Sentenza   293/2013
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente SILVESTRI – Redattore FRIGO
Camera di Consiglio del 09/10/2013    Decisione  del 02/12/2013
Deposito del 06/12/2013   Pubblicazione in G. U. 11/12/2013
Norme impugnate: Artt. 309 del codice di procedura penale, in relazione all’art. 297, c. 3°, del medesimo codice.
Massime:  
Atti decisi: ord. 54/2013

Corte Costituzionale

SENTENZA N. 293

ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi                  MAZZELLA, Sabino                 CASSESE, Giuseppe               TESAURO, Paolo Maria            NAPOLITANO, Giuseppe               FRIGO, Alessandro             CRISCUOLO, Paolo                  GROSSI, Giorgio                LATTANZI, Aldo                   CAROSI, Marta                  CARTABIA, Sergio                 MATTARELLA, Mario Rosario         MORELLI, Giancarlo              CORAGGIO, Giuliano               AMATO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 309 del codice di procedura penale, in relazione all’art. 297, comma 3, del medesimo codice, promosso dal Tribunale di Bologna nel procedimento penale a carico di P.G. con ordinanza del 22 dicembre 2012, iscritta al n. 54 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2013 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza depositata il 22 dicembre 2012, il Tribunale di Bologna ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 309 del codice di procedura penale, in relazione all’art. 297, comma 3, del medesimo codice, nella parte in cui – secondo l’interpretazione offerta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, vincolante per il giudice a quo in quanto giudice del rinvio – «subordina la deducibilità della questione della retrodatazione dell’ordinanza cautelare, in sede di riesame, anche alla condizione che tutti gli elementi per la retrodatazione stessa emergano dall’ordinanza riesaminata», prospettandone il contrasto con gli artt. 3, primo comma, 13, quinto comma, 24, secondo comma, 25, primo comma, 111, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione.

Il rimettente riferisce che, con ordinanza del 6 novembre 2011, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rimini aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere (in seguito sostituita con gli arresti domiciliari) ad una persona sottoposta ad indagini per due reati di cessione continuata di sostanze stupefacenti.

A seguito di richiesta di riesame del difensore – che aveva posto espressamente e prioritariamente tale questione – il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 14 novembre 2011, aveva dichiarato la perdita di efficacia della misura e ordinato la liberazione dell’indagato, ritenendo ravvisabile un’ipotesi di cosiddetta “contestazione a catena”. Dagli atti a disposizione del Tribunale emergeva, infatti, che l’indagato era stato precedentemente sottoposto a custodia cautelare in carcere, in un separato procedimento, con ordinanza del 24 luglio 2010, per delitti in materia di stupefacenti commessi quello stesso giorno, e che il pubblico ministero, prima di detta data, era già a conoscenza dei fatti per i quali sarebbe stata poi emessa l’ordinanza cautelare impugnata (e, amplius, degli «elementi per disporre la coercizione»), stante l’avvenuta ricezione – rispettivamente, il 1° marzo e il 1° giugno 2010 – delle informative di polizia giudiziaria ad essi relative. I fatti contestati con le due ordinanze dovevano ritenersi inoltre avvinti da connessione qualificata, in quanto riconducibili a un medesimo disegno criminoso, segnato dalla finalità dell’indagato di reperire mezzi economici per far fronte al proprio stato di tossicodipendenza. Peraltro, anche a voler escludere il vincolo della continuazione, il risultato non sarebbe cambiato, giacché i procedimenti nel cui ambito erano state adottate le due ordinanze cautelari pendevano entrambi davanti all’autorità giudiziaria di Rimini, onde la loro mancata riunione era ascrivibile a una scelta del pubblico ministero. Ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., i termini di durata massima della custodia cautelare dovevano essere pertanto retrodatati, facendoli decorrere dal momento di esecuzione della prima ordinanza cautelare: con la conseguenza che il termine annuale previsto per la fase delle indagini preliminari (art. 303, comma 1, lettera a, numero 3, cod. proc. pen.) risultava già interamente decorso nel momento in cui era stato emesso il provvedimento coercitivo riesaminato.

A seguito del ricorso del pubblico ministero contro la decisione, la quarta Sezione penale della Corte di cassazione – rilevata la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla deducibilità delle “contestazioni a catena” nel procedimento di riesame – aveva investito della questione le Sezioni unite, rimettendo ad esse il ricorso.

