CORTE COSTITUZIONALE

SENTENZA n. 237 del 26 ottobre 2012

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 517 del codice di procedura penale, promosso dalla Corte d’appello di Torino nel procedimento penale a carico di T.G. con ordinanza del 23 settembre 2011, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 19 settembre 2012 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 23 settembre 2011, la Corte d’appello di Torino ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che non risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

La Corte rimettente riferisce che, nel giudizio di primo grado, era stato contestato all’imputato, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., un reato concorrente emerso a seguito delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nel corso dell’istruzione dibattimentale. In relazione a detto reato, l’imputato aveva chiesto di essere giudicato con rito abbreviato, eccependo l’illegittimità costituzionale della norma censurata, nella parte in cui non consente di proporre tale richiesta.

L’eccezione, disattesa in prime cure, era stata riproposta nei motivi di appello.

Al riguardo, il giudice a quo osserva come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 333 del 2009, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che l’imputato possa richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

Ad avviso della Corte torinese, la medesima ratio che sorregge la declaratoria di illegittimità costituzionale ora ricordata varrebbe anche in relazione all’ipotesi in cui il reato concorrente, oggetto della contestazione suppletiva, sia emerso – come nel giudizio a quo – solo nel corso e a seguito dell’istruzione dibattimentale. Se è vero, infatti, che, quando la nuova contestazione riguarda un fatto non risultante dagli atti di indagine, non può essere mosso alcun rimprovero al pubblico ministero per non averla formulata tempestivamente in precedenza, d’altra parte, neppure l’imputato potrebbe essere censurato per non aver «previsto» la contestazione stessa. Non essendo addebitabile all’imputato alcuna colpevole inerzia, né potendogli essere addossate le conseguenze negative di un prevedibile sviluppo dibattimentale, il cui rischio sia stato deliberatamente assunto, la preclusione dell’accesso al giudizio abbreviato si tradurrebbe in una irragionevole discriminazione, lesiva del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.).

Sarebbe violato anche l’art. 3 Cost., posto che, a fronte della contestazione suppletiva in questione, l’imputato potrebbe recuperare – secondo la Corte rimettente – i vantaggi connessi ad altri riti speciali, quali l’applicazione della pena su richiesta e l’oblazione, sulla base della normativa risultante dalle sentenze n. 265 del 1994 e n. 530 del 1995 della Corte costituzionale, mentre si vedrebbe irrazionalmente inibito l’accesso al giudizio abbreviato.

Il giudice a quo si dichiara, per altro verso, consapevole del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in forza del quale non è ammessa la richiesta di giudizio abbreviato «parziale», limitata, cioè, ad una parte soltanto delle imputazioni cumulativamente formulate contro la stessa persona. Tale orientamento, elaborato con riguardo a richieste tempestivamente proposte, potrebbe, tuttavia, non valere per la fattispecie di cui si discute, nella quale la nuova contestazione è diretta ad adeguare l’imputazione alle risultanze dibattimentali, senza che venga garantita all’imputato la possibilità di formulare una tempestiva richiesta di giudizio abbreviato.

La questione sarebbe, di conseguenza, rilevante nel giudizio a quo, giacché, nell’ipotesi di suo accoglimento, l’imputato – una volta ammesso al rito alternativo – potrebbe beneficiare, nel caso di conferma della sentenza di condanna, della riduzione di un terzo della pena ritenuta equa.

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

L’interveniente rileva che la Corte costituzionale si è già reiteratamente espressa sulla tematica evocata dall’ordinanza di rimessione, evidenziando come l’impossibilità di beneficiare dei vantaggi connessi ai riti alternativi, nel caso di modifica dell’imputazione correlata agli esiti dell’istruzione dibattimentale, rientri nelle «regole del gioco» note alle parti processuali: con la conseguenza che l’imputato, il quale non abbia optato nei termini per detti riti, «non ha che da addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta». Ciò, a differenza di quanto avviene nell’ipotesi di contestazione dibattimentale relativa ad un fatto che già emergeva dagli atti di indagine: situazione nella quale le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale risultano sviate da una condotta «anomala» del pubblico ministero.

Nessuna lesione del diritto di difesa sarebbe, dunque, ravvisabile nella fattispecie oggetto dell’odierno scrutinio, posto che l’imputato, rimanendo inerte, si è privato della possibilità di accedere al rito abbreviato, con riferimento al reato oggetto di contestazione suppletiva, non per una condotta anomala dell’organo dell’accusa, ma per propria libera determinazione, implicante l’assunzione del «rischio» della possibile modifica dell’imputazione nel corso dell’istruzione dibattimentale.

