L’articolo 6 del DPR n. 380/2001, al comma 1, lettera d), come modificato dal d.l. 25 marzo 2010 n. 40, prevede che possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo “i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari”, solo “nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme…di tutela del rischio idrogeologico…nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42…”. Sono quindi esclusi tra gli interventi di attività edilizia libera i movimenti di terra mediante realizzazione di una rampa di collegamento per superare i dislivelli esistenti, gli scavi per la posa di gabbioni metallici con formazione di terrazzamenti, e tutte le attività di consolidamento effettuati in una zona E (quindi a destinazione agricola) caratterizzata dal massimo rischio idrogeologico e in presenza di specifiche norme PAI che li subordinano alla richiesta di autorizzazione
Consiglio di Stato
sezione VI
sentenza 2 dicembre 2016, n. 5069
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9628 del 2015, proposto da:
Sa. Sa., rappresentato e difeso dall’avvocato Ro. Pi. C.F. (omissis), con domicilio eletto presso Al. Na. in Roma, via (….);
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Ma. Co. D’A. C.F. (omissis), domiciliato ex art. 25 cpa presso Cons. Di Stato Segreteria in Roma, p.za (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CALABRIA – SEZ. STACCATA DI REGGIO CAL.: SEZIONE I n. 00354/2015, resa tra le parti, concernente sospensione lavori e ripristino stato dei luoghi.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis);
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 novembre 2016 il Cons. Francesco Mele e uditi per le parti gli avvocati Ro. Pi.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con sentenza n. 354/2015 dell’8-4-2015 il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria – Sezione Staccata di Reggio Calabria rigettava il ricorso proposto dall’arch. Sa. Sa., inteso ad ottenere l’annullamento dell’ordinanza n. 94, emessa il 20-4-2012 dal Capo Area Urbanistica de4l Comune di (omissis), con la quale si intimava al predetto la sospensione dei lavori ed il ripristino dello stato dei luoghi in relazione a lavori eseguiti in località (omissis).
La prefata sentenza esponeva in fatto quanto segue.
“Nel presente giudizio è controversa la legittimità dell’ordinanza n. 94 del 20 aprile 2012 emessa dal Capo del Settore Urbanistica del Comune di (omissis), con cui è stata inibita al signor Sa. Sa. la prosecuzione di lavori di posa di muri a secco e di movimentazione del terreno su un’area di proprietà sita in località (omissis). Nel corso di un sopralluogo effettuato in data 16 marzo 2012, personale tecnico del Comune di (omissis) accertava che sul predetto terreno venivano realizzate attività edilizie in assenza dei titoli legittimanti. In particolare, si legge nel verbale di sopralluogo che i lavori in corso consistevano in: – posa di muri a secco; – movimenti di terra mediante la realizzazione di una rampa di collegamento utilizzata per superare i dislivelli esistenti; -scavi per la posa di gabbioni metallici con formazione consequenziale di vari terrazzamenti; – consolidamento della porzione oggetto di intervento. Dal predetto verbale emerge altresì che sull’area era presente un’antica fontana il cui percorso di accesso era stato alterato dai lavori in corso. Nel provvedimento impugnato veniva contestato che: – non risultava depositata dal proprietario alcuna richiesta di autorizzazione né alcuna comunicazione per l’esecuzione di lavori; – la zona in oggetto ricade in zona (omissis) e dunque ha destinazione agricola; – sussiste sull’area vincolo idrogeologico e – nello specifico perimetro dell’intervento – il rischio idrogeologico è massimo; – una parte dei lavori veniva realizzata anche su suolo pubblico. Il signor Sa. impugna l’ordinanza comunale affidando le censure ad un unico motivo di ricorso nel quale deduce la illegittimità del provvedimento che sarebbe viziato per eccesso di potere, difetto di istruttoria ed errore sui presupposti di fatto e di diritto…”.
Avverso la sentenza di rigetto del giudice di primo grado l’arch. Sa. ha proposto appello dinanzi a questo Consiglio di Stato, al fine di ottenerne l’annullamento e l’integrale riforma, con conseguente accoglimento del ricorso di primo grado.