Le Sezioni unite, con la sentenza 19 luglio 2012-20 novembre 2012, n. 45246, avevano annullato l’ordinanza del Tribunale di Bologna, rinviando gli atti al medesimo Tribunale per un nuovo esame che facesse applicazione del principio di diritto – enunciato in sede di composizione del contrasto – in forza del quale, «nel caso di contestazione a catena, la questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche in sede di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente scaduto al momento della emissione del secondo provvedimento cautelare; b) se tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall’ordinanza cautelare».

Ciò premesso, il Tribunale felsineo, reinvestito del procedimento di riesame quale giudice del rinvio, rileva come, alla stregua della regula iuris enunciata dalle Sezioni unite – vincolante in tale fase del giudizio, ai sensi dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. – gli sarebbe preclusa l’applicazione dell’istituto considerato. Nel caso di specie sussisterebbe, infatti, solo la prima delle due condizioni dianzi indicate, essendo il termine di fase già completamente decorso, per effetto della retrodatazione, alla data di adozione del provvedimento coercitivo di cui discute. Non ricorrerebbe, di contro, la seconda condizione, giacché gli elementi rivelatori della “contestazione a catena” non emergerebbero dall’ordinanza cautelare impugnata, la quale non reca alcun riferimento al primo procedimento e alla misura cautelare in esso applicata, né dà conto del momento nel quale i fatti contestati all’indagato con l’ordinanza stessa avrebbero potuto essere desunti dagli atti, in termini di gravità indiziaria, ad opera dell’autorità giudiziaria procedente.

Il giudice a quo ritiene, tuttavia, che – con riguardo a tale seconda condizione limitativa – l’interpretazione offerta dalle Sezioni unite alla disposizione combinata degli artt. 297, comma 3, e 309 cod. proc. pen. contrasti con plurimi parametri costituzionali.

La regula iuris censurata violerebbe, anzitutto, l’art. 3, primo comma, Cost., determinando una disparità di trattamento tra i ricorrenti al tribunale del riesame in dipendenza di un fatto «estrinseco» e «casuale». Alla sua stregua, infatti, potrebbero beneficiare della retrodatazione solo coloro che fossero stati assoggettati alla misura coercitiva sulla base di un’ordinanza che rechi tutte le indicazioni necessarie per valutare l’applicabilità dell’istituto in questione.

Tale disparità di trattamento non potrebbe essere, d’altro canto, giustificata con gli argomenti addotti dalle Sezioni unite a sostegno della soluzione interpretativa prescelta. In particolare, detta sperequazione non sarebbe legittimata né dalla mancanza di poteri istruttori da parte del tribunale del riesame, la quale non esclude che quest’ultimo possa comunque disporre, a prescindere dal tenore dell’ordinanza impugnata, di tutti gli elementi per la retrodatazione, ricavandoli dagli atti trasmessi dall’autorità procedente o prodotti dalle parti ai sensi dell’art. 309, commi 5 e 9, cod. proc. pen.; né dalla ristrettezza dei tempi della procedura di riesame, la quale non impedisce che al relativo giudice siano ordinariamente affidate questioni di altra natura, spesso di particolare complessità e delicatezza; né dal rischio di un «contraddittorio monco», giacché la pubblica accusa – parte, ancorché non necessaria, della procedura di riesame – potrebbe sempre valutare se intervenirvi, inviando memorie o presenziando all’udienza, al fine di contrastare eventuali prospettazioni infondate del ricorrente in punto di “contestazioni a catena”; né, infine, dal timore che la decisione sia assunta sulla base di dati documentali incompleti. Il tribunale, ove non ritenga di poter ricavare dagli atti a sua disposizione tutti gli elementi per la retrodatazione, potrebbe sempre rigettare la richiesta di riesame: e ciò, senza pregiudizio per l’interessato, il quale – anche nell’ipotesi di formazione del “giudicato cautelare” su quella base conoscitiva – conserverebbe la possibilità di ottenere una pronuncia favorevole in sede di richiesta di revoca della misura, tramite la produzione degli ulteriori elementi occorrenti.