Ciò, senza considerare che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 265 del 1994, ha ravvisato nel giudizio abbreviato una procedura inconciliabile con quella dibattimentale, ritenendo, in pari tempo, non costituzionalmente obbligata la soluzione di prevedere, nell’ipotesi in esame, un meccanismo di trasformazione del rito.

Neppure, infine, sarebbe configurabile una lesione del principio di eguaglianza, «non sussistendo la denunciata disparità di trattamento tra imputati per i quali sia stato aperto il dibattimento e imputati per i quali non lo sia stato trattandosi di situazioni assolutamente non omogenee e raffrontabili».

Considerato in diritto

1.– La Corte d’appello di Torino dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che l’imputato possa chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che non risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale (ossia, in pratica, quando si tratti di fatto emerso solo nel corso dell’istruzione dibattimentale).

Ad avviso della Corte rimettente, la preclusione dell’accesso al rito abbreviato si tradurrebbe in una irragionevole compressione del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, della Costituzione), non essendo addebitabile all’imputato, nel caso considerato, alcuna colpevole inerzia, con correlata impossibilità di addossargli le conseguenze negative di un prevedibile sviluppo dibattimentale, il cui «rischio» sia stato deliberatamente assunto.

Sarebbe violato, altresì, l’art. 3 Cost., posto che, a fronte della contestazione suppletiva in questione, l’imputato potrebbe, secondo il giudice a quo, recuperare i vantaggi connessi ad altri riti speciali – in particolare, il patteggiamento e l’oblazione, per effetto delle sentenze n. 265 del 1994 e n. 530 del 1995 della Corte costituzionale – mentre si vedrebbe ingiustificatamente inibito l’accesso al giudizio abbreviato.

2.– In via preliminare, va rilevato come non costituisca motivo di inammissibilità della questione il fatto che, alla stregua di un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, non sarebbe consentita la richiesta di giudizio abbreviato «parziale», limitata, cioè, a una parte soltanto delle imputazioni cumulativamente formulate nei confronti della stessa persona (nel caso di specie, secondo quanto si riferisce nell’ordinanza di rimessione, l’imputato ha chiesto, per converso, di essere giudicato con rito abbreviato unicamente per il reato concorrente oggetto di contestazione suppletiva e, parallelamente, solo in relazione a detto reato la Corte rimettente chiede il ripristino della facoltà di accesso al rito alternativo).

Con la sentenza n. 333 del 2009, questa Corte ha già ritenuto «non implausibile», avuto riguardo alle contestazioni dibattimentali cosiddette “tardive” o “patologiche” (basate, cioè, su elementi che già risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale), l’assunto oggi riproposto dal rimettente con riferimento alle contestazioni suppletive cosiddette “fisiologiche” (correlate, cioè, alle nuove risultanze dell’istruzione dibattimentale): vale a dire, che l’orientamento giurisprudenziale dianzi ricordato, in tema di inammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato «parziale», si riferisce all’ipotesi in cui l’azione penale per le plurime imputazioni sia esercitata nei modi ordinari, e non è automaticamente estensibile alla fattispecie oggetto del quesito di costituzionalità.

Anche nell’odierno frangente, in effetti, l’esigenza che viene in rilievo è quella di restituire all’imputato la facoltà di accesso al rito alternativo relativamente al nuovo addebito, in ordine al quale non avrebbe potuto formulare una richiesta tempestiva a causa dell’avvenuto esercizio dell’azione penale con modalità, se non propriamente “anomale” (come è per le contestazioni suppletive tardive), comunque derogatorie rispetto alle ordinarie cadenze procedimentali (tali sono quelle insite nell’istituto delle contestazioni suppletive). Sarebbe, per converso, illogico – e, comunque, non costituzionalmente necessario – che, a fronte della contestazione suppletiva di un reato concorrente (magari di rilievo marginale rispetto al complesso dei temi d’accusa), l’imputato possa recuperare, a dibattimento inoltrato, gli effetti premiali del rito alternativo anche in rapporto all’intera platea delle imputazioni originarie, rispetto alle quali ha consapevolmente lasciato spirare il termine utile per la richiesta.

3.– Nel merito, la questione è fondata, nei termini di seguito specificati.