Ha dedotto: Violazione e falsa applicazione degli articoli 16, comma 3, delle NTA del Piano di Assetto Idrogeologico (PAI) approvato con delibera consiliare della Regione Calabria n. 115 del 28-12-2001, nonché dell’articolo 149 del d.lgs. n. 42/2004; Errore nei presupposti di fatto – errore su un punto decisivo della controversia – erroneità – contraddittorietà – illogicità ed insufficienza della motivazione della sentenza appellata.
Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio, deducendo l’infondatezza dell’appello e chiedendone il rigetto.
Il ricorrente ha prodotto documentazione.
La causa è stata discussa e trattenuta per la decisione all’udienza del 3-11-2016.
DIRITTO
L’appellante deduce: Violazione e falsa applicazione degli artt. 16, comma 3, delle Norme Tecniche di Attuazione del Piano di assetto idrogeologico (PAI) approvato con delibera del Consiglio Regionale della Calabria n. 115 del 28-12-2001; violazione dell’articolo 149 del d.lgs. n. 42/2004; errore nei presupposti di fatto; errore su un punto decisivo della controversia; erroneità; contraddittorietà; illogicità ed insufficienza della motivazione della sentenza appellata.
Censura in primo luogo la sentenza di primo grado nella parte in cui ha ritenuto di avere disatteso la disciplina prevista dall’articolo 16, comma 3, delle NTA del PAI.
Premette che la funzione delle norme del PAI non è quella di istituzione di vincoli (se non per l’attività edificatoria), evidenziando che le stesse vanno raccordate con la disciplina contenuta nel RDL 30-12-1923 n. 3267, istitutivo del vincolo idrogeologico.
Quest’ultimo (ricognitivo ed a carattere permanente) non preclude in assoluto la possibilità di intervenire sul territorio, onde le relative autorizzazioni non vengono rilasciate quando esistono situazioni di dissesto reale, se non per la bonifica del dissesto stesso o quando l’intervento può produrre i danni di cui al citato R.D.L.
Aggiunge che, ai sensi della predetta normativa, non sono comunque soggetti ad autorizzazione gli interventi in zona soggetta a vincolo idrogeologico i lavori di mera manutenzione a scopi agricoli o forestali e scavi effettuati da conduttore agricolo su terreni in attualità di coltivazione, sempre che gli stessi comportino un contenuto volume di scavi e non siano finalizzati alla trasformazione di boschi in altra qualità di cultura o di terreni saldi in terreni soggetti a periodica lavorazione.
Evidenzia che i lavori posti in essere da esso appellante hanno interessato un’area di ampiezza complessiva inferiore a 1000 mq.ad esclusiva funzione agricola, con realizzazione di opere di manutenzione e miglioramento circoscritto ad infrastrutture rurali compatibili con l’assetto della fascia.
Si tratterebbe, pertanto, di opere non soggette ad autorizzazione di sorta.
Deduce, inoltre, che, sulla base delle stesse dichiarazioni rese dai tecnici comunali, le opere realizzate avrebbero determinato la “formazione di vari terrazzamenti ed il contestuale consolidamento della porzione di costone oggetto dell’area di intervento”.
Il dichiarato consolidamento conduce ad escludere che si sia verificato, anche solo potenzialmente, l’incremento del livello di rischio e, pertanto, non troverebbe applicazione l’articolo 16 del PAI.
Il riferimento al comma 1 di tale norma, operato dal giudice di primo grado, non sarebbe pertinente, atteso che il divieto ivi contenuto si riferisce all’attività edilizia (così come previsto dal comma 1 dell’articolo 2 bis delle norme del PAI) e non certamente a qualsiasi attività che comporti uno spostamento del terreno o comunque l’attività di sistemazione dell’area.