La norma risultante dalla interpretazione censurata violerebbe, altresì, l’art. 13, quinto comma, Cost., che demanda alla legge ordinaria di stabilire i limiti massimi della «carcerazione preventiva». La disposizione di cui all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. integrerebbe, infatti, le previsioni dei termini massimi di custodia cautelare recate dall’art. 303 cod. proc. pen.: con la conseguenza che negare al tribunale la possibilità di apprezzare, in sede di riesame, l’avvenuta perenzione di tali termini già al momento dell’adozione del provvedimento impugnato comporterebbe la dilatazione dei termini stessi al di là dei «tempi tecnici» necessari per constatarne l’avvenuto superamento, rimettendo l’accertamento ad altra sede, nella quale la decisione interverrebbe «in un tempo non predeterminabile a priori».

Sarebbero violati, ancora, gli artt. 24, secondo comma, e 111, terzo comma, Cost., giacché l’impossibilità, per l’indagato, di avvalersi di tutti gli atti disponibili al fine di far constare i vizi genetici del provvedimento restrittivo, nell’ambito del procedimento specificamente previsto per la verifica di tali vizi, menomerebbe le sue facoltà difensive e il diritto ad ottenere «l’acquisizione di ogni […] mezzo di prova a suo favore».

Il principio di diritto denunciato contrasterebbe, ancora, con l’art. 25, primo comma, Cost., distogliendo l’interessato dal giudice naturale precostituito per legge. Nel caso in cui gli elementi per la retrodatazione non emergessero integralmente e irrefutabilmente dall’ordinanza cautelare impugnata, la cognizione del tema verrebbe, infatti, sottratta al giudice investito dalla legge del controllo immediato sulla legittimità delle misure cautelari, e affidata ad altro organo (il giudice che procede, tramite istanza di revoca della misura ai sensi dell’art. 306 cod. proc. pen., e, solo in seconda battuta e in via eventuale, il tribunale chiamato a decidere sull’appello de libertate a norma dell’art. 310 cod. proc. pen.).

Da ultimo, la regula iuris sottoposta a scrutinio violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 5, paragrafo 4, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, secondo il quale «ogni persona privata della libertà con un arresto o una detenzione ha il diritto di presentare un ricorso davanti ad un tribunale, affinché decida in breve tempo sulla legittimità della sua detenzione e ordini la sua liberazione se la detenzione è illegittima». Alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, infatti, il controllo sulla «legittimità» della misura restrittiva dovrebbe essere inteso in senso ampio, comprensivo anche delle condizioni procedurali: laddove, per converso, il dictum delle Sezioni unite impedirebbe al tribunale del riesame di esercitare tale verifica sul versante della retrodatazione, nell’ambito di una procedura rapida e di immediato esito liberatorio.

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Ad avviso della difesa dello Stato, non vi sarebbe alcuna violazione dell’art. 3, primo comma, Cost.: la disparità di trattamento prospettata dal rimettente non sarebbe infatti irragionevole, «ove si consideri la peculiarità del giudizio di riesame – il cui oggetto esclusivo è costituito dai vizi genetici dell’ordinanza applicativa della misura cautelare e non può riguardare i vizi sopravvenuti –, connotato da speditezza e dalla mancanza di poteri istruttori in capo al giudice del riesame».

Ugualmente insussistente sarebbe la denunciata violazione dell’art. 13, quinto comma, Cost. Il rispetto dei limiti massimi della custodia cautelare, legislativamente fissati, resterebbe comunque garantito, a chi lamenti di essere stato sottoposto alla misura cautelare a termini di fase già scaduti per effetto della retrodatazione, dalla possibilità di chiedere, ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen., l’immediata revoca della misura: richiesta sulla quale il giudice è tenuto a pronunciarsi entro cinque giorni, con decisione che, se di rigetto, è appellabile ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen.

La fruibilità di tale rimedio escluderebbe anche il prospettato contrasto con gli artt. 24, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.

Le norme denunciate non sarebbero incompatibili neppure con l’art. 25, primo comma, Cost., posto che l’ordinamento garantisce comunque all’accusato che intenda far valere l’operatività dell’istituto della retrodatazione la possibilità di rivolgersi ad un giudice precostituito per legge, chiedendo l’acquisizione di ogni elemento di prova a suo favore, in conformità al principio del giusto processo, sancito dall’art. 111, terzo comma, Cost.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale di Bologna dubita della legittimità costituzionale dell’art. 309 del codice di procedura penale, in relazione all’art. 297, comma 3, del medesimo codice, nella parte in cui – secondo l’interpretazione datane dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, vincolante per il giudice a quo in quanto giudice del rinvio – subordina la deducibilità, in sede di riesame, della retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima della misura cautelare, prevista nei casi di “contestazione a catena”, anche alla condizione che tutti gli elementi per la retrodatazione stessa emergano dall’ordinanza cautelare impugnata.