Come già rilevato da questa Corte (sentenza n. 333 del 2009), la disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali – tanto del fatto diverso (art. 516 cod. proc. pen.), che del reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. o delle circostanze aggravanti (art. 517 cod. proc. pen.: non rileva, ai presenti fini, la contestazione del fatto nuovo, di cui all’art. 518, che presuppone il consenso dell’imputato) – si presenta coerente, in linea di principio, con l’impostazione accusatoria del vigente codice di rito. In un sistema nel quale la prova si forma ordinariamente in dibattimento, detta disciplina mira, infatti, a conferire un ragionevole grado di flessibilità all’imputazione, consentendone l’adattamento agli esiti dell’istruzione dibattimentale. L’istituto risponde, per questo verso, a ragioni di economia processuale, con le quali contrasterebbe un regime di generalizzata retrocessione del procedimento a fasi o stadi precedenti.

La tutela di siffatte ragioni non può, tuttavia, non tener conto delle contrapposte esigenze di salvaguardia del diritto di difesa, del resto esplicitamente richiamate dalla pertinente direttiva della legge delega per l’emanazione del nuovo codice (art. 2, numero 78, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, recante «Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale»). Rispetto al nuovo tema d’accusa contestato in dibattimento, l’imputato rischia, infatti, di vedersi privato – ove non intervengano apposite previsioni di ripristino – del complesso delle facoltà difensive che avrebbe potuto e dovuto esercitare nel segmento procedimentale antecedente la variazione dell’imputazione.

In questa prospettiva, il nuovo codice di rito aveva specificamente previsto che, di fronte alla nuova contestazione dibattimentale, l’imputato – salvo si trattasse della contestazione suppletiva della recidiva – avesse diritto ad un termine a difesa non inferiore al termine a comparire indicato dall’art. 429 cod. proc. pen. e potesse, in ogni caso, chiedere l’ammissione di nuove prove (art. 519 cod. proc. pen.). Tale ultima facoltà risultava, peraltro, soggetta ad una condizione – quella dell’«assoluta necessità», insita nell’originario richiamo all’art. 507 cod. proc. pen. – che venne ritenuta da questa Corte irragionevole e lesiva del diritto di difesa, nella misura in cui, ponendo «limiti diversi e più penetranti di quelli vigenti in via generale per i “nova”», non consentiva un recupero integrale dell’ordinario «diritto alla prova» (sentenza n. 241 del 1992).

4.– La disciplina codicistica non prendeva, per converso, affatto in considerazione l’ulteriore profilo problematico che qui particolarmente interessa: quello, cioè, delle ricadute, di segno preclusivo, delle nuove contestazioni dibattimentali sui riti alternativi a contenuto premiale, in particolare, il giudizio abbreviato e l’applicazione della pena su richiesta delle parti, l’opzione per i quali – come reiteratamente affermato da questa Corte – costituisce anch’essa una modalità, tra le più qualificanti (sentenza n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993). L’effetto preclusivo deriva, in questo caso, dal fatto che la nuova contestazione dibattimentale interviene allorché l’ordinario termine procedimentale perentorio per la proposizione della richiesta di rito alternativo è ormai spirato (tale termine coincide infatti, attualmente, con la formulazione delle conclusioni nell’udienza preliminare, ovvero, nei procedimenti a citazione diretta e nel giudizio direttissimo, con la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado: artt. 438, comma 2, 446, comma 1, e 555, comma 2, cod. proc. pen.).

Chiamata a verificare la compatibilità di tale preclusione con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., questa Corte, con una serie di pronunce emesse negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del nuovo codice di rito e richiamate dall’Avvocatura dello Stato nelle sue difese, escluse la sussistenza del denunciato vulnus costituzionale.

La Corte fece leva, in proposito, anzitutto sulla indissolubilità del binomio “premialità-deflazione”. Esaminando la questione con riferimento ora al giudizio abbreviato, ora al “patteggiamento”, la Corte rilevò – sulla falsariga di quanto già affermato in rapporto alla norma transitoria dell’art. 247 disp. att. cod. proc. pen. (sentenza n. 277 del 1990; ordinanze n. 477 e n. 361 del 1990) – che l’interesse dell’imputato ai riti alternativi trova tutela solo in quanto la sua condotta consenta l’effettiva adozione di una sequenza procedimentale che, evitando il dibattimento, permetta di raggiungere l’obiettivo di una rapida definizione del processo. Di conseguenza, se, per l’inerzia dell’imputato (che abbia omesso di chiedere il rito alternativo nei termini con riguardo all’originaria imputazione), tale scopo non può più essere raggiunto – essendosi ormai pervenuti al dibattimento – sarebbe irrazionale che si addivenga egualmente al rito speciale in base alle contingenti valutazioni dell’imputato stesso sull’andamento del processo (sentenze n. 129 del 1993, n. 316 del 1992 e n. 593 del 1990; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992).