Evidenzia, inoltre, che, attesa la difficoltà di reperire manodopera specializzata per la realizzazione di “armacere”, egli ha realizzato gli argini all’erosione con gabbionate metalliche riempite di pietra a secco, prive di fondazioni in quanto appoggiate direttamente al suolo e costituenti opere precarie.
L’attività posta in essere sarebbe, dunque, attività “libera”, ai sensi dell’articolo 6 del dpr n. 380/2001.
Contesta, poi, l’asserita necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica, atteso che l’intervento era già stato autorizzato con il provvedimento soprintendentizio n. 8418/P del 13-12-2001 ottenuto dalla società La Ma. s.a.s., osservando pure che, ai sensi della lettera b) dell’articolo 149 del Codice del Paesaggio, l’autorizzazione non è necessaria per interventi inerenti l’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l’assetto idrogeologico del territorio.
La gravata sentenza così motiva sul punto.
“Risulta tuttavia agli atti ed è incontestato tra le parti che l’area su cui sono state realizzate le opere è sottoposta a vincolo paesaggistico ed idrogeologico (area a rischio molto elevato). Orbene, l’esistenza di un vincolo idrogeologico ad alto rischio (R4) determina, come conseguenza, l’applicazione della disciplina prevista dall’articolo 16, comma 3, delle Norme di Attuazione e Misure di salvaguardia del PAI che dispone – anche per le attività che non possono essere ricondotte ad attività edilizia ma che comunque comportino uno spostamento del terreno o comunque lo svolgimento di attività di sistemazione dell’area – la presentazione di un progetto presso l’Amministrazione competente all’approvazione, al fine di dimostrare che l’intervento in esame è stato progettato rispettando il criterio di eliminare o ridurre le condizioni di rischio esistenti ovvero che esso è stato progettato rispettando il criterio di non aumentare il rischio di pericolosità da frana esistente e non precluda la possibilità di eliminare o ridurre le condizioni di rischio. La speciale disciplina che il legislatore ha previsto per le zone che presentano elevato rischio idrogeologico è espressione di una volontà di rafforzare la tutela di territori la cui manomissione può determinare gravi conseguenze per lo stato dei luoghi e la pubblica incolumità. Non è pertanto condivisibile la prospettazione del ricorrente il quale rinviene nell’attività posta in essere – ma non autorizzata – l’effetto di consentire il consolidamento dello stato dei luoghi proprio allo scopo di arginare il rischio frane. Quando la legge – in ragione della rilevanza di alcuni interessi individua determinate autorità quali preposte alla tutela di particolari vincoli (paesaggistico, idrogeologico, sismico etc.) intende attribuire alla loro competenza ogni valutazione sulle attività che possano essere poste in essere a tutela dei beni interessi tutelati, subordinando, conseguentemente, le attività dei privati a specifici regimi autorizzatori. In questo senso, dunque, la diversità di ratio che presiede alla normativa urbanistica ed a quella a tutela dell’integrità del territorio, determina come conseguenza che anche attività riconducibili alla agricoltura e che sono libere da un punto di vista edilizio, possano necessitare di atti autorizzatori quando si sostanziano in manomissioni di terreni posti in zone ad elevato rischio idrogeologico”.
Il motivo di appello non è meritevole di favorevole considerazione, dovendosi al riguardo confermare la determinazione reiettiva del giudice di primo grado.
Va premesso che la sentenza di primo grado non fonda il rigetto del ricorso sulla circostanza che le opere realizzate dall’arch. Sa. abbisognassero di preventivo rilascio di titolo edilizio.
Essa piuttosto basa il rigetto del ricorso e, quindi, la legittimità dell’impugnato provvedimento sulla mancata osservanza dell’asserito obbligo della preventiva autorizzazione ai sensi dell’articolo 16, comma 3, delle NTA del PAI ed, in considerazione, sulla base di tale omessa verifica, della mancata certezza in ordine all’esonero dell’autorizzazione paesaggistica, così come previsto dall’articolo 149 del Codice del Paesaggio.
E’, dunque, in ordine alle suddette circostanze, che deve essere esaminato il proposto appello.
D’altra parte, deve essere osservato che se è vero che l’articolo 6 del DPR n. 380/2001, al comma 1, lettera d), prevede che sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo “i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari”, nondimeno la medesima disposizione recita che ciò avviene “nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme…di tutela del rischio idrogeologico…nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42…”.
Va, poi, per incidens, evidenziato che l’inclusione dei “movimenti di terra” (tra l’altro, “strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola…) nel novero della attività edilizia libera risulta introdotto con il d.l. 25 marzo 2010 n. 40, mentre l’attività di consolidamento del terreno risulta avviata precedentemente, per come emerge dalla comunicazione trasmessa dall’arch. Sa. al Comune di (omissis) in data 8-2-2010.
Va pure rilevato che nella specie non trattasi esclusivamente di movimenti di terra, ma anche di posa in opera di gabbionate, le quali, in relazione al significato “funzionale” che oramai connota il concetto di opera “precaria”, ne esclude tale configurazione, risultando le stesse preordinate ad un contenimento stabile e duraturo del terrazzamento.
Ciò posto e venendo all’esame della autorizzazione ex articolo 16 delle NTA del PAI, deve in primo luogo escludersi la bontà dell’assunto di parte appellante, laddove afferma che egli “non aveva necessità di alcun parere preventivo riguardo le norme PAI…considerato che il movimento di terra che ha comportato un volume di scavi estremamente ridotto, è stato quello per la sistemazione agricola del terreno e non è stato certamente finalizzato alla mitigazione del rischio come segnalato dall’articolo 16, comma 3 delle norme di attuazione…”.
La circostanza è smentita, nella sua assolutezza, dalla stessa comunicazione inviata dall’arch. Sa. al Comune di (omissis) in data 8 febbraio 2010.
In essa si legge che “Lo scrivente possiede un piccolo appezzamento di terreno agricolo…che in passato è stato utilizzato come discarica di inerti da cava durante la realizzazione del doppio binario delle FF.SS. Poiché detto terreno è soggetto a fenomeni di dissesto sto procedendo al suo consolidamento previa la costruzione di muri a secco in pietrame che costituiscono i tipici terrazzamenti del luogo detti armacere. Alla conclusione della sistemazione idraulica l’utilizzazione del terreno riavrà la sua originaria destinazione agricola con la piantumazione di un frutteto”.
Da quanto sopra emerge incontestabilmente che, se è vero che il risultato ultimo dell’intervento sarà la piantumazione del frutteto, l’intervento, nelle intenzioni del privato è in primo luogo quello del consolidamento di un terreno soggetto a fenomeni di dissesto, al fine di effettuarne primieramente la sistemazione idraulica.
Di poi, deve escludersi che la suddetta autorizzazione ex art. 16 sia necessaria esclusivamente per le aree per le quali gli strumenti urbanistici vigenti prevedono un utilizzo a fini edificatori, così come affermato da parte appellante, laddove egli richiama il comma 2 bis dell’articolo 2 delle suddette Norme Tecniche di Attuazione.
Tale norma dispone che “Per le aree a rischio elevato e molto elevato e per le aree di attenzione, vincolate dal PAI, per le quali gli strumenti urbanistici prevedono un utilizzo ai fini edificatori, i soggetti interessati possono redigere progetti di messa in sicurezza, corredati da indagini e studi di dettaglio per eliminare il rischio o ridurlo ad un livello compatibile con l’utilizzo previsto dai suddetti strumenti urbanistici”.
Il significato della disposizione è, dunque, quello di consentire, attraverso la redazione di progetti di messa in sicurezza, l’utilizzo di terreni la cui edificabilità è prevista da strumenti urbanistici, connotati da rischio frane elevato o molto elevato.
Essa è, pertanto, previsione specifica, appunto concernente i terreni urbanisticamente destinati alla edificazione, la quale non circoscrive, in senso limitativo, la portata generale e l’ambito di applicabilità della successiva disposizione, di carattere generale, contenuta nel successivo articolo 16, recante la “Disciplina delle aree a rischio R4 e delle aree di frana ad esse associate”.
Dimostrazione di tanto è lo stesso contenuto della richiamata norma, laddove la stessa, nel porre specifici divieti di intervento, stabilisce, alla lettera a), che “sono vietati scavi, riporti e movimenti di terra e tutte le attività che possono esaltare il livello di rischio e/o pericolo”, mentre, alla lettera b), espressamente prevede che “è vietata ogni forma di nuova edificazione”.
Tale distinzione e differenziata previsione dimostra inequivocabilmente che la possibilità derogatoria, contenuta nell’articolo 2, comma 2 bis, si riferisce alla specifica fattispecie del divieto di nuova edificazione di cui alla lettera b) dell’articolo 16, ma non anche alla disposizione di cui alla lettera a), secondo cui “sono vietati scavi, riporti e movimenti di terra e tutte le attività che possono esaltare il livello di rischio e/o pericolo”.
Sicchè, deve ritenersi che la possibilità di deroga a tale ultimo divieto vada correlata unicamente alla insussistenza del presupposto legittimante l’operatività dello stesso, cioè la possibilità che i richiamati interventi possano “esaltare il livello di rischio e/o pericolo”.
Orbene, la non operatività del divieto deve essere verificata e tale verifica deve essere ragionevolmente effettuata dall’autorità preposta alla tutela del vincolo, non potendo la stessa essere astrattamente desunta dalla tipologia di intervento posto in essere ovvero effettuata dal Comune.
Deve, pertanto, ritenersi che, al di là della espressa previsione di specifici interventi contenuta nel comma 3 dell’articolo 16 citato, occorre al riguardo la presentazione di un progetto e lo stesso deve ottenere l’approvazione dei competenti servizi regionali, previo parere dell’ABR da esprimersi motivatamente entro sessanta giorni.
Tutto ciò in disparte la circostanza che l’intervento per cui è causa, eseguito dall’architetto Sa., tendendo alla ricostituzione di terrazzamenti in precedenza deteriorati o crollati per lo stato di incuria e di abbandono e per lo sviluppo incontrollato di vegetazione spontanea, ben può inquadrarsi nella fattispecie di cui alla lettera a) del comma 2, quale “interventi per la mitigazione del rischio frana” (in tal senso è pure, come sopra visto, la dichiarazione al Comune dell’8-2-2010, nella quale si parla in primo luogo di interventi di consolidamento e di sistemazione idraulica).
Neppure può sostenersi che la disposizione contenuta nell’articolo 16 del PAI non costituisca vincolo operativo per il privato, considerandosi che l’articolo 4 delle relative NTA (Ambito giuridico di applicazione e soggetti destinatari) prevede, al comma 2, che “le misure di salvaguardia, le norme di attuazione e i programmi di intervento del PAI sono rivolte ai soggetti privati…che, a qualsiasi titolo, amministrano, realizzano o esercitano diritti su beni immobili pubblici o privati, ricadenti nel territorio di competenza dell’ABR”.
La disposizione, poi, ha una sua valenza autonoma e prescrittiva, con la conseguenza che non appare pertinente il richiamo al RDL 30-12-1923 n. 327, laddove si afferma che il vincolo imposto da tale normativa non esclude in assoluto la possibilità di intervenire sul territorio e che non sono soggetti ad autorizzazione i lavori di mera manutenzione a scopi agricoli o forestali e scavi effettuati dal conduttore agricolo su terreni in attualità in coltivazione, sempre che gli stessi comportino un contenuto volume di scavi e non siano finalizzati alla trasformazione di boschi in altra qualità di coltura o di terreni saldi in terreni soggetti a periodica lavorazione.
Ritiene, infatti, in primo luogo la Sezione che le disposizioni del richiamato RDL n. 327/1923 non escludano l’applicabilità della previsione dell’articolo 16 citato.
Di poi, va tenuta in considerazione la peculiarità dei lavori eseguiti dall’appellante, i quali, pur potendo rientrare (con le precisazioni più sopra già svolte) nella categoria dei movimenti di terra pertinenti all’esercizio dell’attività agricola, comunque non si connotano in termini di fedele ripristino della situazione preesistente, evidenziandosi che le originarie “armacere” venivano sostituite dalla realizzazione di gabbioni metallici riempiti di pietre a secco e che era stata realizzata una rampa di collegamento utilizzata (evidentemente in precedenza non presente in loco) per superare i dislivelli esistenti; circostanze queste ultime le quali imponevano certamente una verifica in termini di “mancata esaltazione del livello di rischio e/o pericolo”.
La documentazione fotografica allegata al ricorso di primo grado dimostra, d’altra parte, quale fosse lo stato del terreno precedente all’intervento di “consolidamento” e quale ne sia stata la configurazione operata dall’appellante.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte il motivo di appello è, per tale parte, infondato.
Può a questo punto passarsi all’esame delle censure mosse alla sentenza impugnata in tema di autorizzazione paesaggistica.
Anche per tale profilo ritiene il Collegio che l’appello non sia meritevole di favorevole considerazione.
La sentenza di prime cure così motiva sul punto.
“La infondatezza della precedente censura inficia l’argomento che il ricorrente pone a sostegno dell’ulteriore vizio di legittimità della sentenza impugnata, la quale sarebbe stata erroneamente fondata sulla assenza del necessario parere soprintendentizio, trattandosi di area ricadente in zona paesaggisticamente vincolata. Secondo la prospettiva del ricorrente, infatti, l’art. 149 del d.lgs. n. 42/2004 indicherebbe, tra gli interventi non soggetti ad autorizzazione, quelli a)… di manutenzione ordinaria, straordinaria, consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici; b)…inerenti l’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili, e sempre che non si tratti di attività ed opere che non alterino l’assetto idrogeologico del territorio; “. Nel caso di specie, la mancanza di qualsivoglia verifica da parte dell’Autorità in ordine alla legittimità degli interventi posti in essere, secondo le previsioni dell’art. 16 delle NTA del PAI, non consentono di ritenere con certezza che i medesimi interventi “non alterino l’assetto idrogeologico del territorio” e conseguentemente non risulta applicabile tout court la previsione dell’esonero della necessaria autorizzazione paesaggistica contenuto nel citato articolo 149″.
La Sezione condivide la determinazione reiettiva del giudice di primo grado per le ragioni che di seguito si svolgono.
Non può essere accolta l’obiezione primieramente svolta dall’arch. Sa., in base alla quale le NTA del PAI escludono qualsiasi ingerenza sugli aspetti paesaggistici.
Va, invero, specificato che il richiamo del Tribunale alle norme del PAI viene operato al solo fine di affermare che la mancata positiva verifica prevista da tale norma impediva di poter ritenere con certezza verificata la sussistenza del presupposto per l’operatività nella specie della esenzione dall’autorizzazione paesaggistica di cui all’articolo 149 del Codice (“sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l’assetto idrogeologico del territorio”).
Non vi è, dunque, commistione tra le due normative, ma unicamente la considerazione che il mancato espletamento di una procedura autorizzativa (quella di cui all’art. 16 delle NTA PAI) non consentiva la verifica della non necessità dell’autorizzazione paesaggistica nella specifica fattispecie, titolo abilitativo invece ordinariamente richiesto in relazione alla sussistenza del sito di intervento in area vincolata.
D’altra parte, in epoca precedente, il rilascio di autorizzazione paesaggistica per la realizzazione di lavori analoghi era stato richiesto (e, tra l’altro, ottenuto).
Neppure meritano condivisione le ulteriori argomentazioni svolte a sostegno della censura.
Non ha, infatti, rilievo la circostanza che “l’intervento (a tutto concedere) era già stato autorizzato con il già citato provvedimento n. 8418/P del 13-12-2001 ottenuto dalla società La Ma. s.a.s.”.
Rileva in proposito la Sezione che l’autorizzazione paesaggistica ha efficacia per cinque anni, termine certamente decorso tra il rilascio della autorizzazione alla s.a.s. La Ma. (13-12-2001) e l’avvio dei lavori da parte dell’appellante (dall’atto di appello si ricava che essi sarebbero iniziati nell’anno 2010).
Di poi, si osserva che la verifica in ordine alla sussistenza delle condizioni per la non necessità dell’autorizzazione (mancata alterazione dello stato dei luoghi e dell’assetto idrogeologico del territorio), spetta, in assenza della richiamata autorizzazione PAI, all’autorità preposta alla tutela del vincolo, la quale può valutarla in presenza di un elaborato progettuale che rappresenti compiutamente lo stato preesistente e quello successivo alla esecuzione dei programmati lavori, previa ovviamente verifica della mancata alterazione, da parte delle opere progettate ed in relazione ai materiali concretamente utilizzati, dell’assetto idrogeologico del terreno.
Nella specie, tale valutazione era necessaria, considerandosi certamente l’originaria ed antica sistemazione della “(omissis)” in terrazzamenti, ma dovendosi altresì prendere in considerazione lo stato attuale in cui il terreno versava (e da quanto tempo), nonché i materiali utilizzati per la realizzazione dei terrazzamenti (nella specie “gabbioni” e non le tradizionali “armacere”).
D’altra parte, nella vicenda in esame non si discute della irrealizzabilità “sostanziale” delle opere eseguite dall’appellante in relazione ai vincoli esistenti – accertamento non compiuto dall’autorità competente – onde non appaiono dirimenti i rilievi in ordine ai benefici dalle stesse apportate all’assetto idrogeologico ed al consolidamento del sito, ma unicamente del dato formale della mancata preventiva autorizzazione.
Anche per tale parte l’appello è, di conseguenza, infondato.
Con il secondo motivo di appello, l’arch. Sa. deduce che il Tribunale calabrese, con ordinanza n. 155/12 aveva concesso la sospensione cautelare della gravata ordinanza “facendo carico al ricorrente di dotarsi dei necessari nulla osta riferibili ai singoli vincoli e di presentare al Comune di (omissis) un idoneo progetto in ordine agli interventi da realizzare”.
Lamenta che egli aveva prodotto una relazione tecnico-descrittiva dello stato dei luoghi e degli interventi in corso di esecuzione, insistendo sulla legittimità dei manufatti e chiedendo al Comune di attivarsi al fine del conseguimento dei previsti nulla osta, ma che l’ente locale era rimasto colpevolmente inerte e non aveva provveduto a trasmettere la richiesta di parere all’ente delegato.
Il motivo di appello è inammissibile, atteso che il contestato comportamento del Comune (ove formalizzato in provvedimento amministrativo) non è stato oggetto di impugnazione in primo grado, né trattasi comunque di censura contenuta nel relativo ricorso, con la conseguenza che la stessa non può essere per la prima volta proposta in appello.
Può al più trattarsi di corretta esecuzione di ordinanza cautelare, ma, in virtù dell’efficacia provvisoria e interinale di quest’ultima, la questione è certamente superata dalla presente decisione di merito.
Se è vero, peraltro, che la censura è inammissibile, la Sezione, come del resto già rilevato nello “invito” contenuto nella propria ordinanza cautelare n. 248 del 2016, non può esimersi dal sottolineare – senza peraltro che tali considerazioni vengano a far parte del contenuto dispositivo della presente sentenza – che la vicenda sostanziale sottesa al presente giudizio richiede, per quanto possibile, una soluzione improntata ai principi di ragionevolezza e di proporzionalità.
Di conseguenza, raffrontandosi lo stato del terreno precedentemente all’intervento dell’appellante (connotato da evidente dilavamento e scivolamento) e quello successivo alla sistemazione in corso, risulta evidente che l’intervento ha avuto una finalità di consolidamento, tra l’altro cercando di ripristinare l’antica sistemazione a terrazzamento della zona.
Da tanto consegue l’opportunità di addivenire ad una soluzione la quale, ove risultino soddisfatti i requisiti previsti dall’articolo 16 del PAI e dal Codice del Paesaggio, consenta, evidentemente in via di sanatoria, la conservazione delle opere effettuate.
Invero, le stesse – ripetesi, ove satisfattive dei predetti requisiti sostanziali – risultano utili al perseguimento dell’interesse pubblico e ad un equo contemperamento di quest’ultimo con quello del privato.
E’ evidente, che, ai sensi dell’articolo 5 del dpr n. 380/2001, l’acquisizione degli atti di assenso e dei nulla osta necessari compete allo sportello unico per l’edilizia del Comune (salva la facoltà del privato di acquisirli egli stesso direttamente), ma è altresì indubitabile che tale obbligo di acquisizione non può prescindere dalla presentazione, da parte del privato, di una ipotesi progettuale che sia pertinente alla richiesta, completa e idonea allo scopo.
Con l’ultimo motivo di appello l’architetto Sa. censura la sentenza di primo grado nella parte in cui essa non ha utilizzato le risultanze del giudicato penale (in particolare i fatti in tale sede accertati e relativi alla esatta natura e consistenza delle opere eseguite).
Assume, invero, che le prove raccolte nel processo penale costituiscono elementi idonei a confutare le statuizioni del giudice di primo grado, in quanto dimostrano che i lavori eseguiti non hanno affatto provocato l’incremento del rischio sismico ed attestano la riconducibilità dell’intervento tra quelli non soggetti ad autorizzazione paesaggistica.
Ritiene la Sezione che il motivo di appello non sia meritevole di favorevole considerazione.
Invero, il giudicato penale cui il ricorrente opera riferimento è successivo alla instaurazione del giudizio di primo grado e in quest’ultimo non vi è cenno alcuno ad una intervenuta pronuncia assolutoria in tale sede dell’architetto Sa..
Il Tribunale ha esaminato la questione solo a seguito della produzione, in corso di causa (v. deposito del 12-1-2015) della sentenza assolutoria del Tribunale di (omissis) n. 458/2014.
Peraltro, ha in proposito fatto corretta applicazione dei principi operanti in materia nei rapporti tra giudicato penale e processo amministrativo, chiarendo che “l’art. 654 c.p.p. va dunque interpretato nel senso che la sentenza penale, che abbia accertato la sussistenza di fatti materiali, ha autorità di cosa giudicata nel giudizio amministrativo qualora l’Amministrazione in esso intimata si sia costituita parte civile nel processo penale e, in quella sede, abbia potuto pertanto formulare le proprie difese. Se invece (come è avvenuto nel caso di specie) l’Amministrazione non si è costituita parte civile, i suoi poteri istituzionali non possono risultare incisi da valutazioni o accertamenti posti in essere dal giudice penale in un processo al quale essa è rimasta comunque estranea”.
Né questo giudice di appello ritiene di dovere tenere conto dei fatti emersi nel sopra indicato giudizio penale, atteso che: nel caso in esame si controverte della legittimità di un provvedimento amministrativo emesso in precedenza; che, come sopra visto, l’operatività della previsione di cui all’articolo 16 delle NTA del PAI richiedeva un accertamento da parte dell’autorità amministrativa competente e che questo costituiva presupposto indispensabile per la verifica della necessità di una autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’articolo 149 del Codice del Paesaggio; gli accertamenti favorevoli all’imputato in quella sede effettuati non risultano posti in essere all’esito di dichiarazioni di autorità amministrative titolari delle specifiche competenze in materia.
In conclusione, dunque, l’appello deve essere rigettato, con la conferma della gravata sentenza.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
La particolarità della controversia, come connotata dalle opere oggetto del provvedimento amministrativo impugnato, costituiscono motivo per l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta)
definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 novembre 2016 con l’intervento dei magistrati:
Roberto Giovagnoli – Presidente FF
Bernhard Lageder – Consigliere
Dante D’Alessio – Consigliere
Marco Buricelli – Consigliere
Francesco Mele – Consigliere,
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