Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione VI

sentenza 22 marzo 2016, n. 1164

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Sesta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8995 del 2015, proposto da:

Consiglio Nazionale Forense, in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli avvocati Ca. Al. ed altri, con domicilio eletto presso lo studio legale dell’avvocato Sa. in Roma, viale (…);

contro

Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata presso gli uffici di quest’ultima in Roma, via (…);

nei confronti di

Ne. S.r.l., Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense;

sul ricorso numero di registro generale 9160 del 2015, proposto da:

Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata presso gli uffici di quest’ultim in Roma, via (…);

contro

Consiglio Nazionale Forense, in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Sa. ed altri, con domicilio eletto presso lo studio legale dell’avvocato Ma. Sa. in Roma, viale (…);

nei confronti di

Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense;

per la riforma

quanto ad entrambi i ricorsi

sentenza 1 luglio 2015, n. 8778 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Roma, Sezione I.

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

visti gli atti di costituzione;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell’udienza pubblica del giorno 28 gennaio 2016 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti l’avvocato Sa. e l’avvocato dello Stato Fi..

FATTO e DIRITTO

1. – L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora innanzi anche AGCM), con provvedimento 22 ottobre 2014, ha inflitto al Consiglio nazionale forense (d’ora innanzi anche CNF) la sanzione di € 912.536,40 per asserita violazione dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), consistente in un’intesa restrittiva della concorrenza dovuta all’adozione di due decisioni volte a limitare l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato, invitando il CNF anche a porre termine all’infrazione dandone adeguata comunicazione agli iscritti, ad astenersi in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quello oggetto dell’infrazione accertata e a comunicare, entro il 28 febbraio 2015, l’adozione delle misure richieste.

In particolare, le due decisioni contestate hanno riguardato: i) il parere 11 luglio 2012, n. 48 del 2012, con il quale, secondo l’AGCM, il CNF, rispondendo ad una richiesta del Consiglio dell’Ordine di Verbania, avrebbe limitato l’impiego di un canale di diffusione delle informazioni (“Amica Card”); ii) la circolare 4 settembre 2006, n. 22-C/2006, con la quale, secondo l’AGCM, sarebbe stata reintrodotta la vincolatività dei minimi tariffari.

2.- Il CNF ha impugnato tale provvedimento innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio che, con sentenza 1° luglio 2015, n. 8778, ha parzialmente accolto il ricorso e ha annullato l’atto impugnato nella sola parte in cui ha qualificato come illecita l’adozione della circolare n. 22-C/2006, con conseguente obbligo dell’AGCM di rideterminare la sanzione.

3.- La sentenza del Tribunale amministrativo è stato oggetto di impugnazione sia da parte del CNF sia da parte dell’AGC.

4.- La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 28 gennaio 2016.

5.- Gli appelli, stante la loro connessione soggettiva e, parzialmente, oggettiva, devono essere riuniti per essere decisi con un’unica decisione.

6.- L’appello proposto dal CNF non è fondato.

6.1.- Con i primi tre motivi l’appellante deduce che il CNF è un ente pubblico non economico che, in base alla normativa che lo disciplina, svolgerebbe funzioni amministrative e, in alcuni casi, giurisdizionali. Non potrebbe, pertanto, essere qualificato come “associazione di imprese”. Ne conseguirebbe che l’AGCM avrebbe dovuto agire nel rispetto delle modalità procedimentali previste dall’art. 21-bis della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato).

I motivi non sono fondati.

La questione, posta con le suddette censure, impone di accertare se l’AGCM avrebbe dovuto agire in applicazione degli articoli 101, primo par., TFUE ovvero dell’art. 21-bis della legge n. 287 del 1990.

La prima disposizione prevede che “sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno” (in senso analogo art. 2 della legge n. 287 del 1990).

Presupposti, soggettivo e oggettivo, per l’applicazione di tale norma sono che si sia in presenza di una “impresa” o di una “associazioni di imprese” e che vengano poste in essere attività economiche idonee a pregiudicare la libera concorrenza. In questi casi, l’AGCM adotta un provvedimento sanzionatorio impugnabile innanzi al giudice amministrativo.