La Corte osservò, in secondo luogo, che la modifica dell’imputazione e la contestazione suppletiva costituiscono eventualità non infrequenti, in un sistema imperniato sulla formazione della prova in dibattimento, e non imprevedibili, anche quando si tratti di contestazione suppletiva di un reato concorrente, dato lo stretto rapporto intercorrente tra imputazione originaria e reato connesso; laddove, per contro – in base alla disciplina dell’epoca – la variazione del tema d’accusa rimaneva preclusa nel caso di accesso ai riti alternativi, ivi compreso il giudizio abbreviato: in ciò propriamente consistendo uno dei vantaggi del rito, a fianco della riduzione di pena. Se ne doveva dedurre che il «rischio» della nuova contestazione dibattimentale «rientra naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiedere o meno tale rito, onde egli non ha che da addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta» (sentenze n. 129 del 1993 e n. 316 del 1992; in prospettiva analoga, sentenza n. 593 del 1990; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992).

5.– A diversa conclusione la Corte pervenne, peraltro, con la successiva sentenza n. 265 del 1994, in rapporto alle contestazioni dibattimentali “tardive”, basate su elementi già acquisiti nel corso delle indagini, e dunque finalizzate, non già ad adeguare l’imputazione alle nuove risultanze dibattimentali, ma a porre rimedio ad errori o incompletezze nella formulazione dell’imputazione originaria: contestazioni che la giurisprudenza di legittimità, con orientamento interpretativo allo stato consolidato, considera ammissibili, reputando, per un complesso di ragioni, non ostativa a ciò la formulazione letterale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. (che fa riferimento ad elementi emersi «nel corso dell’istruzione dibattimentale»).

La Corte rilevò che, nell’ipotesi in questione, non poteva parlarsi «di una libera assunzione del rischio del dibattimento» da parte dell’imputato, le cui determinazioni in ordine ai riti speciali risultavano sviate «da aspetti di “anomalia” caratterizzanti la condotta processuale del pubblico ministero». Le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo vengono infatti a dipendere, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero: sicché, «quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali». Ne risultava violato, altresì, il principio di eguaglianza, venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, sul piano della fruizione dei riti alternativi, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero al momento della chiusura delle indagini stesse.

Sulla base di tali rilievi, la Corte dichiarò, quindi, costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono all’imputato di richiedere il “patteggiamento” relativamente al fatto diverso e al reato concorrente contestato in dibattimento, allorché la nuova contestazione concerna un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

La medesima sentenza n. 265 del 1994 dichiarò, per contro, inammissibile l’omologa questione di legittimità costituzionale relativa al giudizio abbreviato, reputando che, rispetto a tale rito, la scelta tra le varie alternative ipotizzabili per porre rimedio al vulnus costituzionale – pure riscontrabile – spettasse in via esclusiva al legislatore.

Avendo di mira la disciplina dell’epoca, la Corte osservò che, a differenza del “patteggiamento” – il quale consiste in un semplice accordo sulla pena, con effetti di immediata definizione del processo, così che nulla ostava ad una sua collocazione in sede dibattimentale – il rito abbreviato «si realizza attraverso una vera e propria “procedura”, inconciliabile con quella dibattimentale». In simile prospettiva, l’adozione di un meccanismo di trasformazione del rito non poteva ritenersi «scelta costituzionalmente obbligata», ponendosi «in termini alternativi rispetto ad altre possibili opzioni, rientranti nella discrezionalità legislativa» (quali, ad esempio, l’applicabilità della riduzione di pena di un terzo da parte del giudice all’esito del dibattimento, ovvero la preclusione, nei casi considerati, della nuova contestazione, con conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero relativamente ad essa).

6.– Alla dichiarazione di illegittimità costituzionale del mancato ripristino della facoltà di accesso al giudizio abbreviato, in presenza di contestazioni dibattimentali “patologiche”, questa Corte è, peraltro, pervenuta con la più recente sentenza n. 333 del 2009.

