Detto altrimenti, nelle servitù di uso pubblico, al peso gravante sul fondo servente corrisponde dal lato attivo il conseguimento di fini di pubblico interesse da parte di una comunità di persone considerate uti cives, sicché la loro connotazione peculiare è data dalla generalità di un uso indiscriminato da parte dei singoli e dalla oggettiva idoneità del bene privato al soddisfacimento di tale interesse collettivo (cfr. in tal senso, ad es., Cass. civ., Sez. II, 10 gennaio 2011, n. 333).
Tali posizioni giuridiche devono dunque essere riguardate quali diritti reali sui generis, incidenti sul contenuto della proprietà privata ma non estintivi della stessa, assoggettati al regime previsto per i beni del demanio pubblico, e – quindi – inalienabili e imprescrittibili.
In dipendenza di ciò, pertanto, se l’assoggettamento di un’area privata a servitù di uso pubblico non comporta per il proprietario – come più volte ripetuto innanzi – la perdita del diritto di proprietà del bene, del quale infatti egli può sempre chiedere la tutela in sede giudiziale, l’ente pubblico – per converso – non essendo titolare del diritto dominicale, bensì di un mero diritto reale parziario su di un bene privato, può, su questo, esercitare unicamente le facoltà dirette a garantire e ad assicurare l’uso pubblico da parte di tutti i cittadini, essendo conseguentemente legittimato a tutelare il diritto parziario medesimo sia in via amministrativa, sia in via giurisdizionale, avvalendosi, in quest’ultima ipotesi, in forza dell’anzidetto rinvio operato dall’art. 825 c.c. nei riguardi dell’art. 823 dello stesso codice, di fronte al giudice ordinario, dei mezzi ordinari a difesa del diritto di servitù e del possesso ivi normati dalla medesima disciplina di diritto comune.
Va comunque opportunamente precisato che, oltre all’ente pubblico, a difesa del diritto di uso pubblico può anche agire in giudizio, uti singulus e avvalendosi dei mezzi ordinari di tutela, ciascun cittadino appartenente alla collettività cui l’uso pubblico pertiene (cfr. al riguardo, ex plurimis e tra le più recenti, Cass. civ., Sez. II, 13 giugno 2019, n. 15931).
La prassi contempla la costituzione dei diritti di uso pubblico per usucapione da parte di una collettività indifferenziata di soggetti e imputata nel proprio effetto acquisitivo all’amministrazione pubblica a ciò competente (come ad esempio accade per l’ipotesi dell’usucapione dell’uso pubblico su di una strada privata), per dicatio ad patriam (consistente a sua volta nel comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità e dunque senza precarietà o spirito di tolleranza, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives, indipendentemente dai motivi per i quali tale comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima: cfr. al riguardo, ex plurimis, Cass. civ., Sez. I, 11 marzo 2016, n. 4851; Sez. II, 12 agosto 2002, n. 12167, 4 giugno 2001, n. 7481, 10 dicembre 1994, n. 10574; Cons. Stato, Sez. V, 24 maggio 2007, n. 2618) nonché – come per l’appunto avvenuto nel caso di specie – per convenzione stipulata tra l’ente pubblico e i privati.
La categoria di diritti demaniali di uso pubblico più importante e di maggiore applicazione pratica è senza dubbio quella dell’uso pubblico di passaggio, che, a sua volta, si distingue in due sottoclassi: quella del predetto passaggio sulle vie vicinali di uso pubblico – e cioè sulle strade private soggette a pubblico transito – e quella del passaggio su spiazzi, vicoli, corti di proprietà privata esistenti nelle città e negli agglomerati urbani.
