Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 10 aprile 2018, n. 2175.
In ordine alla revoca dell’Autorizzazione amministrativa alberghiera; in mancanza del requisito fondamentale della gestione unitaria della struttura e dell’apertura al pubblico, l’utilizzo del complesso quale residenza secondaria da parte dei singoli proprietari delle unità immobiliari integra quindi un illegittimo mutamento di destinazione dell’intero immobile, che configura un’ipotesi di variazione essenziale, ai sensi dell’art. 78 l.r. n. 11 del 1998.
Sentenza 10 aprile 2018, n. 2175
Data udienza 22 marzo 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 8167 del 2008, proposto da:
Rt. Ve. Se. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Gi. Gi. Bo., con domicilio eletto presso lo studio legale dell’avvocato Ga. Di Pa. in Roma, viale (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ga. Pa. e Gi. Sa., con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via (…) Sc. (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. VALLE D’AOSTA – AOSTA n. 00097/2007, resa tra le parti, concernente revoca di autorizzazione amministrativa alberghiera
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 22 marzo 2018 il Cons. Valerio Perotti ed udito per le parti l’avvocato Ga. Pa.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Risulta dagli atti che in data 1° settembre 2003 l’amministrazione comunale di (omissis), con nota prot. n. 7442/11, comunicava alla R.T.A. Ve. Se. s.r.l. – società che gestisce come residenza turistico-alberghiera (R.T.A.), tra gli altri, il complesso denominato “Ét. De. Ne.”, di proprietà di terze parti – l’avvio di un procedimento finalizzato, ai sensi dell’art. 9 della l.r. 2 agosto 1999, n. 20, alla revoca dell’autorizzazione amministrativa n. 136 rilasciata in favore della predetta società, in ragione del riscontrato mutamento di destinazione del R.T.A. “Ét. De. Ne.”, non più qualificabile come azienda alberghiera “causa l’assoluta mancanza dei più elementari requisiti che ne sanciscano la natura di pubblico esercizio per assumere, al contrario, la veste di edificio residenziale privato”.
A seguito di una serie di incontri, sollecitati dalla predetta R.T.A. Ve. Se., in data 13 settembre 2004 il Sindaco di (omissis) assegnava all’interessata, con decreto n. 5, il termine di sessanta giorni per il ripristino della destinazione alberghiera per l’esercizio di residenza turistico-alberghiera, pena la revoca dell’autorizzazione amministrativa.
Il decreto precisava che tale termine doveva intendersi anche quale diffida edilizia, ai sensi dell’art. 77, comma 1, della l.r. 6 aprile 1998, n. 11, per gli effetti di cui all’art. 78, comma 1, lett. e), della medesima legge regionale.
Avverso tale provvedimento ed alla precedente comunicazione di avvio del procedimento il R.T.A. Ve. Se. s.r.l. proponeva ricorso al Tribunale amministrativo della Valle d’Aosta, deducendo una violazione dell’art. 9 l.r. 2 agosto 1999, n. 20 e dell’art. 9 l. 29 marzo 2001, n. 135, nonché eccesso di potere per travisamento, erronea valutazione dei fatti ed illogicità.
Costituitosi in giudizio, il Comune di (omissis) ne eccepiva l’infondatezza, chiedendone conseguentemente il rigetto.
Con sentenza 12 luglio 2007, n. 97, il Tribunale amministrativo adito respingeva il ricorso, sul presupposto che l’atto impugnato avesse natura provvedimentale (dunque, autonomamente impugnabile) “solo con riguardo alla parte che costituisce diffida ai sensi della disciplina urbanistico-edilizia”. Rilevava, nel merito, come si fosse effettivamente verificato un mutamento funzionale con riguardo all’intero immobile, atteso che l’originaria destinazione d’uso – da ricondursi nell’ambito della categoria “usi ed attività turistiche e ricettive” (di cui all’art. 73, lettera g, della l.r. n. 11 del 1978) – fosse venuta meno, essendo il complesso utilizzato quale residenza secondaria da parte dei singoli proprietari delle unità immobiliari.
