Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni.
Sentenza 41/2018 (ECLI:IT:COST:2018:41)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: LATTANZI – Redattore: LATTANZI
Udienza Pubblica del 06/02/2018; Decisione del 06/02/2018
Deposito del 02/03/2018; Pubblicazione in G. U. 07/03/2018 n. 10
Norme impugnate: Art. 656, c. 5°, del codice di procedura penale.
Massime:
Atti decisi: ord. 109/2017
SENTENZA N. 41
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce nel procedimento penale a carico di A. S., con ordinanza del 13 marzo 2017, iscritta al n. 109 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti l’atto di costituzione di A. S. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 6 febbraio 2018 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi gli avvocati Carmelo Molfetta e Ladislao Massari per A. S. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 13 marzo 2017 (r.o. n. 109 del 2017), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che l’ordine di sospensione della pena debba essere emesso anche nei casi di pena non superiore a quattro anni di detenzione».
Il giudice a quo è investito, in qualità di giudice dell’esecuzione, della domanda di sospensione di un ordine di esecuzione della pena detentiva di tre anni, undici mesi e diciassette giorni, che il pubblico ministero ha emesso in base all’art. 656, comma 1, cod. proc. pen., senza sospenderlo, perché la pena da scontare eccedeva il limite di tre anni fissato dal quinto comma dello stesso articolo.
Questo comma impone la sospensione dell’ordine di esecuzione in modo da consentire al condannato di presentare istanza per ottenere una delle misure alternative alla detenzione previste dagli artt. 47, 47-ter, e 50, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e dall’art. 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).
Il condannato ha quindi chiesto al giudice a quo di dichiarare inefficace l’ordine di esecuzione, sostenendo che esso avrebbe dovuto essere sospeso nonostante la pena da espiare eccedesse il limite triennale, perché l’art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975, introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 10, consente una particolare forma di affidamento in prova quando la pena detentiva da eseguire non è superiore a quattro anni.
Il condannato rileva che la sospensione dell’ordine di esecuzione è finalizzata ad ottenere l’applicazione della misura alternativa prima dell’ingresso in carcere; poiché l’art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975 permette l’affidamento in prova anche quando la pena da espiare non è superiore a quattro anni, a suo avviso il limite cui subordinare la sospensione dell’ordine di esecuzione dovrebbe armonizzarsi con tale tetto e ritenersi fissato anch’esso in quattro anni, anziché in tre come prevede la lettera della disposizione censurata.
Il giudice a quo, escluso di poter interpretare la disposizione nel senso auspicato dal ricorrente, dato l’univoco tenore letterale della stessa, dubita della sua legittimità costituzionale, nella parte in cui la sospensione dell’esecuzione continua a essere prevista quando la pena detentiva da espiare non è superiore a tre anni, anziché a quattro.
2.– In punto di rilevanza il rimettente osserva che l’accoglimento delle questioni comporterebbe l’inefficacia dell’ordine di esecuzione, poiché il condannato, che non è soggetto a una misura cautelare di carattere custodiale, deve scontare una pena superiore a tre anni di detenzione, ma non a quattro, e la condanna si riferisce al reato punito dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, ovvero a un reato che non rientra nel catalogo di quelli per i quali l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. esclude la sospensione di tale ordine.
3.– In punto di non manifesta infondatezza il rimettente rileva che la sospensione dell’ordine di esecuzione è «strutturalmente e funzionalmente» collegata alla possibilità di ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale, misura di cui condivide lo scopo di «deflazione carceraria» e di prevenzione speciale, sulla base della comune «presunzione di una ridotta pericolosità del condannato». È per questa ragione che il limite di tre anni stabilito dall’art. 656, comma 5, censurato corrisponde a quello fissato dall’art. 47, comma 1, della legge n. 354 del 1975 ai fini dell’affidamento in prova.
Il nuovo art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975 ha introdotto un’ulteriore ipotesi di affidamento in prova, quello cosiddetto allargato, che può essere concesso «al condannato che deve espiare una pena detentiva, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire» un giudizio positivo circa la rieducazione del condannato e la prevenzione dal pericolo che commetta altri reati.
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