Ad avviso del giudice a quo, le norme denunciate violerebbero, in tale interpretazione, l’art. 3, primo comma, della Costituzione, determinando una disparità di trattamento tra i ricorrenti al tribunale del riesame in dipendenza di una circostanza «estrinsec[a]» e «casuale», quale la maggiore o minore ricchezza delle indicazioni contenute nel provvedimento coercitivo.

Sarebbe violato, altresì, l’art. 13, quinto comma, Cost., che demanda alla legge ordinaria di stabilire i limiti massimi della «carcerazione preventiva». L’impossibilità di accertare in sede di riesame che i termini di custodia cautelare erano interamente scaduti, per effetto della retrodatazione, già al momento dell’adozione del provvedimento restrittivo, implicherebbe, infatti, la dilatazione dei termini stessi oltre i «tempi tecnici» necessari per constatarne il superamento.

Impedendo, inoltre, all’indagato di utilizzare tutti gli atti disponibili, anche diversi dall’ordinanza impugnata, al fine di far valere nel procedimento di riesame il predetto vizio genetico del titolo cautelare, la regula iuris censurata lederebbe gli artt. 24, secondo comma, e 111, terzo comma, Cost., che sanciscono, rispettivamente, l’inviolabilità del diritto di difesa e il diritto dell’accusato di ottenere «l’acquisizione di ogni […] mezzo di prova a suo favore».

Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite si porrebbe in contrasto anche con l’art. 25, primo comma, Cost. Nel caso in cui gli elementi per la retrodatazione non emergessero integralmente e incontestabilmente dall’ordinanza cautelare, l’interessato verrebbe, infatti, distolto dal giudice naturale precostituito dalla legge per il controllo immediato sulla legittimità delle misure coercitive e costretto a sottoporre la questione ad altro giudice (il giudice che procede, tramite proposizione di istanza di revoca della misura, e, solo in via successiva ed eventuale, il giudice dell’appello de libertate).

Risulterebbe violato, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 5, paragrafo 4, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, che riconosce ad ogni persona privata della libertà il diritto ad ottenere «in breve tempo» la decisione di un tribunale circa la legittimità della sua detenzione.

2.– In via preliminare, va ribadito il costante indirizzo di questa Corte, secondo il quale il giudice del rinvio è abilitato a sollevare dubbi di legittimità costituzionale concernenti l’interpretazione della norma, quale risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione nella pronuncia di annullamento. Da un lato, infatti, detta norma deve ricevere ancora applicazione nell’ambito del giudizio di rinvio, onde non si è al cospetto di un rapporto “esaurito”; dall’altro, la proposizione di una simile questione di legittimità costituzionale rappresenta l’unico mezzo a disposizione del giudice del rinvio per contestare la regula iuris che sarebbe costretto altrimenti ad applicare, in forza dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. (ex plurimis, sentenze n. 197 del 2010, n. 58 del 1995 e n. 257 del 1994).

Resta pertanto irrilevante, nella presente sede, l’interrogativo se l’interpretazione sottoposta a scrutinio – del tutto innovativa, come meglio si dirà, rispetto al panorama ermeneutico anteriore – possa qualificarsi come «diritto vivente». Anche qualora, in via di ipotesi, si rispondesse in senso negativo al quesito, non verrebbe comunque meno il vincolo di conformazione del giudice del rinvio al principio di diritto, così da consentirgli l’adozione di soluzioni interpretative differenti da quella in esso cristallizzata (tra le molte, sentenze n. 305 del 2008, n. 78 del 2007 e n. 408 del 2005).

3.– Nel merito, la questione è fondata, in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost.