La seconda disposizione prevede che l’Autorità: i) “è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato” (primo comma); ii) “se ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate”, con la conseguenza che “se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l’Autorità può presentare, tramite l’Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni” (secondo comma).

Presupposti, soggettivo e oggettivo, per l’applicazione di tale norma sono che vi sia una “amministrazione pubblica” e che questa adotti un “atto amministrativo”. In questa casi, l’AGCM è titolare di una legittimazione straordinaria ad impugnare tale atto a tutela dell’interesse diffuso della concorrenza innanzi al giudice amministrativo, nel rispetto delle modalità prefigurate dalla norma stessa.

Nel caso in esame, occorre, pertanto, accertare se il Consiglio nazionale forense sia una “amministrazione pubblica” che ha adottato un “atto amministrativo” lesivo della concorrenza ovvero un’“associazione di imprese” che ha adottato una “decisione” lesiva della concorrenza.

La giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare, con orientamento che la Sezione condivide anche in ragione della sua coerenza con la nozione elastica di soggetto pubblico fissata dal diritto comunitario in attuazione del principio dell’effetto utile, che: “l’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico”, con la conseguenza che “si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica”. Questa nozione “funzionale” di ente pubblico, si è sottolineato, “ci insegna, infatti, che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa”. La conseguenza che ne deriva è “che è del tutto normale, per così dire “fisiologico”, che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all’applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali” (in questo senso, Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2015, n. 2660).

Il Consiglio nazionale forense è previsto e disciplinato dagli articoli 52 e seguenti del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, ed è stato oggetto di una nuova regolamentazione ad opera della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense).

L’analisi complessiva della predetta disciplina e del contesto normativo in cui si inserisce induce a ritenere che il CNF, a seconda degli ambiti in cui interviene, può svolgere “attività amministrativa”, “giurisdizionale” e “di impresa”. A tale ultimo proposito, la giurisprudenza europea e nazionale ha affermato che la nozione europea di impresa include anche l’esercente di una professione intellettuale, con la conseguenza che il relativo Ordine professionale può essere qualificato alla stregua di un’associazione di imprese ai sensi dell’art. 101 TFUE. In particolare, si è rilevato che un’organizzazione professionale, quando adotta un atto come il codice deontologico, “non esercita né una funzione sociale fondata sul principio di solidarietà né prerogative tipiche dei pubblici poteri”. Essa “appare come l’organo di regolamentazione di una professione il cui esercizio costituisce, peraltro, un’attività economica” (Corte di giustizia, sentenza 18 luglio 2013, C-136/12; Cons. Stato, sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238, che ha esaminato una questione analoga a quella in esame).

Nella fattispecie concreta il CNF ha adottato atti che, per il loro contenuto, devono essere qualificati come “decisioni” di imprese in quanto idonee ad incidere sul comportamento economico dell’attività professionale svolta dagli avvocati. La negazione di un diritto alla diffusione di una peculiare forma di pubblicità rappresenta, infatti, una condotta in grado di limitare l’ambito di mercato da parte di chi esercita la professione di avvocato.

Ne consegue che, in applicazione dell’orientamento giurisprudenziale sopra riportato, deve ritenre che, nella specie, la peculiare attività svolta dal CNF lo qualifica non come ente pubblico nell’esercizio di funzioni amministrative o sostanzialmente giurisdizionali ma come “associazione di imprese”.

L’AGCM ha, pertanto, correttamente applicato il procedimento contemplato dagli artt. 101 e ss. TFUE e 2 della legge n. 287 del 1990 e non quello previsto dall’art. 21-bis della legge n. 287 del 1990.

6.2.- Con un quarto motivo, si assume l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non ha ravvisato la violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dell’art. 47 della Carta europea dei diritti dell’uomo. In particolare, si assume che il d.p.r. 30 aprile 1998 (Regolamento in materia di procedure istruttorie di competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato) non garantirebbe il principio del giusto procedimento e quello di imparzialità dell’organo che infligge le sanzioni, che vorrebbe che venisse assicurata la separazione tra funzione istruttoria/requirente e funzione decisoria.

Il motivo non è fondato.

L’art. 6 CEDU prevede che, per aversi equo processo, “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un Tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge”.