Si è rilevato, infatti, che la ragione, dianzi ricordata, che aveva indotto ad accogliere la questione limitatamente al “patteggiamento”, dichiarandola invece inammissibile quanto al giudizio abbreviato, doveva considerarsi superata dai successivi sviluppi della legislazione e, segnatamente, dalle radicali modifiche apportate alla disciplina di tale secondo rito alternativo dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense). La novella del 1999, infatti, per un verso, aveva svincolato il giudizio abbreviato dai presupposti della possibilità di definire il processo allo stato degli atti e del consenso del pubblico ministero; per altro verso, aveva introdotto quel meccanismo di integrazione probatoria la cui mancanza aveva indotto la Corte – con la sentenza n. 129 del 1993, sulla cui scia si era posta la sentenza n. 265 del 1994 – a ritenere necessario, allo scopo di restituire la facoltà di accesso al rito abbreviato nel caso di perdita “incolpevole” della stessa, un intervento legislativo volto a comporre le interferenze tra giudizio abbreviato e giudizio dibattimentale. A fronte del nuovo assetto dell’istituto, il giudizio abbreviato non poteva più considerarsi incompatibile con l’innesto nella fase del dibattimento (come, del resto, già affermato dalla sentenza n. 169 del 2003).

Si doveva, dunque, concludere che era venuto meno l’ostacolo, precedentemente ravvisato dalla sentenza n. 265 del 1994, all’intervento additivo invocato nella circostanza dal giudice rimettente. Tale intervento si imponeva, d’altro canto, oltre che per rimuovere i profili di contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. già rilevati da detta sentenza, «anche per eliminare la differenza di regime, in punto di recupero della facoltà di accesso ai riti alternativi di fronte ad una contestazione suppletiva “tardiva”, a seconda che si discuta di “patteggiamento” o di giudizio abbreviato»: differenza che, nel mutato panorama normativo, «si rivela[va] essa stessa fonte d’una discrasia rilevante sul piano del rispetto dell’art. 3 Cost.».

In base a tali considerazioni, la Corte ha, pertanto, dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente e al fatto diverso oggetto di contestazione dibattimentale, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale.

7.– Prendendo spunto dalle affermazioni ora ricordate, la Corte d’appello di Torino torna oggi a prospettare il problema dei rapporti tra variazione dibattimentale dell’accusa e giudizio abbreviato con riferimento alla fattispecie non attinta dalla sentenza n. 333 del 2009, e sulla quale questa Corte si era ripetutamente pronunciata in senso negativo all’indomani del varo del nuovo codice: vale a dire, quella della nuova contestazione “fisiologica”. Il giudice a quo sottopone, in particolare, a nuovo scrutinio di legittimità costituzionale la preclusione considerata limitatamente all’ipotesi della contestazione suppletiva “fisiologica” del reato concorrente, operata ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen.

In relazione a tale fattispecie, gli argomenti posti a base delle ricordate decisioni di rigetto debbono essere, in effetti, necessariamente rivisti, alla luce tanto delle modifiche legislative sopravvenute che delle successive pronunce di questa stessa Corte.

Quanto, infatti, all’argomento legato all’indissolubilità del binomio “premialità-deflazione”, esso risulta, di fatto, già superato dalle sentenze n. 265 del 1994 e n. 333 del 2009. Con tali decisioni, questa Corte ha, invero, ammesso l’imputato a fruire, rispettivamente, del “patteggiamento” e del giudizio abbreviato in situazioni nelle quali una “deflazione piena” non può più realizzarsi, essendosi già pervenuti al dibattimento: ciò, sul presupposto che la logica dello “scambio” fra sconto di pena e risparmio di energie processuali debba comunque cedere di fronte all’esigenza di ripristinare la pienezza delle garanzie difensive e l’osservanza del principio di eguaglianza.

La sentenza n. 333 del 2009 ha, d’altra parte, evidenziato come l’accesso al giudizio abbreviato per il reato concorrente contestato in dibattimento risulti comunque idoneo a produrre un effetto di economia processuale, sia pure “attenuato”, consentendo – quantomeno – al giudice di decidere sulla nuova imputazione senza il possibile supplemento di istruzione previsto dall’art. 519 cod. proc. pen. (anche nel caso di richiesta di giudizio abbreviato condizionato, i parametri di cui all’art. 438, comma 5, cod. proc. pen. risulterebbero, in effetti, più stringenti rispetto a quelli insiti nella previsione dell’art. 519, comma 2, cod. proc. pen., come risultante a seguito della sentenza n. 241 del 1992).