La precipua finalità della disciplina delle cosiddette “contestazioni a catena” – istituto di origine giurisprudenziale, attualmente regolato dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. – è quella di evitare che la rigorosa predeterminazione dei termini di durata massima delle misure cautelari possa essere elusa tramite la diluizione nel tempo di due o più provvedimenti restrittivi nei confronti della stessa persona. Il nucleo di disvalore del fenomeno risiede, più in particolare – come già rilevato da questa Corte – «nell’impedimento, ad esso conseguente, al contemporaneo decorso dei termini relativi a plurimi titoli custodiali nei confronti del medesimo soggetto. Il “ritardo” nell’adozione della seconda ordinanza cautelare non vale, ovviamente, a prolungare i termini di durata massima della prima misura – essendo gli stessi predeterminati per legge, ai sensi dell’art. 303 cod. proc. pen. – ma, in difetto di adeguati correttivi, avrebbe l’effetto di espandere la restrizione complessiva della libertà personale dell’imputato, tramite il “cumulo materiale” – totale o parziale – dei periodi custodiali afferenti a ciascun reato. Ciò, col risultato di porre l’interessato in situazione deteriore rispetto a chi, versando nella medesima situazione sostanziale, venga invece raggiunto da provvedimenti cautelari coevi, e di rendere, al tempo stesso, aggirabile la predeterminazione legale dei termini di durata massima delle misure, imposta dall’art. 13, quinto comma, Cost.» (sentenza n. 233 del 2011).

Il meccanismo di garanzia, prefigurato a favore dell’accusato contro la suddetta evenienza, consiste segnatamente nella retrodatazione della decorrenza del termine della misura cautelare applicata “tardivamente”. In presenza, cioè, delle condizioni legislativamente previste per la configurabilità di una “contestazione a catena”, il termine relativo alla seconda (o all’ulteriore) ordinanza cautelare si considera iniziato alla data di esecuzione del primo provvedimento. Tale meccanismo può comportare, in fatto, che i termini di durata massima della misura più recente risultino già “virtualmente” scaduti alla data di emissione del provvedimento che la dispone.

4.– Per lungo tempo, la giurisprudenza di legittimità è stata unanime nel ritenere che la verifica delle condizioni per la retrodatazione esulasse dalla cognizione del giudice investito del procedimento incidentale di riesame delle ordinanze che dispongono misure coercitive (art. 309 cod. proc. pen.). Tale indirizzo si collocava nell’alveo del più generale orientamento interpretativo secondo cui il riesame – quale impugnazione de libertate a carattere pienamente devolutivo – sarebbe finalizzato alla verifica dei soli requisiti di validità, formali e sostanziali, del provvedimento cautelare impugnato: validità non intaccata dal meccanismo della retrodatazione, il quale incide sul diverso piano dell’efficacia della misura coercitiva disposta, modificando la decorrenza e i criteri di computo della relativa durata massima. Al pari di altri eventi produttivi dell’inefficacia di detta misura, connessi a vicende autonome e temporalmente successive rispetto all’ordinanza cautelare – quali, ad esempio, l’omissione, la tardività o l’invalidità dell’interrogatorio previsto dall’art. 294 cod. proc. pen. – la retrodatazione avrebbe dovuto essere fatta valere dall’interessato in altro modo: e, cioè, proponendo istanza di revoca della misura al giudice che procede, ai sensi dell’art. 306 cod. proc. pen., salvo poi impugnare con appello l’eventuale decisione negativa di quest’ultimo (art. 310 cod. proc. pen.).

A partire dal 2010 è, peraltro, emerso un indirizzo giurisprudenziale di diverso segno, secondo il quale la retrodatazione sarebbe deducibile in sede di riesame, quantomeno allorché, per effetto di essa, i termini massimi risultino già spirati alla data di adozione dell’ordinanza impugnata.

Del contrasto sono state quindi investite le Sezioni unite della Corte di cassazione, che lo hanno composto con due sentenze di identico tenore, emesse e depositate lo stesso giorno, la prima delle quali è la pronuncia di annullamento con rinvio che vincola l’odierno rimettente (Cass., sez. un., 19 luglio 2012-20 novembre 2012, n. 45246 e n. 45247).