Questa disposizione si applica anche in presenza di sanzioni amministrative di natura afflittiva, alle quali deve essere riconosciuta natura sostanzialmente penale. La Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione. In particolare, sono stati individuati tre criteri, costituiti: i) dalla qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, con la puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si accerta la valenza “intrinsecamente penale” della misura; ii) dalla natura dell’illecito, desunta dall’ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo perseguito; iii) dal grado di severità della sanzione (sentenze 4 marzo 2014, r. n. 18640/10, resa nella causa Grande Stevens e altri c. Italia; 10 febbraio 2009, ric. n. 1439/03, resa nella casua Zolotoukhine c. Russia; si v. anche Corte di giustizia UE, grande sezione, 5 giugno 2012, n. 489, nella causa C-489/10), che è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non di quella concretamente applicata

Questa Sezione ha giù avuto modo di affermare come, in applicazione dei principi posti dalla Corte EDU, all’interno della più ampia categoria di “accusa penale” occorre distinguere tra un diritto penale in senso stretto (“hard core of criminal law”) e casi non strettamente appartenenti alle categorie tradizionali del diritto penale.

Al di fuori del c.d. hard core, l’art. 6, par. 1, della Convenzione è rispettato in presenza di “sanzioni penali” imposte in prima istanza da un organo amministrativo – anche a conclusione di una procedura priva di carattere quasi giudiziale o quasi-judicial, vale a dire che non offra garanzie procedurali piene di effettività del contraddittorio – purché sia assicurata una possibilità di ricorso dinnanzi ad un giudice munito di poteri di “piena giurisdizione”, con la conseguenza che le garanzie previste dalla disposizione in questione possano attuarsi compiutamente in sede giurisdizionale (Cons. Stato, Sez. VI, 26 marzo 2015 n. 1595 e n. 1596).

Nella fattispecie in esame, la sanzione dell’AGCM, avuto riguardo ai criteri di identificazione sopra esposti e, in particolare, al grado di severità della stessa, ha natura afflittiva e “sostanzialmente” penale (cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza Menarini, 27 settembre 2011, n. 43509/08).

Nondimeno, a prescindere dall’effettiva difformità del regolamento di procedura rispetto al parametro convenzionale, le garanzie imposte dall’art. 6 sono rispettate nel presente giudizio di “piena giurisdizione”.

A ciò si aggiunga che l’appellante comunque non ha indicato in che modo, in concreto, l’asserito “scarto” tra garanzie assicurate dalle norme internazionali e quelle previste dalla norma nazionale regolamentare abbia pregiudicato il proprio diritto di difesa. In particolare, per quanto attiene alla dedotta mancata distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie deve rilevarsi, come correttamente evidenziato dal primo giudice, che inizialmente erano state contestate al CNF due distinte intese ma poi il Collegio ha ritenuto esistente una sola intesa.

6.3.- Con un quinto motivo si deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non ha ritenuto che il sistema di pubblicità e di offerta delle prestazioni degli avvocati affiliati al “circuito Amica Card” non sia illegittimo. In particolare, l’appellante ha rilevato come: i) si tratterebbe di una pubblicità in contrasto con i requisiti di legge, in quanto “non diretta a fornire informazioni sulla struttura, specializzazione e capacità dello studio legale”, essendo basata “su di un mero “sconto” di cui rimangono ignote le basi di calcolo e il tipo di prestazioni cui si fa riferimento”; ii) “il sistema degli “sconti” riservati soltanto agli utenti iscritti ad Amica Card, a fronte del carattere oneroso sia della iscrizione dei clienti sia della partecipazione degli avvocati affiliati al “circuito” dà luogo ad un sistema di intermediazione nella ricerca della clientela (procacciamento), come tale anch’esso vietato dal codice deontologico, che per legge spetta all’ordine forense far rispettare”.

Il motivo non è fondato.

L’art. 3, comma 5, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo) prevede che “gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio dell’attività risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza, alla presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti nell’ambito della più ampia informazione relativamente ai servizi offerti”, aggiungendosi che occorre, tra l’altro, assicurare che “la pubblicità informativa, con ogni mezzo, avente ad oggetto l’attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni” sia libera e che le informazioni sia trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, né ingannevoli o denigratorie.