In relazione, poi, al secondo argomento – quello della libera assunzione del «rischio» del dibattimento – è stato osservato come il criterio della «prevedibilità» della variazione dibattimentale dell’imputazione, in quanto fenomeno “connaturale” a un sistema di tipo accusatorio, presenti intrinseci margini di opinabilità, specie in rapporto alla contestazione “fisiologica” di un reato concorrente, oggetto dell’odierno quesito. Non si potrebbe, infatti, pretendere che l’imputato valuti la convenienza di un rito speciale tenendo conto – non soltanto della possibilità che, a seguito del dibattimento, l’accusa originaria venga diversamente descritta o aggravata – ma anche dell’eventualità che alla prima accusa ne venga aggiunta una nuova, sia pure connessa. Ciò, tanto più ove si consideri che, a seguito delle modifiche apportate all’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. dall’art. 1 del decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367 (Coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 20 gennaio 1992, n. 8, la connessione rilevante ai fini della contestazione suppletiva può fondarsi anche sul vincolo della continuazione, rendendo così possibile – anche a fronte della lata applicazione giurisprudenziale di tale istituto – l’aggiunta al tema d’accusa di episodi completamente slegati, sul piano spazio-temporale, da quelli originariamente contestati.

Ma, a prescindere da tali considerazioni, il criterio della «prevedibilità» non appare comunque idoneo a giustificare un diverso e meno favorevole trattamento delle nuove contestazioni “fisiologiche”, rispetto a quello riservato – per effetto delle decisioni di questa Corte più volte citate (sentenze n. 265 del 1994 e n. 333 del 2009) – alle nuove contestazioni “patologiche”. Nella misura in cui risulta acclarata, nella corrente lettura giurisprudenziale, la possibilità di procedere a nuove contestazioni dibattimentali anche sulla base del materiale di indagine, si potrebbe bene sostenere, infatti, che di tale evenienza l’imputato debba farsi carico quando rinuncia a chiedere la definizione anticipata del procedimento, allo stesso modo di come su di lui grava l’alea di una modifica “fisiologica” dell’imputazione.

A ben guardare, anzi, il diritto di difesa rischia di essere posto in crisi più dalle modifiche dell’imputazione conseguenti a novità probatorie emerse ex abrupto nel corso dell’istruzione dibattimentale, che non da quelle basate su elementi già acquisiti al termine delle indagini preliminari: elementi che l’imputato, grazie al deposito degli atti che precede l’esercizio dell’azione penale (art. 415-bis cod. proc. pen.), «ha già avuto modo di conoscere e valutare […] anche sotto il profilo della loro idoneità a propiziare “incrementi” dell’imputazione», così come osservato da questa Corte in rapporto al parallelo tema della modifica dell’imputazione nell’udienza preliminare (sentenza n. 384 del 2006).

Normativamente superato risulta, poi – quanto al giudizio abbreviato – il concorrente rilievo che valeva a fondare la tesi della libera assunzione del “rischio” del dibattimento, legato al fatto che la variazione del tema d’accusa rimanga preclusa nell’ambito dei riti alternativi.

In parallelo all’originaria configurazione del giudizio abbreviato come rito «allo stato degli atti», senza alcuna possibilità di integrazioni probatorie, l’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. – nell’operare un generale rinvio, nei limiti della compatibilità, alla disciplina dell’udienza preliminare – escludeva, in effetti, in assoluto, l’applicabilità dell’istituto della modificazione dell’imputazione, quale regolato dall’art. 423 cod. proc. pen.

Su questo versante, la situazione è, tuttavia, sensibilmente mutata a seguito della riforma del rito alternativo operata dalla legge n. 479 del 1999. Introdotta la possibilità di arricchimenti della piattaforma probatoria – tanto per iniziativa dell’imputato (richiesta di giudizio abbreviato condizionato: nuovo art. 438, comma 5, cod. proc. pen.), che del giudice (nel caso di impossibilità di decidere allo stato degli atti: nuovo art. 441, comma 5, cod. proc. pen.) – è emersa, infatti, l’esigenza di prevedere, anche nel rito speciale, meccanismi di adeguamento dell’imputazione alle nuove acquisizioni. In via di deroga rispetto alla regola enunciata dal citato art. 441, comma 1, cod. proc. pen., si è quindi consentito al pubblico ministero di procedere a nuove contestazioni nei casi di modificazione della base cognitiva, conseguente all’attivazione dei predetti meccanismi di integrazione probatoria.