Avverso tale decisione il R.T.A. Ve. Se. s.r.l. interponeva appello, deducendo i seguenti profili di doglianza:
Mancata valutazione dei presupposti di fatto e omessa motivazione. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 74, comma 1, della L.R. n. 11/98;
Errata valutazione dei presupposti di fatto, motivazione insufficiente e decisione chiaramente contraddittoria. Violazione e/o errata applicazione degli artt. 77 e 78 della L.R. n. 11/98;
Il Comune di (omissis) si costituiva in giudizio, chiedendo che l’appello fosse respinto in quanto infondato. Quindi con successiva memoria in data 25 gennaio 2018, ribadiva ed ulteriormente articolava le proprie difese.
All’udienza del 22 marzo 2018, dopo la rituale discussione, la causa passava quindi in decisione.
DIRITTO
Con il primo motivo di appello viene dedotto che la sentenza impugnata non avrebbe considerato un elemento decisivo dell’intera vertenza, ossia la presunta irrilevanza giuridica del mutamento di destinazione dell’immobile.
Invero, il non contestato “uso delle singole unità immobiliari come residenze secondarie”, ad avviso dell’appellante, rientrerebbe pur sempre nella categoria di destinazione “usi ed attività turistiche e ricettive” di cui all’art. 73, lett. g) della l.r. n. 11 del 1998 e non invece – come argomentato dall’amministrazione – nella diversa categoria della “abitazione temporanea” di cui alla lett. d-bis) del medesimo art. 73.
Ciò in quanto “ai sensi dell’art. 74 della L.R. n. 11/98, si ha mutamento dell’uso in atto, anche in assenza di opere edilizie, solo ed esclusivamente quando vi è passaggio da una categoria all’altra di quelle elencate nel precedente art. 73, tra cui, vale la pena ricordare, non compare quella di residenza secondaria. Senza questo passaggio, dunque, il cambio d’uso non sarebbe giuridicamente rilevante”.
Il primo giudice avrebbe quindi dovuto – ad avviso dell’appellante – verificare che l’utilizzo dell’immobile quale residenza secondaria avesse effettivamente comportato (come ritenuto dal Comune) un passaggio dalla categoria “usi ed attività turistiche e ricettive” a quella della “abitazione temporanea”, verifica però non effettuata.
Di qui l’erroneità della sentenza impugnata, per difetto di istruttoria ed insufficiente motivazione.
L’argomento non è fondato.
La sentenza impugnata, sul punto, richiamava espressamente il contenuto della relazione della Polizia municipale incaricata del sopralluogo, che dichiarava (con attestazione avente l’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 Cod. civ.) di non aver rilevato “nessuna insegna identificativa della struttura alberghiera […] e nessun altro segno distintivo né un eventuale cartello informativo su come contattare gli addetti al ricevimento o un servizio di prenotazione, […] neanche un campanello con la dicitura che si riferisse alla struttura alberghiera R.T.A. Et. de. Ne.”; a ciò aggiungasi “che lo stabile si presenta completamente chiuso” e che “l’ingresso è dotato di serratura elettronica con tastiera a codice segreto”, segnalandosi altresì la presenza di “una cassetta della posta a fianco dell’ingresso senza nessuna dicitura”.
Tali circostanze di fatto integravano indubbiamente degli elementi indiziari gravi, precisi e concordanti nel senso interpretato dall’amministrazione comunale, a tal punto sorgendo semmai a carico della parte privata – in ragione del principio di vicinanza della prova – l’onere di dimostrare quanto ancor oggi semplicemente affermato dall’appellante, ossia che nel caso di specie, nonostante le surriferite circostanze di fatto, il passaggio di categoria di cui si è detto.
Del resto, l’idoneità di un mutamento d’uso anche solo funzionale (ossia, l’utilizzo dell’immobile per finalità diverse da quelle inizialmente concesse) a comportare un mutamento di destinazione è desumibile dal tenore dell’art. 78 della l.r. n. 11 del 1998, a mente del quale “sono trasformazioni eseguite in totale difformità dalla concessione [che, ai sensi del precedente art. 74, comma 2, determinano un mutamento delle destinazioni urbanistiche, tra cui appunto quelle di cui alle lettere g e d-bis del medesimo art. 74; ndr] quelle che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche […] di utilizzazione dell’organismo oggetto della concessione stessa”.
