Consiglio di Stato, sezione adunanza plenaria, Sentenza 5 settembre 2018, n. 14.
La massima estrapolata:
Il principio della domanda e quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato hanno dignità di clausole generali e comportano il divieto di attribuire un bene della vita non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda. Sicché va annullata con rinvio la sentenza che, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi identificativi dell’azione, cioè il petitum e la causa petendi, attribuendo quindi un bene della vita diverso da quello richiesto o ponendo a fondamento della propria decisione fatti o situazioni del tutto estranei o dalle parti non considerati, salvo comunque il potere del giudice adito di fornire la qualificazione giuridica dei fatti e della domanda giudiziale.
Sentenza 5 settembre 2018, n. 14
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Adunanza Plenaria
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso NRG 9/2018 A.P. (NRG 8424/2015), proposto da Gi. Ch., rappresentato e difeso dall’avv. Gi. Ca., con domicilio eletto in Roma, via A. (…), presso l’avv. A. Gu.,
contro
– il Comune di (omissis) (CZ), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio e
– il Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore e l’U.T.G. – Prefettura di Catanzaro, in persona del Prefetto pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12,
per la riforma
della sentenza del TAR Calabria – Catanzaro, sez. I, n. 367/2015 e concernente la nota interdittiva antimafia, adottata il 30 maggio 2014 dalla Prefettura di Catanzaro, nella parte in cui il TAR, dopo aver accolto la domanda per l’annullamento di quest’ultima, ha omesso di pronunciarsi anche sulla domanda attorea di risarcimento dei danni, per il ristoro del pregiudizio derivante dalla contestata interdittiva e del provvedimento comunale di revoca della SCIA per l’apertura di un esercizio di vendita di frutta e verdura;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle sole Amministrazioni statali intimate;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore all’udienza pubblica dell’11 luglio 2018 il Cons. Silvestro Maria Russo, nessuno presente per le parti costituite;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. – Nel luglio 2010, fu sciolto il Consiglio comunale di (omissis) (CZ) per infiltrazione mafiosa, al cui posto fu insediato un commissario prefettizio.
Nel maggio 2012 il sig. Gi. Ch. propose al commissario stesso una SCIA, al fine di ottenere l’apertura d’un esercizio di vendita al dettaglio di frutta e verdura. Decorsi i termini ex art. 19 della l. 7 agosto 1990 n. 241, il sig. Ch. diede avvio a tal attività commerciale.
Sennonché la nuova Amministrazione comunale eletta, reputando che tal vicenda rientrasse tra le autorizzazioni indicate nell’art. 67 del D.lgs. 6 settembre 2011 n. 159 (codice delle leggi antimafia), chiese alla Prefettura di Catanzaro, ai sensi del successivo art. 100, un’informativa antimafia sulla posizione del sig. Ch.. Il 30 maggio 2014 la Prefettura ha adottato un’interdittiva antimafia ex art. 91, co. 6 del decreto n. 159 nei confronti del medesimo sig. Ch.. Pertanto, con ordinanza n. 14 del 12 giugno 2014, il Sindaco di (omissis), nella sua qualità di Autorità ex lege di PS e tenuto conto dell’interdittiva citata, ha disposto la revoca della SCIA per l’esercizio di vicinato in capo al sig. Ch..
2. – Questi ha allora impugnato i testé citati provvedimenti innanzi al TAR Catanzaro, col ricorso NRG 1016/2014, chiedendone l’annullamento per erronea applicazione degli artt. 67 e 100 del D.lgs. 159/2011 e per eccesso di potere sotto vari profili. Il ricorrente ha chiesto altresì, con separata ma contestuale domanda, il risarcimento dei danni patiti a causa della chiusura di tale esercizio di vicinato e del danno non patrimoniale (quantificati in complessivi € 35.000,00).
L’adito TAR, con sentenza n. 367 del 26 febbraio 2015, ha accolto il ricorso e ha annullato i citati provvedimenti, ma ha omesso del tutto di pronunciarsi, neppure per implicito o per meri accenni, sulla domanda risarcitoria.