3.2.3. Venendo ora al caso di specie, invero fondatamente il giudice di primo grado ha escluso che la servitù di uso pubblico in questione sia riconducibile ad una servitù prediale pubblica, riferendone correttamente l’origine al Piano urbanistico attuativo di iniziativa privata approvato dal Consiglio comunale nell’ormai lontano 1989 e alla conseguente convenzione stipulata due anni più tardi tra il Comune e l’impresa costruttrice del condominio, laddove segnatamente l’art. 3 della convenzione medesima prevede la costituzione sulla piazzola di cui trattasi di un vincolo di uso pubblico come standard di piano, disciplinandone la destinazione, à sensi di quanto disposto dall’art. 35, comma 6, delle Norme tecniche di attuazione dell’allora vigente Piano regolatore generale del Comune, a “verde pubblico”, comprendente “parchi e ad aree attrezzate per il gioco dei bambini e dei ragazzi e per il riposo degli adulti”, con conseguente possibilità di realizzare ivi “bar, chioschi di ristoro, tettoie aperte, servizi igienici, gioco bambini (con esclusione di attrezzature o campi sportivi)”.
Questo Collegio – peraltro – a sua volta rimarca che se è vero che l’adibizione della piazzola di cui trattasi a standard urbanistico va ricondotta a una c.d. “monetizzazione” dell’opera a scomputo degli oneri di urbanizzazione previsti dall’allora vigente art. 3 della l. 28 febbraio 1985, n. 47 (oggi sostituito dall’art. 12 e ss. del t.u. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) e dalla tutt’oggi vigente disciplina contenuta negli artt. 81 e ss. della l.r. 27 giugno 1985, n. 61, e successive modifiche, ciò è nella specie avvenuto senza prefigurare, secondo l’id quod plerumque accidit sancito anche dall’art. 28 della l. 17 agosto 1942, n. 1150, come modificato dall’art. 8 della l. 6 agosto 1967, n. 765, l’obbligo di trasferire il bene immobile realizzato dal privato a scomputo degli oneri predetti in proprietà al Comune, oltre a tutto – si badi – non già ascrivendolo al demanio comunale, bensì al suo patrimonio indisponibile, à sensi di quanto espressamente disposto al riguardo dall’art. 16, comma 2, del t.u. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, già entrato in vigore all’epoca in cui è stato sottoscritto l’atto di cessione (29 settembre 2004), e – quindi – con l’applicazione per tali beni delle norme contenute negli artt. 826 e 828 c.c.
Nel caso di specie, evidentemente, la parte pubblica e quella privata in sede di convenzione e, successivamente, in sede di atto di cessione dell’area di cui trattasi, hanno dunque inteso agire diversamente, fuoriuscendo dallo schema della disciplina sin qui descritta e prefigurando, quindi, per la piazzola in questione, la conservazione della proprietà privata, peraltro funzionalizzandola al pubblico interesse mediante l’istituzione su di essa del diritto parziario – esso, sì, qualificato ex lege come demaniale – di cui all’art. 825 c.c
Al riguardo la lettera degli artt. 3 e 4 dell’atto di cessione Rep. n. 6176 dd. 29 settembre 2004, così come riferiti al § 1.1 della presente sentenza, risulta inequivoca, posto che mediante l’atto medesimo tutti i condomini unilateralmente istituiscono sull’immobile in questione “un vincolo perpetuo” di “servitù di uso pubblico a favore del Comune di (omissis)”.
Ma vi è di più .
Il medesimo atto di cessione, negli anzidetti artt. 3 e 4, descrive complessivamente – e genericamente – le aree su cui il vincolo è costituito come “adibite a servizi, parcheggio e verde pubblici”, ma poi testualmente e in via del tutto inequivocabile indica lo stato reale dei due subalterni nn. (omissis) del mappale n. (omissis) corrispondenti per la piazzola in questione come “lastrici solari”, ossia con una connotazione ben diversa rispetto a quanto le parti fino a quel momento avevano tra di loro stabilito in termini di destinazione urbanistica, e cioè quella di “verde pubblico”.