Parallelamente, si è inteso, peraltro, anche evitare che il “rischio” della modifica dell’imputazione resti totalmente a carico dell’imputato. Nel caso, infatti, in cui il pubblico ministero proceda alle contestazioni previste dall’art. 423, comma 1, cod. proc. pen. (fatto diverso, reato connesso o circostanza aggravante), viene riconosciuta all’imputato la facoltà di chiedere che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie (art. 441-bis cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 7-bis del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82, recante «Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato», convertito, con modificazioni, nella legge 5 giugno 2000, n. 144; nel caso di contestazione di un fatto nuovo, a norma dell’art. 423, comma 2, cod. proc. pen., l’imputato resta tutelato dalla circostanza che tale contestazione presuppone il suo consenso).

Se, da un lato, dunque, è venuta meno quella “immunizzazione” dal rischio della modifica del tema d’accusa nel giudizio abbreviato sulla quale questa Corte aveva basato la propria precedente impostazione; dall’altro lato, la nuova disposizione dell’art. 441-bis cod. proc. pen. – pur nel suo collegamento alla regola costituzionale enunciata dall’art. 111, quinto comma, Cost., che richiede il consenso dell’imputato ai fini della rinuncia alla formazione della prova in contraddittorio (con conseguente impossibilità di estendere il giudizio abbreviato a nuovi addebiti contro la volontà di chi lo ha richiesto) – assurge ad indice di sistema, riguardo al fatto che, quando muta in itinere il tema d’accusa, l’imputato deve poter rivedere le proprie opzioni riguardo al rito da seguire.

8.– Alla luce dell’odierno panorama ordinamentale, prende, quindi, pieno vigore la notazione per cui l’imputato che subisce una contestazione suppletiva dibattimentale viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse chiamato a rispondere fin dall’inizio.

La contestazione del reato concorrente, operata ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., costituisce, in effetti, un atto equipollente agli atti tipici di esercizio dell’azione penale indicati dall’art. 405, comma 1, cod. proc. pen. È fonte, dunque, di ingiustificata disparità di trattamento e di compromissione delle facoltà difensive, in ragione dei tempi e dei modi di formulazione dell’imputazione, la circostanza che, a fronte di tutte le altre forme di esercizio dell’azione penale, l’imputato possa liberamente optare, senza condizioni, per il giudizio abbreviato, mentre analoga facoltà non gli sia riconosciuta nel caso di nuove contestazioni, se non nelle ipotesi – oggetto della sentenza n. 333 del 2009 – di modifiche tardive dell’addebito sulla base degli atti di indagine.

Come già in precedenza rilevato, d’altra parte, se pure è indubbio, in una prospettiva puramente “economica”, che più si posticipa il termine utile per la rinuncia al dibattimento e meno il sistema ne “guadagna”, resta comunque assorbente la considerazione che l’esigenza della “corrispettività” fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto difesa, dichiarato inviolabile dall’art. 24, secondo comma, Cost.

Condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti. La scelta di valersi del giudizio abbreviato è certamente una delle più delicate, fra quelle tramite le quali si esplicano le facoltà defensionali: di conseguenza, se all’accusa originaria ne viene aggiunta un’altra, sia pure connessa (peraltro, nella lata nozione desumibile dal vigente art. 12, comma 1, lettera b, cod. proc. pen.), non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni.

Sotto un profilo più generale e sistematico va notato che la richiesta di giudizio abbreviato presuppone necessariamente che, in relazione al fatto-reato, sia stata esercitata l’azione penale. Con riguardo al fatto suscettibile di contestazione suppletiva dibattimentale, ciò avviene solo quando il pubblico ministero procede formalmente alla contestazione stessa, sia o non sia fondata su emergenze dibattimentali ovvero su elementi acquisiti in precedenza. Una richiesta di giudizio abbreviato in un momento anteriore, senza una previa formale imputazione, sarebbe inammissibile o quantomeno eccentrica o intempestiva, a prescindere da qualsiasi prognosi al riguardo.

9.– L’impossibilità di definire con giudizio abbreviato gli addebiti oggetto delle nuove contestazioni “fisiologiche” risulta, peraltro, irragionevole e fonte di ingiustificate disparità di trattamento anche sotto un altro profilo: vale a dire, in ragione del fatto che, in taluni casi, l’imputato potrebbe recuperare detta facoltà per circostanze puramente “occasionali”, che determinino la regressione del procedimento, ovvero come conseguenza della decisione del pubblico ministero di esercitare separatamente l’azione penale per il reato connesso.