Del resto, l’argomento secondo cui l’espressione “residenza secondaria” riportata dall’atto impugnato non sarebbe riconducibile a quella di “abitazione temporanea”, di cui alla lettera d-bis) dell’art. 74 cit., non appare conferente al fine di ricondurre l’utilizzo delle varie unità immobiliari come “seconda casa” nella categoria “usi ed attività turistiche e ricettive”: invero, la categoria d-bis) “destinazione ad abitazione temporanea” rappresenta una sottodivisione della categoria d) “destinazione ad abitazione permanente o principale”, all’interno cioè di un contesto che nulla ha a che fare con le finalità di attività “turistico-ricettiva” (recte, di “attività diretta alla produzione di servizi per l’ospitalità”, secondo la definizione datane dall’art. 1 della l.r. 6 luglio 1984, n. 33, recante “Disciplina della classificazione delle aziende alberghiere”).
All’esito degli accertamenti condotti dall’amministrazione, risultava che effettivamente il compendio immobiliare di cui trattasi non era più aperto al pubblico, venendo così meno una delle caratteristiche fondamentali e qualificanti della categoria di originaria attribuzione: al riguardo, appaiono quindi pertinenti e persuasivi i rilievi dell’amministrazione appellata, per cui il frazionamento delle residenze turistico-alberghiere e l’alienazione delle singole unità immobiliari è consentito esclusivamente ai sensi e nei limiti dell’art. 7-bis della l.r. n. 33 del 1984, ossia “fatta salva la destinazione turistico ricettiva dell’intera struttura per l’intero anno” ed a condizione che i proprietari utilizzino in via esclusiva le proprie singole unità abitative per non più di 1/12 del periodo di apertura effettivo dell’intera struttura.
Deve quindi concludersi che, in mancanza del requisito fondamentale della gestione unitaria della struttura e dell’apertura al pubblico, l’utilizzo del complesso quale residenza secondaria da parte dei singoli proprietari delle unità immobiliari integri quindi un illegittimo mutamento di destinazione dell’intero immobile, che configura un’ipotesi di variazione essenziale, ai sensi dell’art. 78 l.r. n. 11 del 1998.
Del resto, come correttamente evidenzia il primo giudice, ai sensi del suddetto art. 78 “sussiste variazione essenziale rispetto al progetto approvato quando si verifica […] il mutamento della destinazione d’uso in misura compresa tra il venticinque e il cinquanta per cento di quella indicata in progetto”, laddove la relazione di sopralluogo della Polizia municipale aveva accertato che la mancanza del presupposto dell’apertura al pubblico riguardava l’intero complesso immobiliare.
Con il secondo motivo di appello viene invece dedotto che, in assenza di specifica attività costruttiva, non verrebbe integrata alcuna modifica di destinazione d’uso, rilevante ai sensi dell’art. 78 l.r. n. 11del 1998.
Il rilievo non è fondato, trovando smentita – anche in relazione a quanto precedentemente detto – nell’art. 74, comma primo, della predetta legge regionale, secondo cui si ha mutamento della destinazione d’uso “quando l’immobile, o parte di esso, viene ad essere utilizzato, in modo non puramente occasionale e momentaneo, per lo svolgimento di attività appartenenti ad una categoria di destinazioni, fra quelle elencate all’art. 73, comma 2, diversa da quella in atto”, sussistendo “anche in assenza di opere edilizie ad esso funzionali” (comma 2).
Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va dunque respinto. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la socombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento, in favore del Comune di (omissis), delle spese di lite dell’attuale grado di giudizio, che liquida in euro 4.000,00 (quattromila/00) complessivi, oltre oneri di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 marzo 2018 con l’intervento dei magistrati:
Francesco Caringella – Presidente
Claudio Contessa – Consigliere
Fabio Franconiero – Consigliere
Valerio Perotti – Consigliere, Estensore
Federico Di Matteo – Consigliere
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