Tale circostanza si riconnette per certo a quanto già dianzi rilevato al § 1.1 della presente sentenza in ordine alla coincidenza della complessiva estensione della piazzola (mq. 120) con il “verde pubblico” realizzato in eccesso rispetto alle previsioni del piano attuativo della relativa convenzione; ma, se è così, e se è altrettanto vero che nella convenzione medesima testualmente si prevedeva anche la realizzazione di “piazze” e che – per l’appunto – di queste ne è stata indubitabilmente realizzata una soltanto, pare evidente che in sede di atto di cessione le parti hanno voluto dare atto di tutto quanto sopra, conseguentemente precisando che il diritto parziario demaniale del Comune non veniva più materialmente fatto gravare su di un bene che fino a quel momento soltanto per fictio era stato definito come “area verde”, ma veniva a quel momento istituito sulla predetta “piazza”, rectius sui due lastrici formanti la piazzola facente parte del condominio: un luogo, insomma, dove certamente non poteva essere creato un “parco” come previsto dal predetto art. 35, comma 6, delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore generale a quel tempo vigente, e che di per sé potrebbe fors’anche ospitare, ma in modo decontestualizzato rispetto alla ivi non più attuata area di “verde pubblico” – e, quindi, soltanto per espressa, ma qui per l’appunto mancante, nuova pattuizione tra le parti – le altre infrastrutture previste dalla disciplina di piano in precedenza richiamata e ivi non più di fatto vigente, ossia le “aree attrezzate per il gioco dei bambini e dei ragazzi e per il riposo degli adulti”, con la conseguente possibilità di parimenti realizzarvi “bar, chioschi di ristoro, tettoie aperte, servizi igienici, gioco bambini”: ma, giova ribadire, solo previo espresso accordo in tal senso tra le parti.
Per contro, la convenzionalmente disposta “scissione”, intervenuta nel 2004 in sede di stipula dell’atto d’obbligo costitutivo della servitù di uso pubblico, tra il contenuto della predetta previsione di piano e la ricognizione della qualità intrinseca dell’area asservita come non rientrante tra il “verde pubblico”, ragionevolmente riconduce il contenuto della servitù medesima a un quid che non si discosta, con riguardo alla concreta caratteristica dei luoghi, a un asservimento che si esaurisce – nell’acclarato difetto di specifiche pattuizioni in senso contrario – nell’esercizio di un mero diritto di passaggio su di una corte di proprietà privata.
Ma, anche in disparte tutto ciò, il punto nodale della questione risiede nella circostanza che dapprima il Comune, e il giudice di primo grado poi, hanno nella specie completamente travisato il contenuto del diritto parziario demaniale che è stato istituto, estendendolo oltre misura ed in via del tutto illegittima fino a cancellare di fatto la proprietà privata pur expressis verbis conservata nell’anzidetto atto di cessione del 2004.
Giova a questo riguardo evidenziare che nel contesto dell’art. 825 c.c. l’ente pubblico non può disporre in ordine alle aree private assoggettate a servitù pubblica oltre i limiti necessari per garantire la perdurante insistenza sul bene del diritto di proprietà del privato.
In tal senso, infatti, l’ente pubblico titolare del diritto parziario demaniale non può esercitare, sui beni assoggettati a diritto di uso pubblico, i poteri che di norma spettano all’ente medesimo sui beni integralmente rientranti nel proprio demanio, e in primis quello di concedere a singoli privati un uso eccezionale dei beni medesimi.
Infatti, la concessione di un uso esclusivo a un terzo del bene privato “funzionalizzato” à sensi dell’art. 825 c.c. all’uso pubblico, violerebbe per certo l’utilizzo del bene uti cives da parte dell’intera comunità di cui il Comune – nella specie – è, nondimeno, il soggetto esponenziale nonché garante dei relativi diritti e interessi.
Allo stesso tempo il Comune, disponendo a favore di un singolo il godimento in via esclusiva del bene di cui non è integralmente titolare ma in ordine al quale esercita unicamente un diritto parziario finalizzato al perseguimento del pubblico interesse, violerebbe altrettanto certamente il pur funzionalizzato diritto di proprietà di cui il privato è titolare: e ciò, dunque, infrangendo la ben nota regula iuris di diritto comune – ma, all’evidenza, valida anche in diritto pubblico – per cui nemo plus iuris in alium transferre potest, quam ipse habet, (D. 50.17.54 – Ulpianus, liber XLVI, Ad edictum).
Va qui anche opportunamente precisato che l’uso “speciale” (o altrimenti definito “eccezionale”) del bene si determina anche attraverso una sua occupazione non soltanto permanente, ma anche temporanea, da parte di colui che se ne avvale uti singulus.