Le Sezioni unite hanno adottato una soluzione “di compromesso” tra le tesi confliggenti, priva di riscontro, come già accennato, nel panorama interpretativo pregresso. Secondo il supremo organo della nomofilachia, l’orientamento tradizionale e maggioritario, inteso ad escludere la competenza del giudice del riesame, dovrebbe essere tenuto fermo nei casi in cui l’inefficacia conseguente alla retrodatazione sia sopravvenuta rispetto alla data di emissione del provvedimento coercitivo. A conclusioni parzialmente diverse dovrebbe invece pervenirsi quando, a seguito della retrodatazione, il termine risulti interamente decorso già al momento dell’adozione della misura, in maniera tale da determinare una inefficacia originaria del titolo cautelare. Le ragioni che imporrebbero di riconoscere la competenza del tribunale del riesame in una simile evenienza sarebbero, peraltro, di diverso ordine rispetto a quelle prospettate dalle pronunce espressive dell’indirizzo minoritario e più recente, basate su un supposto collegamento tra deducibilità della retrodatazione in sede di riesame e configurabilità delle esigenze cautelari (collegamento in realtà insussistente, giacché l’avvenuto decorso del termine massimo della custodia non comporta, di per sé, il venir meno del periculum libertatis). Nella direzione indicata militerebbero piuttosto la collocazione costituzionale del valore in gioco – la libertà personale – e il favore, emergente dalla normativa sovranazionale, per le opzioni che assicurino il massimo tasso di rapidità delle decisioni sulla legalità delle misure cautelari e sulla liberazione della persona in vinculis. In particolare, secondo le Sezioni unite, costituirebbe «dovere di ogni giudice investito del problema cautelare quello di tutelare nella sua massima estensione la libertà personale, protetta come bene primario dalla Costituzione (art. 13) e dalle norme delle convenzioni internazionali che sanciscono il diritto di ogni persona sottoposta ad arresto o detenzione a ricorrere al giudice per ottenere “entro brevi termini” (art. 5, comma 4, Convenzione europea dei diritti dell’uomo) o “senza indugio” (art. 9, comma 4, Patto internazionale sui diritti civili e politici), una decisione sulla legalità della misura e sulla liberazione».

Anche nell’ipotesi considerata (termine già scaduto alla data del provvedimento coercitivo impugnato), la deducibilità della retrodatazione in sede di riesame non sarebbe peraltro piena, ma rimarrebbe soggetta ad una ulteriore condizione limitativa. Al riguardo, occorrerebbe infatti tener conto, da un lato, delle particolari caratteristiche della procedura incidentale di riesame, «che non prevede l’esercizio di poteri istruttori, incompatibili con la speditezza del procedimento […] e che si basa esclusivamente sugli elementi emergenti dagli atti trasmessi dal pubblico ministero e su quelli eventualmente addotti dalle parti nel corso dell’udienza»; dall’altro, della «notevole complessità» che l’accertamento delle condizioni per la retrodatazione è suscettibile di assumere. I presupposti ai quali è subordinata, a seconda dei casi, la configurabilità di una “contestazione a catena” – avvenuta emissione di plurime ordinanze che dispongono la medesima misura «per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato», ovvero per fatti avvinti da connessione cosiddetta qualificata; desumibilità «dagli atti», in termini di gravità del quadro indiziario, dei fatti oggetto della seconda ordinanza prima di un determinato momento – potrebbero rendere in effetti necessarie, specie in talune ipotesi, verifiche particolarmente penetranti e porre problemi di non agevole soluzione.

Da ciò le Sezioni unite hanno desunto che «soltanto nel caso in cui dalla stessa ordinanza impugnata emergano in modo incontrovertibile e completo gli elementi utili e necessari per la decisione è possibile dare spazio ai principi di economia processuale e di rapida definizione del giudizio in vista della più ampia tutela del bene primario della libertà personale», riconoscendo al tribunale del riesame il potere di pronunciarsi in materia. In ogni altro caso, per contro, «la mancanza di poteri istruttori del giudice del riesame e le esigenze di speditezza del procedimento incidentale de libertate devono condurre ad escludere una pronuncia dello stesso giudice, la quale, se favorevole all’indagato, potrebbe basarsi sulla sola prospettazione difensiva non sufficientemente verificata nel più ampio contraddittorio e con la completezza degli elementi di fatto e documentali utili per la decisione; se sfavorevole all’indagato, potrebbe essere suggerita da una superficiale e non completa disamina di tutti i dati rilevanti, non rimediabile in sede di legittimità, in considerazione dei limiti del relativo sindacato, con le negative conseguenze correlate al prodursi del c.d. giudicato cautelare».

Di qui, conclusivamente, l’enunciazione del principio di diritto per cui, «nel caso di contestazione a catena, la questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche in sede di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente scaduto al momento della emissione del secondo provvedimento cautelare; b) se tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall’ordinanza cautelare».