Nel caso in esame l’attività oggetto di contestazione da parte del CNF si risolve in una modalità di pubblicità protetta dalla norma riportata e non in contrasto con i limiti da essa posta. Il sistema “Amica Card”, come correttamente rilevato dal primo giudice, è finalizzato a mettere a disposizione dell’avvocato, in cambio di un corrispettivo, un spazio on line nel quale questi può presentare l’attività professionale svolta e proporre uno sconto al cliente che decide di avvalersi dei suoi servizi. La circostanza che l’accesso sia assicurato a tutti gli utenti ovvero, come ritenuto dall’appellante, solo agli affiliati al circuito, non è di per sé, in assenza della dimostrazione di elementi qualificanti incompatibili con la deontologia e con il decoro della professione, idonea ad assegnare valenza illecita all’operazione. Allo stesso modo non rilevante, nella prospettiva in esame, è il rilievo difensivo relativo alla mancata indicazione dello sconto e dell’attività svolta. Né risulta che “Amica Card” svolga un’attività di intermediazione dai connotati diversi da quelli sopra esposti.

In definitiva, si è in presenza di una nuova modalità di pubblicità dell’attività professionale che, per quanto si discosti, in alcune sue componenti, dai modelli tradizionali, presenta i caratteri di una attività lecita espressione dei principi di libera concorrenza.

6.4.- Con un sesto motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha qualificato come intesa “per effetto” e non “per oggetto” quella in esame. In particolare, si assume che il comportamento contestato, proprio per le finalità perseguite dal CNF, non potesse essere qualificato come intesa “per oggetto”. Ne conseguirebbe l’illegittimità del provvedimento impugnato per difetto di istruttoria per non avere l’Autorità accertato la concreta lesione della concorrenza derivante dall’adozione del parere. L’appellante, inoltre, rileva che l’Autorità ha comunque svolto tale accertamento dimostrando essa stessa, con il suo comportamento, di qualificare l’intesa “per effetto”, con conseguente impossibilità di potere qualificare l’accordo “per oggetto”. Si contesta, infine, l’accertamento concreto che secondo l’Autorità avrebbe comportato una contrazione dei iscritti al circuito mentre secondo l’appellante gli iscritti sarebbero passati da 4.000 a 4.607.

Il motivo non è fondato.

L’art. 101, primo par., TFU, sopra riportato, dispone che le intese possono essere “per oggetto o per effetto”.

La Corte di giustizia ha affermato che le intese “per oggetto” si caratterizzano per il fatto che “talune forme di coordinamento tra imprese possono essere considerate, per loro stessa natura, dannose per il buon funzionamento del normale gioco della concorrenza”. Si è, inoltre, chiarito che per accertare se si è in presenza di una intesa “per oggetto” occorre avere riguardo “al tenore delle disposizioni dell’intesa stessa, agli obiettivi che si intende raggiungere, al contesto economico e giuridico nel quale l’intesa stessa si colloca”. Nella valutazione di tale contesto, “occorre prendere in considerazione anche la natura dei beni o dei servizi coinvolti e le condizioni reali del funzionamento e della struttura del mercato o dei mercati in questione” (sentenza 11 settembre 2014, in causa C-67/13 P).

Le intese “per effetto” ricorrono quando non sussistono i presupposti per configurare la sussistenza di una intesa per “oggetto”, con la conseguenza che occorre esaminare gli effetti e “dovranno sussistere tutti gli elementi comprovanti che il gioco della concorrenza è stato, di fatto, impedito, ristretto, o falsato in modo significativo”.

Nella fattispecie in esame, l’intesa contestata è “per oggetto”. Il CNF ha, infatti, ritenuto non consentita una modalità di pubblicità che è finalizzata a tutelare la concorrenza tra professionisti. L’“oggetto” dell’intesa è stato, pertanto, quello di rendere più difficoltoso l’accesso al mercato delle professioni di avvocato. Non occorreva, conseguentemente, che l’Autorità svolgesse accertamenti concreti volti a stabilire se, in effetti, il parere avesse inciso sulla libera concorrenza. Né potrebbe ritenersi che, avendo l’AGCM svolto questa valutazione, ritenuta erronea, non si potrebbe più qualificare l’intesa come “per oggetto”. Il comportamento dell’Autorità non può, infatti, incidere su una qualificazione giuridica che spetta all’autorità giudiziaria.