Tali principi sono chiaramente espressi da una giurisprudenza risalente nel tempo, ma ancor oggi del tutto consolidata e – soprattutto – assolutamente coerente con la disciplina contenuta nell’art. 825 c.c. e dianzi illustrata al § 3.2.2 della presente sentenza.
Cass. civ, Sez. I, 2 marzo 1964 n. 469, e 29 novembre 1979 n. 6272, hanno infatti già avuto modo di affermare che l’Amministrazione comunale, titolare di una servitù di uso pubblico su di un’area privata, può su di essa esercitare i soli poteri che siano rivolti a garantire e disciplinare l’uso generale da parte della collettività, nell’ambito del pubblico interesse giustificativo della servitù medesima, e che pertanto, ove non sia espressamente consentito dal titolo, il Comune medesimo non può concedere al singolo usi eccezionali e particolari su porzioni di tale immobile (nella specie l’erezione di un’edicola per la rivendita di giornali).
Né può sostenersi che l’Amministrazione comunale potrebbe comunque consentire, a prescindere dalla volontà del privato proprietario, l’uso eccezionale da parte di un terzo del bene asservito all’uso pubblico con riguardo a quanto disposto dagli artt. 38 e 39 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, recante – tra l’altro – la “revisione ed armonizzazione della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province”, dove invero rispettivamente si legge al comma 3 del predetto art. 38 che tale tassa “si applica, altresì, alle occupazioni realizzate su tratti di aree private sulle quali risulta costituita, nei modi e nei termini di legge, la servitù di pubblico passaggio” e all’art. 39 predetto che “la tassa è dovuta al comune o alla provincia dal titolare dell’atto di concessione o di autorizzazione o, in mancanza, dall’occupante di fatto, anche abusivo, in proporzione alla superficie effettivamente sottratta all’uso pubblico nell’ambito del rispettivo territorio”.
Sul punto, Cass. civ., SS.UU. 8 marzo 1999, n. 158, e 8 luglio 1998, n. 6633, hanno infatti a loro volta avuto modo di evidenziare che la parificazione delle aree demaniali o del patrimonio indisponibile a quelle private soggette a servitù di uso pubblico, operante ai fini dell’applicazione della tassa (oggi canone) per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, trova la sua ratio nella circostanza che la parziale occupazione di tali aree comporta comunque una sottrazione della superficie occupata all’uso pubblico cui la stessa è destinata, giustificando, così, la debenza della tassa in parola da parte dell’occupante quale corrispettivo della limitazione apportata al godimento della collettività : ma ciò attiene esclusivamente al piano dei rapporti tributari e comporta, tutt’al più, che il Comune possa pretendere quella tassa da chi occupi gli spazi abusivamente o in virtù di contratto con il privato proprietario, o anche che possa interferire, inibendolo o subordinandolo a propria autorizzazione, in forza della suindicata ratio, sul diritto di tale proprietario di cedere a terzi l’uso di porzioni dell’area, ma non può giammai indurre a configurare, salva un’espressa previsione del titolo costitutivo della servitù pubblica di passaggio, un suo autonomo potere concessorio, assolutamente incompatibile, come si è detto, con il diritto dominicale del privato, sia pure limitato dall’esistenza di tale servitù .
Traslando tali assunti al caso di specie, quindi, l’Amministrazione comunale avrebbe potuto concedere alla Fo. e Pr. Id. & C. S.n. c. l’area di cui trattasi solo ed esclusivamente previo assenso da parte del condominio, al fine di rispettarne il suo perdurante diritto di proprietà .
Pare evidente, infatti, che l’insistenza dell’occupazione anche parziale della piazzola in questione da parte del pubblico esercizio, limitandone la fruizione uti cives e sostanziando un uso eccezionale di tale porzione dell’immobile uti singulus, si configura quale circostanza che fuoriesce dallo “statuto” della proprietà del bene asservito, e richiede – sempre e comunque – l’assenso del tutto condizionante da parte dei condomini.
Ove tale assenso manchi, all’Amministrazione comunale è inibito il rilascio dell’autorizzazione al plateatico, e in caso contrario essa adotta un provvedimento del tutto illegittimo, emesso in carenza di potere e suscettivo di arrecare danno alla privata proprietà, in tal modo compressa contra legem.