5.– Le censure di illegittimità costituzionale dell’odierno rimettente investono specificamente e in via esclusiva la seconda condizione limitativa ora ricordata, che gli impedirebbe, nel caso di specie, di misurarsi con la tematica in questione. Non è dunque in contestazione, in questa sede, la prima condizione, che – in linea con il carattere impugnatorio del mezzo – circoscrive la cognizione del giudice del riesame all’ipotesi in cui la retrodatazione implichi un “vizio” (lato sensu) originario del titolo coercitivo, a fronte del quale la misura da esso disposta non avrebbe dovuto essere applicata fin dall’inizio.

Ciò puntualizzato, occorre muovere dal rilievo che, alla stregua della regula iuris censurata, l’esclusione della possibilità di far valere la retrodatazione in sede di riesame – come conseguenza del fatto che i relativi presupposti non emergono «in modo incontrovertibile e completo» dall’ordinanza impugnata – non comporta la negazione di ogni meccanismo di salvaguardia dell’interessato, ma la fruibilità del diverso strumento rappresentato dall’istanza di revoca della misura, con successiva possibilità di appello contro l’eventuale decisione negativa.

In un vaglio comparativo, i due moduli di tutela – richiesta di riesame e richiesta di revoca – presentano vantaggi e svantaggi, ma non per questo sono equivalenti. Il fondamentale vantaggio offerto dal riesame è la garanzia di una decisione in tempi assai ristretti da parte di un giudice, a composizione collegiale, diverso da quello che ha emesso il provvedimento coercitivo. L’iter procedurale del riesame è infatti sottoposto, in successione, a due brevi termini a carattere perentorio, il cui mancato rispetto implica la perdita di efficacia del provvedimento impugnato (il primo, di cinque giorni, per la trasmissione degli atti al giudice del riesame; il secondo, di dieci giorni dalla loro ricezione, per la decisione sul ricorso: art. 309, commi 5, 9 e 10, cod. proc. pen.). La decisione è inoltre demandata al tribunale, in composizione collegiale, che ha sede nel capoluogo di distretto (art. 309, comma 7, cod. proc. pen.).

Si tratta di una garanzia che non trova un equivalente nell’istanza di revoca. Per la decisione su quest’ultima – affidata al giudice che ha la disponibilità del procedimento principale, il quale può bene identificarsi nello stesso giudice monocratico che ha emesso l’ordinanza applicativa della misura (normalmente, il giudice per le indagini preliminari) – è previsto un termine sì più breve (cinque giorni), ma a carattere meramente ordinatorio (art. 299, comma 3, cod. proc. pen.). Più ampio (venti giorni) e nuovamente ordinatorio è, d’altra parte, il termine per la successiva decisione del giudice collegiale, che l’interessato può provocare proponendo appello contro l’eventuale provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca (art. 310, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen.).

Sul fronte opposto, l’istanza di revoca garantisce un doppio grado di giudizio di merito (giudice che procede e giudice dell’eventuale appello cautelare), che l’interessato verrebbe invece a perdere ove sottoponga direttamente il tema della retrodatazione al tribunale del riesame. Nel caso di decisione negativa di quest’ultimo, egli potrebbe infatti impugnare la pronuncia solo per vizi di legittimità, con ricorso per cassazione (art. 311 cod. proc. pen.).

Non è, peraltro, contestabile che – come, del resto, chiaramente traspare dallo stesso tessuto argomentativo della sentenza delle Sezioni unite – la possibilità di rivolgersi al giudice del riesame si risolva, nel complesso, in un beneficio per l’interessato. La conclusione è tanto più valida, d’altra parte, ove si ritenga che lo strumento del riesame rappresenti una facoltà aggiuntiva, e non già sostitutiva, rispetto all’istanza di revoca (nel senso che, ove l’interessato si astenga dal far valere la “contestazione a catena” in sede di riesame, egli conserverebbe comunque la possibilità di denunciare l’inefficacia originaria della misura chiedendone la revoca al giudice che procede): lettura che appare in effetti rispondente alla ricostruzione operata dalle Sezioni unite, come attesta la congiunzione «anche», presente nel principio di diritto dianzi riprodotto.

In ogni caso, è evidente che i due strumenti di tutela non possono essere considerati equivalenti.

