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2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con riferimento ai primi due motivi proposti (sub lett. a) e b) dell’esposizione in fatto).
2.1. L’art. 6 della direttiva 19 novembre 2008 n. 2008/98/CE, rubricato “cessazione della qualifica di rifiuto”, con particolare riguardo ai casi di cessazione non previsti dalla normativa UE, prevede (co. 4):
“Se non sono stati stabiliti criteri a livello comunitario in conformità della procedura di cui ai paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile. Essi notificano tali decisioni alla Commissione in conformità della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 giugno 1998 che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, ove quest’ultima lo imponga”.
La Direttiva prevede, dunque, che, nelle sole ipotesi in cui difettino indicazioni a livello comunitario, è possibile una valutazione “caso per caso” dello Stato membro, con notifica della decisione assunta alla Commissione.
A sua volta, l’art. 184-ter d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, per quel che interessa nella presente sede, prevede in particolare:
“1. Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici;
b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.
2. L’operazione di recupero può consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni. I criteri di cui al comma 1 sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400. I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto.
3. Nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui ai decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio in data 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269 e l’art. 9-bis, lett. a) e b), del decreto legge 6 novembre 2008 n. 172, convertito con modificazioni dalla legge 30 dicembre 2008, n. 210. La circolare del Ministero dell’ambiente 28 giugno 1999, prot. n. 3402/V/MIN si applica fino a sei mesi dall’entrata in vigore della presente disposizione”.
L’art. 184-ter innanzi riportato, nel dare attuazione a quanto previsto dalla direttiva n. 98 cit., prevede dunque – per ciò che concerne la possibile cessazione “caso per caso” della qualifica di rifiuto in assenza di criteri comunitari – sia una disciplina “a regime”, sia una disciplina “transitoria”:
– quanto alla prima, viene riservata allo Stato, e precisamente a regolamenti del Ministero dell’Ambiente, l’individuazione di “specifiche tipologie di rifiuto”, prevedendosi altresì “se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti” e considerando “i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto”;
– quanto alla seconda, viene riaffermata la vigenza di una pluralità di disposizioni (di rango diverso), nelle more dell’adozione dei regolamenti ministeriali.
2.2. Alla luce delle disposizioni innanzi riportate, può, dunque, affermarsi che se, in linea generale, la disciplina della cessazione della qualifica di “rifiuto” è riservata alla normativa comunitaria, nondimeno questa ha consentito che, in assenza di proprie previsioni, gli Stati membri possano valutare caso per caso tale possibile cessazione – si ripete, solo in assenza di indicazioni comunitarie e, dunque, non in contrasto con le stesse – dandone informazione alla Commissione.
Il destinatario del potere di determinare la cessazione della qualifica di rifiuto è, per la Direttiva, lo “Stato”, che assume anche obbligo di interlocuzione con la Commissione.
La stessa Direttiva UE, quindi, non riconosce il potere di valutazione “caso per caso” ad enti e/o organizzazioni interne allo Stato, ma solo allo Stato medesimo, posto che la predetta valutazione non può che intervenire, ragionevolmente, se non con riferimento all’intero territorio di uno Stato membro.
Ciò è quanto ha fatto il legislatore statale, attribuendo tale potere al Ministero dell’Ambiente, ed anzi fornendo una lettura del “caso per caso”, non già riferito al singolo materiale da esaminare ed (eventualmente) declassificare con specifico provvedimento amministrativo, bensì inteso come “tipologia” di materiale da esaminare e fare oggetto di più generale previsione regolamentare, a monte dell’esercizio della potestà provvedimentale autorizzatoria.
D’altra parte, la previsione della competenza statale in materia di declassificazione “caso per caso” del rifiuto appare del tutto coerente, oltre che con la citata Direttiva UE, anche con l’art. 117, comma secondo, lett. s) della Costituzione che, come è noto, attribuisce alla potestà legislativa esclusiva (e, dunque, anche alla potestà regolamentare statale), la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.
E’ del tutto evidente che, laddove si consentisse ad ogni singola Regione, di definire, in assenza di normativa UE, cosa è da intendersi o meno come rifiuto, ne risulterebbe vulnerata la ripartizione costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni.
2.3. Alla luce di quanto esposto, non può essere condivisa la sentenza impugnata laddove essa afferma che “la mancanza di regolamenti comunitari o di decreti ministeriali relativi alle procedure di recupero di determinati rifiuti, lungi dal precludere sic et simpliciter il potere dell’Autorità competente di valutare comunque, caso per caso, l’eventuale rilascio (nel rispetto delle quattro condizioni previste dall’art. 184-ter, co. 1, d.lgs. n. 152/2006) delle relative autorizzazioni, comporta al contrario il potere e il dovere appunto di procedere ad una analisi, ad una valutazione e ad una decisione casistica, rilasciando l’autorizzazione integrata ambientale qualora la sostanza che si ottiene dal trattamento e dal recupero del rifiuto soddisfi le quattro condizioni”.
Né può essere condiviso quanto sostenuto dalla società appellata, secondo la quale la Direttiva UE n. 98/2008, andrebbe interpretata nel senso di consentire “allo Stato membro, in tutte le sue articolazioni, incluse le Regioni (a ciò delegate dallo stesso Stato membro) e gli enti eventualmente delegati dalle stesse Regioni per le procedure di autorizzazione” di stabilire i criteri EoW (cioè i criteri per la cessazione della qualifica di rifiuto (memoria del 7 aprile 2017, pag. 13).
Ed infatti, la stessa “Guida” all’interpretazione della Direttiva – citata dalla appellata – prevede che “gli Stati membri possono decidere a livello nazionale se certi rifiuti possono cessare di essere rifiuti”, il che, lungi dall’intendersi come la possibilità di individuare qualsiasi Ente (anche non statale) come attributario della competenza, deve essere invece inteso – in modo più coerente e ragionevole – come un riferimento all’ambito di efficacia della declassificazione, la quale deve intervenire, appunto, a livello nazionale, cioè per tutto l’ambito territoriale dello Stato membro.
Fermo quanto ora affermato, occorre comunque osservare che, in ogni caso, la scelta fatta dal legislatore nazionale con l’art. 184-ter cit., in legittimo esercizio di potestà legislativa esclusiva, è stata quella di individuare nel regolamento ministeriale l’atto idoneo ad intervenire ai fini della declassificazione “caso per caso”, il che – ove anche si volesse sostenere una interpretazione diversa della Direttiva n. 98/2008 – rende superflua ogni ulteriore considerazione.
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