Del resto, tutto ciò risulta a sua volta coerente con il corollario di tale ordine di assunti recentemente affermato dalla medesima giurisprudenza, secondo cui, essendo – come si è detto – le servitù di uso pubblico dei diritti reali atipici e sui generis appartenenti ad una determinata collettività, finalizzati al soddisfacimento di un interesse pubblico e costituendo essi una figura diversa dal diritto d’uso civilisticamente inteso, non è possibile porre a carico del Comune, che esercita tale diritto di servitù su un immobile, il pagamento dell’imposta comunale sugli immobili (ICI) di cui al d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, posto che il Comune medesimo è il rappresentante della collettività, e che quest’ultima – a sua volta – “nel nostro ordinamento non ha alcuna capacità giuridica e di agire”. Ne consegue che al soggetto proprietario dell’immobile oggetto di tali servitù compete comunque il pagamento dell’imposta, correlativamente mantenendo tutti i poteri del dominus sul bene, in ordine al quale sussiste soltanto una circoscritta limitazione del godimento (così Cass. civ., sez. trib, 30 settembre 2019, n. 24264).
Riassuntivamente, quindi, l’appello in epigrafe va accolto in quanto i motivi in esso contenuti evidenziano come la sentenza impugnata ha totalmente omesso di disaminare quali fossero i limiti del potere del Comune in relazione alla servitù gravante sull’area in questione, tralasciando quindi di considerare che il relativo problema non assumeva – di per sé – una mera rilevanza urbanistico-edilizia, bensì dominicale, dovendosi semmai accertare, in esito alla proposizione delle impugnative avverso le autorizzazione di plateatico rilasciate sull’area medesima, non già quali opere fossero ivi realizzabili, bensì fino a che punto, con quali modalità e per quali finalità il diritto di proprietà dei condomini poteva essere limitato per motivi di pubblico interesse.
La totale obliterazione della posizione dei soggetti proprietari dell’area è stata addirittura statuita nella sentenza impugnata anche sotto il profilo procedimentale attraverso un invero non condivisibile richiamo all’art. 21-octies della l. 7 agosto 1990, n. 241, affermando in tal modo la legittimità dell’esito del procedimento di rilascio delle autorizzazioni di plateatico nel senso che il Comune potrebbe abnormemente comportarsi sull’area di cui trattasi uti dominus, usurpandone di fatto la proprietà e concedendone l’uso esclusivo ad un solo soggetto.
Né, da ultimo, va sottaciuto che in tal modo sono stati nella specie travalicati i limiti della servitù di uso pubblico sia dal punto di vista oggettivo (essendo alquanto discutibile, anche al di à dell’improprio richiamo alle prescrizioni del P.R.G. per le aree a “verde pubblico” riferite ad un’area non più tale, che ciò comunque sia sufficiente a legittimare l’esercizio sull’area medesima di un’attività economica privata svolta uti singulus), sia da quello oggettivo, essendo a quest’ultimo riguardo del tutto pertinente il rilievo degli appellanti secondo cui, anche a voler seguire il ragionamento del giudice di primo grado, a poter occupare l’area poteva essere al più autorizzato il condominio stesso quale proprietario, ma non certo soggetti terzi – ancorché condomini – i quali agiscano comunque senza il consenso del condominio medesimo.
Da ultimo, va precisato che dall’annullamento dei provvedimenti impugnati nel primo grado di giudizio consegue anche quello di tutti gli analoghi atti meramente confermativi succedutisi, in prosieguo di tempo, di anno in anno.
4. Le spese e gli onorari di entrambi i gradi di giudizio seguono la soccombenza di lite, e sono liquidati nel dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, accoglie l’appello in epigrafe e – per l’effetto – in riforma della sentenza impugnata accoglie il ricorso e i motivi aggiunti di ricorso proposti in primo grado.
Condanna in solido il Comune di (omissis) e la Fo. Pr. Id. & C. S.n. c. al pagamento delle spese e degli onorari del doppio grado di giudizio, complessivamente liquidati nella misura di Euro 3.000,00 (tremila/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 dicembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Fulvio Rocco – Consigliere, Estensore
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Francesco Frigida – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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