6.– In questa prospettiva, la regula iuris censurata si presta, peraltro, a determinare disparità di trattamento tra soggetti che versano in situazioni identiche in correlazione a fattori puramente accidentali, avulsi dalla ratio degli istituti che vengono in rilievo. A parità di situazione, infatti, la fruibilità del riesame ai fini considerati finisce per dipendere dall’ampiezza e dalla puntualità delle indicazioni contenute nella motivazione del provvedimento coercitivo che il soggetto in vinculis intende contestare. Il livello della tutela viene ad essere determinato, in altre parole, dal maggiore o minore scrupolo con il quale il giudice della cautela assolve all’onere di motivare l’ordinanza restrittiva e, prima ancora, dal fatto che egli sia o non sia a conoscenza degli elementi che impongono la retrodatazione.

Tale assetto non può essere giustificato, sul piano del rispetto dell’art. 3, primo comma, Cost., con le considerazioni addotte a sostegno della soluzione ermeneutica di cui si discute: ossia con la difficile “gestibilità” di una tematica complessa, quale quella delle “contestazioni a catena”, da parte di un giudice – il tribunale del riesame – costretto a decidere in tempi brevissimi e senza fruire di poteri istruttori, per di più nell’ambito di una procedura a contradditorio solo eventuale, con il conseguente elevato rischio della formazione di giudicati cautelari fallaci.

Come nota il giudice a quo, le questioni sulle quali il tribunale del riesame è chiamato ordinariamente a pronunciarsi, ai fini della verifica dei requisiti di validità del provvedimento restrittivo, possono risultare e sovente risultano – malgrado la ristrettezza dei tempi e la mancanza di poteri istruttori – non meno complesse dell’accertamento della sussistenza di una “contestazione a catena”.

Il carattere solo eventuale del contraddittorio, proprio del procedimento di riesame, appare d’altro canto inconferente ai fini che qui interessano. Il pubblico ministero che tema prospettazioni infondate della difesa in punto di “contestazioni a catena” può – pur senza esservi tenuto – comunque intervenire in udienza per contrastarle o far pervenire memorie, allo stesso modo di quanto avviene per qualsiasi altra deduzione dell’indagato intesa a contestare la legittimità della misura applicata.

In aggiunta a ciò, si deve poi osservare come, in base alla regula iuris in discussione, non basti neppure – per legittimare l’intervento del tribunale del riesame, ovviando alle allegate sue difficoltà nel misurarsi con la tematica – che la sussistenza di una “contestazione a catena” risulti «evidente», ma occorra che la dimostrazione piena e inconfutabile dell’inefficacia originaria del titolo cautelare promani da una singola e specifica fonte documentale, rappresentata dallo stesso provvedimento impugnato.

Come già accennato, il tribunale del riesame dispone, ai fini della sua decisione, sia degli atti trasmessigli dall’autorità giudiziaria procedente ai sensi dell’art. 309, comma 5, cod. proc. pen., sia degli ulteriori elementi eventualmente addotti dalle parti nel corso dell’udienza, ai sensi del comma 9 del medesimo articolo. Non è certo impossibile, dunque, che le condizioni per la retrodatazione emergano in modo del tutto piano da fonti diverse dall’ordinanza sottoposta a riesame. Basti pensare al caso emblematico in cui la sussistenza di una “contestazione a catena” si desuma in termini inequivocabili, anziché dall’ordinanza impugnata, dalla prima ordinanza cautelare (la quale potrebbe risultare, ad esempio, palesemente emessa per lo stesso fatto contestato con la seconda).

La previsione di un trattamento differenziato – e meno favorevole – per questa e consimili ipotesi risulta, dunque, inevitabilmente lesiva del principio di eguaglianza.

7.– L’art. 309 cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, in quanto interpretato nel senso che la deducibilità, nel procedimento di riesame, della retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., sia subordinata – oltre che alla condizione che, per effetto della retrodatazione, il termine sia già scaduto al momento dell’emissione dell’ordinanza cautelare impugnata – anche a quella che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino da detta ordinanza.

Le censure riferite agli altri parametri restano assorbite.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 309 del codice di procedura penale, in quanto interpretato nel senso che la deducibilità, nel procedimento di riesame, della retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dall’art. 297, comma 3, del medesimo codice, sia subordinata – oltre che alla condizione che, per effetto della retrodatazione, il termine sia già scaduto al momento dell’emissione dell’ordinanza cautelare impugnata – anche a quella che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino da detta ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 dicembre 2013.

F.to:

Gaetano SILVESTRI, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2013.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *