Sentenza 205/2015
Giudizio
Presidente CRISCUOLO – Redattore SCIARRA
Udienza Pubblica del 06/10/2015 Decisione del 07/10/2015
Deposito del 22/10/2015 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 72 del decreto legislativo 26/03/2001, n. 151.
Massime:
Atti decisi: ord. 183/2014
SENTENZA N. 205
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promosso dal Tribunale ordinario di Verbania nel procedimento vertente tra P.S.C. e la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza ragionieri e periti commerciali, con ordinanza del 30 giugno 2014, iscritta al n. 183 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di costituzione di P.S.C.;
udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
udito l’avvocato Lorenzo Bertaggia per P.S.C.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 30 giugno 2014, iscritta al n. 183 del registro ordinanze 2014, il Tribunale ordinario di Verbania, in funzione di giudice del lavoro, solleva, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 31, secondo comma, e 37, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui, per il caso di adozione nazionale, concede l’indennità di maternità alla madre libera professionista solo se il bambino non abbia superato i sei anni di età.
Il giudice rimettente espone di dover valutare la legittimità del diniego che la giunta esecutiva della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali, con provvedimento del 12 settembre 2013, confermato il 29 novembre 2013 dal consiglio di amministrazione della stessa Cassa di previdenza, ha opposto alla richiesta di P.S.C. di beneficiare dell’indennità di maternità.
Il giudice a quo, in particolare, è investito del ricorso proposto il 25 febbraio 2014 dalla professionista, che ha dedotto di essere iscritta dal 3 febbraio 2006 alla Cassa nazionale di previdenza e di avere presentato a quest’ultima, il 24 luglio 2013, una domanda volta a conseguire l’indennità di maternità.
A fondamento dell’istanza, la ricorrente ha prodotto il decreto del 15-18 maggio 2013, con cui il Tribunale per i minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta ha disposto in favore suo e del coniuge, a decorrere dal 28 febbraio 2013, l’affidamento preadottivo del minore D., nato il 14 luglio 2005.
La ricorrente denuncia l’illegittimità e il carattere discriminatorio del provvedimento di rigetto, incentrato sul rilievo che il minore avesse già compiuto il sesto anno di età «all’atto di ingresso nel nucleo familiare».
La Cassa nazionale di previdenza si è costituita nel giudizio principale, per eccepire preliminarmente la tardività della domanda amministrativa, presentata il 24 luglio 2013, allorché sarebbe già inutilmente trascorso il termine perentorio di centottanta giorni, che decorre dall’ingresso del minore nel nucleo familiare affidatario.
La parte resistente, inoltre, ha contestato la fondatezza della domanda, in quanto, dell’indennità in questione, la madre può beneficiare solo se il minore non abbia superato i sei anni di età.
A fronte di tali eccezioni preliminari, la ricorrente ha replicato che solo il decreto di affidamento preadottivo legittima a richiedere l’indennità di maternità e che, nella specie, tale decreto, pronunciato il 15 maggio 2013, sancisce la decorrenza dell’affidamento preadottivo dal 28 febbraio 2013.
Alla stregua di tali considerazioni, dunque, la domanda sarebbe tempestiva.
Il giudice rimettente assume che la normativa sull’indennità di maternità, nel prevedere il limite dei sei anni di età del bambino soltanto per la madre libera professionista che ricorra all’adozione nazionale, contravvenga al fondamentale canone di eguaglianza e al principio di tutela della maternità e dell’infanzia.
Quanto al primo profilo, il giudice a quo evidenzia che, soltanto per la madre libera professionista che scelga la via dell’adozione nazionale, permane quel limite dei sei anni di età del bambino, che il legislatore ha superato per i lavoratori dipendenti (legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato legge finanziaria 2008») e la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo per la madre libera professionista, che opti per l’adozione internazionale (sentenza n. 371 del 2003).
Tale disparità di trattamento sarebbe priva di ogni ragion d’essere, anche alla luce della «notevole durata», che contraddistingue la procedura di adozione nazionale e implica di frequente, allorché interviene il decreto di affidamento preadottivo, il superamento del limite dei sei anni di età del bambino.
La normativa impugnata, inoltre, sarebbe disarmonica rispetto ai precetti costituzionali, che impongono di «supportare in modo effettivo le famiglie e soprattutto le donne, le quali si trovano a sostenere l’arduo compito di far coesistere il loro ruolo di lavoratrici con quello di madri e di conseguire l’interesse dei minori, i quali hanno diritto ad una crescita serena».
L’interesse dei minori – soggiunge il giudice rimettente – non è meno meritevole di tutela nella procedura di adozione nazionale, che registra, al pari della procedura di adozione internazionale, difficoltà e «problematiche sociali e psicologiche» anche quando il minore abbia superato i sei anni di età.
In punto di rilevanza, il giudice a quo argomenta che è proprio la disposizione censurata, dal tenore letterale insuperabile in via di interpretazione costituzionalmente compatibile, a precludere l’accoglimento della domanda.
2.– Nel giudizio è intervenuta P.S.C., chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Verbania.
La norma, ad avviso della parte intervenuta, riserverebbe un trattamento deteriore alle madri libere professioniste che scelgono le procedure dell’adozione nazionale, rispetto alle madri lavoratrici dipendenti e autonome, per un verso, e, per altro verso, rispetto alle madri libere professioniste che ricorrono all’adozione internazionale.
La norma, inoltre, violerebbe il diritto del minore a godere della presenza effettiva della madre, nel momento delicato dell’inserimento in un nuovo nucleo familiare, e vanificherebbe quella finalità di tutela del minore, che il legislatore persegue con l’istituire tali provvidenze.
La parte intervenuta, quanto all’eccezione di tardività della domanda, ha ribadito che il termine di centottanta giorni decorre dallo stabile ingresso del minore nel nucleo familiare, avvenuto il 28 febbraio 2013, come attesta lo stesso decreto di affidamento preadottivo.
3.– In prossimità dell’udienza, la parte intervenuta ha depositato una memoria illustrativa, ripercorrendo le tappe salienti della legislazione, fino alle novità introdotte dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), inapplicabile ratione temporis alla vicenda controversa.
All’esito di tale analisi, la parte intervenuta ha posto nuovamente in risalto la mancanza di ogni apprezzabile ragione giustificatrice del diverso trattamento riservato alla madre libera professionista in caso di adozione nazionale, rispetto all’ipotesi di adozione internazionale, e delle differenze che ancora intercorrono, per l’ipotesi di adozione nazionale, tra il trattamento della madre libera professionista e quello della madre lavoratrice dipendente o della madre lavoratrice autonoma iscritta alla gestione separata presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Verbania, in funzione di giudice del lavoro, sospetta di illegittimità costituzionale l’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53).
La norma censurata, per l’ipotesi di adozione nazionale, accorda l’indennità di maternità alla libera professionista, a condizione che il bambino non abbia superato i sei anni di età.
Con riguardo a tale limite di età, il giudice rimettente prospetta, in primo luogo, la violazione del principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) e lamenta l’irragionevole disparità di trattamento della madre libera professionista, che proceda all’adozione nazionale, rispetto alla madre libera professionista, che scelga la via dell’adozione internazionale, e alla madre lavoratrice dipendente, che abbia dato impulso alla procedura di adozione nazionale.
Solo la madre libera professionista, che decida di adottare un bambino di nazionalità italiana e rivendichi l’indennità di maternità, è assoggettata al limite dei sei anni di età del bambino.
Una tale singolarità sarebbe priva di ogni ragione giustificatrice, anche in considerazione della «notevole durata» della procedura di adozione nazionale, non meno laboriosa e problematica dell’adozione internazionale.
Non è infrequente, difatti, che il decreto di affidamento preadottivo, indispensabile per accedere al beneficio, sopraggiunga quando il bambino ha già compiuto i sei anni di età.
La disciplina impugnata, per altro verso, confliggerebbe con i princípi di tutela della maternità e dell’infanzia (art. 31, secondo comma, Cost.) e di speciale adeguata protezione, assicurata dalla Carta fondamentale alla donna lavoratrice e al bambino (art. 37, primo comma, Cost.).
La limitazione normativa sarebbe lesiva dei diritti della donna lavoratrice, chiamata a conciliare il ruolo di madre con il ruolo di lavoratrice, e del diritto del minore a una «crescita serena», che non è meno bisognoso di protezione nell’ipotesi di adozione nazionale e di superamento del sesto anno di età.
2.– La questione è fondata.
3.– Sul presente giudizio non incidono le novità introdotte dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183).
Come si evince dalla relazione illustrativa che accompagna il decreto, la normativa si prefigge di armonizzare la disciplina dell’indennità di maternità e di recepire le indicazioni della giurisprudenza di questa Corte, anche con riferimento al limite di età del bambino adottato.
In tale quadro si inscrive l’art. 20 del d.lgs. n. 80 del 2015, che, con previsione di carattere generale, svincola l’erogazione dell’indennità dal requisito del mancato superamento dei sei anni di età del bambino.
Per effetto della norma transitoria dell’art. 28, tale disciplina si applica soltanto a partire dal 25 giugno 2015, giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.
Le novità normative, che non dispiegano alcuna influenza sul giudizio in corso, non alterano, pertanto, i termini della questione e non richiedono che il giudice rimettente rinnovi la valutazione di rilevanza che ha compiuto, con motivazione articolata e convincente, anche con riguardo alle questioni preliminari sulla tempestività della domanda.
4.– La soluzione del dubbio di costituzionalità non può prescindere dall’inquadramento delle finalità dell’istituto, crocevia di molteplici valori costituzionalmente rilevanti (artt. 31, secondo comma, e 37, primo comma, Cost.).
Nell’indennità di maternità, all’originaria funzione di tutela della donna, scolpita nella stessa denominazione del beneficio, si affianca una finalità di tutela dell’interesse del minore, che l’opera del legislatore e dell’interprete ha enucleato in maniera sempre più nitida.
È proprio tale finalità che ispira, sul versante legislativo, la progressiva estensione del trattamento di maternità anche alle ipotesi di affidamento e adozione.
Tale estensione, dapprima circoscritta alle madri lavoratrici dipendenti (art. 6 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, in tema di «Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro»), ha coinvolto successivamente le madri lavoratrici autonome (art. 2, comma 2, della legge 29 dicembre 1987, n. 546, che racchiude la disciplina della «Indennità di maternità per le lavoratrici autonome») e le madri libere professioniste (art. 3, comma 1, della legge 11 dicembre 1990, n. 379, avente ad oggetto la «Indennità di maternità per le libere professioniste»).
La tutela del preminente interesse del minore traspare anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha contribuito a definirne i multiformi contenuti (da ultimo, sentenza n. 257 del 2012, in merito alla modulazione temporale del trattamento di maternità delle lavoratrici iscritte alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, recante «Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare», che abbiano adottato o avuto in affidamento preadottivo un minore).
In questa prospettiva, l’interesse del minore, che trascende le implicazioni meramente biologiche del rapporto con la madre, reclama una tutela efficace di tutte le esigenze connesse a un compiuto e armonico sviluppo della personalità.
Nel caso di affidamento e di adozione, tali esigenze si atteggiano come necessità di assistenza nella delicata fase dell’inserimento in un nuovo nucleo familiare.
Proprio per questa nuova pienezza di significato, che trae ispirazione e coerenza dai precetti costituzionali, l’interesse del minore non può patire discriminazioni arbitrarie, legate al dato accidentale ed estrinseco della tipologia del rapporto di lavoro facente capo alla madre o delle particolarità del rapporto di filiazione che si instaura.
Inquadrato in tali coordinate, il beneficio dell’indennità di maternità costituisce attuazione del dettato costituzionale, che esige per la madre e per il bambino «una speciale adeguata protezione» (art. 37, primo comma, Cost.).
È questa stessa formulazione letterale, non priva di enfasi, che illumina di significati il principio enunciato dalla Costituzione.
La specialità e l’adeguatezza della protezione non sono aspetti irrelati ed eterogenei, che possano essere disgiunti l’uno dall’altro.
L’assenza di congiunzioni tra i due aggettivi “speciale” e “adeguata” dimostra che si tratta di profili inscindibili, che si compenetrano e si rafforzano a vicenda.
L’adeguatezza della tutela non può che essere valutata al banco di prova della specificità della posizione di chi dovrà beneficiarne.
Inoltre, nell’affermare l’esigenza di una tutela incisiva, la Carta fondamentale associa la madre e il bambino e sceglie di collocarli in un orizzonte comune.
Anche il punto di vista della tutela, pertanto, non può che rispecchiare e rispettare l’unicità della relazione esistenziale che lega la madre al bambino.
L’indennità di maternità è emblematica dell’indissolubile intreccio d’interessi della madre e del minore, che presuppongono, anche secondo il dettato costituzionale, una considerazione unitaria.
5.– La normativa censurata si discosta dai princípi costituzionali richiamati.
Nel negare l’indennità di maternità soltanto alle madri libere professioniste che adottino un minore di nazionalità italiana, quando il minore abbia già compiuto i sei anni di età, la disciplina si pone in insanabile contrasto con il principio di eguaglianza e con il principio di tutela della maternità e dell’infanzia, declinato anche come tutela della donna lavoratrice e del bambino.
Quanto al primo profilo, la normativa impugnata è foriera di una discriminazione arbitraria a danno della libera professionista che adotti un minore di nazionalità italiana.
Soltanto per tale fattispecie la disciplina in esame continua a subordinare il godimento dell’indennità a un limite (i sei anni di età del minore), che è stato già superato dal legislatore per le madri lavoratrici dipendenti (art. 2, comma 452, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato — legge finanziaria 2008» in tema di congedo di maternità) e da questa Corte, con la sentenza n. 371 del 2003, per le madri libere professioniste che privilegino l’adozione internazionale.
La singolarità del trattamento riservato alla libera professionista che opti per l’adozione nazionale è carente di ogni giustificazione razionale, idonea a dar conto del permanere, soltanto per questa fattispecie, di un limite rimosso per tutte le altre ipotesi.
Nel corso di questo giudizio, che non ha visto intervenire il Presidente del Consiglio dei ministri, non sono state addotte giustificazioni a sostegno di tale trattamento difforme e non è senza significato che, all’incongruenza segnalata, il legislatore abbia successivamente posto rimedio, con l’art. 20 del d.lgs. n. 80 del 2015.
Non vi è ragione di condizionare al limite dei sei anni di età del figlio l’erogazione del beneficio soltanto alle madri che adottino un minore di nazionalità italiana. Ciò rende il contrasto con il principio di eguaglianza ancora più stridente, poiché, determinando diversificazioni sprovviste di una precisa ragion d’essere, si pregiudica a un tempo l’interesse della madre e del minore e la funzione stessa dell’indennità di maternità, da riconoscersi senza distinzioni tra categorie di madri lavoratrici e tra figli.
Vi è inoltre da considerare che la posizione della madre e del minore di nazionalità italiana non risulta meno meritevole di tutela per il solo fatto che il minore abbia superato i sei anni di età, nel momento in cui il decreto di affidamento preadottivo interviene a formalizzarne l’ingresso nel nucleo familiare.
L’inserimento del minore nella nuova famiglia non è meno arduo e bisognoso di «una speciale adeguata protezione» se il minore è di nazionalità italiana e per il dato contingente, e legato a fattori imponderabili, che il minore abbia superato i sei anni di età.
Nel limitare la concessione di un beneficio, che tutela il preminente interesse del minore, la norma censurata si traduce, in ultima analisi, in una discriminazione pregiudizievole non solo per la madre libera professionista che imbocchi la strada dell’adozione nazionale, ma anche e soprattutto per il minore di nazionalità italiana, coinvolto in una procedura di adozione.
Da tali considerazioni discende l’illegittimità costituzionale della norma, per violazione di tutti i parametri evocati dal giudice rimettente.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella versione antecedente alle novità introdotte dall’art. 20 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui, per il caso di adozione nazionale, prevede che l’indennità di maternità spetti alla madre libera professionista solo se il bambino non abbia superato i sei anni di età.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 ottobre 2015.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI
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