La mancanza di dubbi in ordine alla portata dell’art. 101 TFUE rende non necessario disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea richiesto dall’appellante. Anche perché la questione posta ha richiesto una valutazione esclusivamente calibrata sulla specificità dei fatti oggetto della presente controversia.

6.5.- Con l’ultimo motivo, si è dedotta l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto corretta la misura della sanzione inflitta. In particolare, si è affermato che: i) per tutte le ragioni esposte, la violazione non può ritenersi grave; ii) non possono essere considerati i contributi alla stessa stregua del fatturato, con la conseguenza l’Autorità avrebbe dovuto adottare una diffida o una sanzione “simbolica”; iii) la percentuale del 5% sarebbe eccessiva.

Il motivo non è fondato.

L’art. 15 della legge n. 287 del 1990 prevede che l’Autorità “nei casi di infrazioni gravi, tenuto conto della gravità e della durata dell’infrazione, dispone inoltre l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al dieci per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida, determinando i termini entro i quali l’impresa deve procedere al pagamento della sanzione”.

Questa disposizione è stata rispettata.

L’illecito ha natura grave per le ragioni correttamente evidenziate nel provvedimento impugnato: estensione dell’illecito sull’intero territorio nazionale; promanazione dell’intesa dall’organo esponenziale dell’avvocatura italiana; contesto normativo di liberalizzazione delle professioni nel quale si colloca.

La parificazione dei contributi al fatturato è legittima. Una volta ritenuto che il Consiglio nazionale forense debba possa essere considerato anche come “associazione di imprese” non può che ritenersi che i contributi associativi siano il corrispondente del fatturato. Diversamente argomentando si verrebbe a configurare una “associazione di imprese” diversa dalle altre per la quale non potrebbe trovare applicazione il sistema delle sanzioni pecuniarie in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza europea che, a tutela della concorrenza commerciale, come già rilevato, include anche gli Ordini professionali, in presenza di determinate circostanze, nel campo di applicazione dell’art. 101 TFUE.

La percentuale indicata risponde a criteri di proporzionalità e ragionevolezza. Si tenga conto che il calcolo effettuato aveva condotto l’Autorità a disporre una sanzione ancora più elevata che poi è stata ridotta in applicazione del limite del dieci per cento del fatturato previsto dal citato art. 15.

7.- L’appello dell’AGCM è fondato.

L’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che non costituisce intesa anticorrenziale l’avere ripubblicato la circolare n. 22-C/2006, nel 2008, sul sito del CNF e successivamente nella banca dati gestita dall’Ipsoa. In particolare, il primo giudice è pervenuto a tale conclusione per le seguenti ragioni: i) tale circolare è stata espressamente superata dalla circolare n. 23 del 2007; ii) tale ripubblicazione “non può avere avuto lo scopo che l’AGCM li attribuisce, atteso che in alcun caso esso avrebbe potuto essere raggiunto proprio per il comportamento tenuto, nel 2007, dal CFF”. L’appellante, AGCM, ha messo in rilievo, alla luce della complessiva ricostruzione dei fatti contenuta nel provvedimento impugnato, come non possa avere rilevanza: i) il profilo soggettivo; ii) la circostanza dell’avvenuta abrogazione in ragione della preminenza che deve essere assegnato al comportamento.

Le censure sono fondate.

L’art. 2, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonchè interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale) ha disposto che: “In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonchè al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato (…) sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali”, tra l’altro, “l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti”. Il successivo comma 3 ha disposto che: “Le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche con l’adozione di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali, entro il 1° gennaio 2007”.

La successiva evoluzione legislativa ha confermato e generalizzato anche per altre professioni le tariffe professionali: art. 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività) convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27; art. 13 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento forense).