La regressione del procedimento ha luogo, in particolare – per effetto delle modifiche introdotte dalla legge n. 479 del 1999 – allorché, a seguito delle nuove contestazioni, il reato rientri tra quelli per cui si procede con udienza preliminare e questa non sia stata tenuta. In tale ipotesi, infatti, il giudice – ove la relativa eccezione sia sollevata nei prescritti termini di decadenza – deve disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero (artt. 516, comma 1-ter, 517, comma 1-bis e 521-bis cod. proc. pen.), con la conseguenza che l’imputato si vede, di fatto, rimesso in termini per proporre la richiesta di giudizio abbreviato. Da ciò deriva una disparità di trattamento legata ad un fattore casuale: il recupero della facoltà di accesso al rito alternativo, e dunque della fruizione del relativo sconto di pena, viene infatti a dipendere dalla circostanza che la nuova contestazione riguardi un reato per il quale è prevista l’udienza preliminare in un processo radicato dal pubblico ministero con citazione diretta.

Per diffusa convinzione, d’altra parte, nell’ipotesi in cui emerga in dibattimento un reato connesso – suscettibile, di per sé, di formare oggetto di un procedimento autonomo – il ricorso allo strumento della contestazione suppletiva costituisce, per il pubblico ministero, non un obbligo, ma una semplice facoltà, alternativa rispetto all’esercizio separato dell’azione penale (anche a voler diversamente opinare, d’altra parte, il giudice resterebbe privo di poteri di sindacato sulle scelte del titolare dell’azione penale, che gli permettano di imporre il simultaneus processus). In tale prospettiva, la possibilità, per l’imputato, di fruire del giudizio abbreviato in ordine al reato connesso emerso dal dibattimento finisce, dunque, per dipendere da una scelta discrezionale e insindacabile del suo contraddittore processuale: quale, appunto, quella relativa allo svolgimento cumulativo o separato del procedimento relativo al predetto reato.

Tale considerazione dimostra, con maggiore evidenza, come non si possa pretendere che l’imputato opti per il giudizio abbreviato in rapporto ad una determinata imputazione – relativamente alla quale non ritenga il rito alternativo, di per sé, conveniente – solo in previsione della possibilità che, a seguito delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, l’oggetto dell’accusa si arricchisca di un addebito aggiuntivo (allo stato, peraltro, imprecisato): evenienza che potrebbe non verificarsi affatto e che, ove pure si verificasse, non impedirebbe al pubblico ministero di instaurare un processo autonomo per il nuovo reato, vanificando il senso di quella opzione.

10.– Quanto, infine, alla disparità di trattamento tra giudizio abbreviato e altri riti alternativi (o, amplius, meccanismi di definizione anticipata del procedimento), denunciata dal giudice a quo come lesiva dell’art. 3 Cost., non sussiste, in realtà, quella relativa al “patteggiamento”. Come già ricordato, infatti, la sentenza n. 265 del 1994, evocata al riguardo dalla Corte rimettente, ha assicurato all’imputato la possibilità di chiedere l’applicazione della pena solo nel caso di nuove contestazioni dibattimentali “tardive”. L’assetto è, pertanto, pienamente simmetrico a quello attualmente valevole per il giudizio abbreviato, dopo la sentenza n. 333 del 2009.

Il discorso è, peraltro, diverso quanto all’oblazione. Con la sentenza n. 530 del 1995, questa Corte ha, infatti, dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., per violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di proporre domanda di oblazione relativamente al fatto diverso e al reato concorrente contestati in dibattimento: ciò, indipendentemente dal carattere “patologico” o “fisiologico” della nuova contestazione.

Al di là dei tratti differenziali tra l’istituto dell’oblazione, da un lato, e quello del giudizio abbreviato, dall’altro, occorre osservare come la citata pronuncia – la quale è stata oggetto di successivo recepimento legislativo (comma 4-bis dell’art. 141 disp. att. cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 53 della legge n. 479 del 1999) – si fondi essenzialmente sul rilievo che l’avvenuto superamento del limite temporale previsto per la domanda di oblazione (l’apertura del dibattimento) non è, nel caso di contestazioni suppletive, «riconducibile a libera scelta dell’imputato, e cioè ad inerzia al medesimo addebitabile, sol che si consideri che la facoltà in discussione non può che sorgere nel momento in cui il reato stesso è oggetto di contestazione». Notazione, questa, altresì riferibile (come si è detto dianzi) alla richiesta di giudizio abbreviato, così da rendere effettivamente ingiustificata, anche sotto tale ulteriore e conclusivo profilo, la previsione di una disciplina diversa e meno favorevole, in parte qua, per detto rito alternativo.

11.– L’art. 517 cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 ottobre 2012.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI

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