La circolare n. 22 del 2006 contiene “osservazioni sulla interpretazione e applicazione” del predetto decreto n. 223 del 2006 e, in una sua parte, dispone che “il fatto che le tariffe minime non sia più “obbligatorie” non esclude che (…) le parti contraenti possano concludere un accordo con riferimento alle tariffe”. Subito dopo si aggiunge che “tuttavia nel caso in cui l’avvocato concluda patti che prevedano un compenso inferiore al minimo tariffario, pur essere il patto legittimo civilisticamente, esso può risultare in contrasto con gli articoli 5 e 43, comma 2, del codice deontologico, in quanto il compenso irrisorio, non adeguato, al di sotto della soglia ritenuta minima, lede la dignità dell’avvocato e si discosta dall’art. 36 Cost.”.

Questa circolare integra gli estremi di una intesa “per oggetto” avendo un chiarito contenuto anticoncorrenziale.

Chiarito ciò, occorre analizzare il comportamento successivo tenuto dal CNF per valutare se sussistono gli estremi dell’illecito contestato.

Si riportano i fatti rilevanti posti in essere:

– a seguito di accertamenti dell’AGCM che hanno messo in rilievo la contrarietà della circolare alle nuove disposizione, il CNF ha adottato una nuova circolare n. 23 del 2007 che ha “superato” la precedente;

– da accertamenti svolti nel giugno del 2012 dall’Autorità è risultata la presenza sul sito istituzionale del CNF di un documento denominato “Nuovo tariffario forense” (d.m. n. 127 del 2004) unitamente alla circolare n. 22 del 2006;

– a seguito di questa ultima segnalazione il CNF ha comunicato all’Autorità di avere provveduto allo spostamento della circolare 2006 nella sezione dedicata alla “Storia dell’Avvocatura”;

– a seguito di accertamenti disposti in data 20 maggio e 15 luglio 2013, la circolare e il d.m. n. 127 del 2004 (unitamente al successivo decreto n. 140 del 2012) risultavano ancora presenti nella banca dati del CNF, essendo inserita nella sezione denominata “Tariffa/Tariffe professionali”;

– a seguito delle ultime rilevazioni effettuate in data 4 novembre 2013 e 7 luglio 2014 la circolare. non risultava più presente.

Da quanto esposto risulta che il CNF, nonostante la palese contrarietà della circolare alle nuove regole di tutela della concorrenza, ha continuato ad inserire detta circolare sul proprio sito e poi nella banca dati.

La valutazione complessiva del comportamento tenuto dall’appellante induce, pertanto, a ritenere che esso integri gli estremi di una intesa “per oggetto”.

In questo contesto, non assume rilevanza:

– l’intervenuta abrogazione della circolare, in quanto ciò che rileva, ai fini della configurazione dell’illecitoantitrust, è il comportamento tenuto dal soggetto, che, al di là della formale vigenza dell’atto, non decisiva ai fini comunitari, ha consentito alla circolare solo apparentemente ritirata di risultare sostanzialmente vigente in modo da indirizzare in chiave potenzialmente anticoncorrenziale la condotta degli operatori;

– l’asserita mancanza dell’elemento soggettivo, in quanto “l’intenzione delle parti non costituisce un elemento necessario per determinare la natura restrittiva di un accordo tra imprese (…)” (sentenza n. 67 del 2014 della Corte di Giustizia, cit.);

– la circostanza che la banca dati fosse gestita dall’Iposa, in quanto in capo al CNF è comunque ravvisabile un obbligo di controllo dei contenuti da parte del soggetto responsabile, nella specie inadempiuto per un significativo lasso di tempo.

La condotta illecita protratta nel tempo indicato, e non limitata a soli “sei mesi di vita” (pag. 7 memoria difensiva CNF), conduce la Sezione a ritenere legittimo, anche in relazione a questo aspetto, l’atto impugnato.

8.- La complessità degli accertamenti e la novità di alcune questioni trattate giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando, riuniti i giudizi:

a) rigetta l’appello proposto dal Consiglio nazionale forense, con l’atto indicato in epigrafe;

b) accoglie l’appello proposto dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato;

c) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2016 con l’intervento dei magistrati:

Francesco Caringella – Presidente

Giulio Castriota Scanderbeg – Consigliere

Dante D’Alessio – Consigliere

Andrea Pannone – Consigliere

Vincenzo Lopilato – Consigliere, Estensore

Depositata in Segreteria il 22 marzo 2016.

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