Ha appellato quindi il sig. Ch., col ricorso NRG 8424/2015 (sez. III), chiedendo la riforma in parte qua della gravata sentenza laddove non ha disposto alcunché sulla predetta domanda, tant’è che ha dedotto la violazione dell’art. 112 c.p.c e, comunque, la fondatezza della pretesa risarcitoria nel merito ove la si ritenga per implicito respinta senza motivazione, per la quale sussistono invece gli elementi, oggettivo (pregiudizio economico e nesso eziologico coi provvedimenti illegittimi) e soggettivo, della responsabilità di entrambe le Amministrazioni intimate.
Investita della trattazione del ricorso NRG 8424/2014, la sez. III di questo Consiglio, con la ordinanza collegiale n. 2472 del 24 aprile 2018 ed ai sensi dell’art. 99, co. 1, c.p.a. ha rimesso alla Adunanza plenaria la portata applicativa del successivo art. 105, co. 1, ai fini della risoluzione del contrasto giurisprudenziale in atto tra le Sezioni.
Tal ultima disposizione prevede che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado «… soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio…».
Fissata l’udienza pubblica dell’11 luglio 2018, il 9 giugno u.s. l’Avvocatura erariale ha tempestivamente depositato una memoria difensiva nel giudizio n. 9/2018 R.G. pendente presso la VI Sezione e diverso da quello di cui si discute in questa sede, dotato del numero di ruolo n. 9/2018 dell’Adunanza Plenaria e non di una sezione semplice.
La stessa Avvocatura ha, peraltro, successivamente depositato la memoria nel ricorso n. 9/2018 dell’Adunanza Plenaria; in ritardo, tuttavia, rispetto all’udienza pubblica fissata dinanzi a quest’ultima, alla quale non ha, peraltro, preso parte l’Avvocato dello Stato.
3. – Va innanzi tutto osservato che l’Amministrazione è incorsa in errore nella esatta identificazione del ricorso n. 9/2018 R.G., depositando la memoriain quello dotato di tale numero ma pendente presso la VI Sezione e non in quello pendente presso l’Adunanza Plenaria; trattandosi, peraltro, di mero errore materiale, il Collegio gliene riconosce la scusabilità ed ammette la memoria al proprio esame.
4. – Tanto premesso, la Sezione remittente reputa necessario definire l’esatto ambito di operatività del citato art. 105, co. 1, c.p.a., con riguardo alla vicenda al suo esame, connotata da una totale e immotivata omissione di pronuncia sulla domanda risarcitoria, seppur correlata all’esito vittorioso dell’azione di annullamento contro i provvedimenti lesivi della posizione giuridica del ricorrente in primo grado.
Ad avviso della Sezione remittente, dunque, la vicenda in esame differisce molto da altri e coevi casi oggetto di rinvio all’Adunanza plenaria, pronunciate dalla Quarta e dalla Quinta Sezione, nonché dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana.
Tanto perché viene qui in rilievo la stretta connessione tra il vizio procedurale e la lesione del diritto difesa, rilevante ai fini del rinvio ex art. 105 c.p.a. A tal ultimo riguardo, l’ordinanza di rimessione in oggetto prende le mosse da un dato di fatto in sé evidente già dalla semplice lettura della sentenza appellata. È invero mancata del tutto la pronuncia sulla domanda risarcitoria ritualmente proposta in primo grado e non v’erano (né, allo stato, vi sono) motivi d’ordine processuale o sostanziale che avrebbero potuto inibire al TAR di delibare la fondatezza, o meno, della relativa azione. Non è possibile configurare alcuna pronuncia implicita nella specie e, anzi, della domanda risarcitoria il TAR non ha fatto cenno nell’esposizione dello svolgimento del processo.
Sicché la vicenda de qua manifesta la violazione della disposizione di cui all’art. 112 c.p.c., che, com’è noto, esprime il principio generale dell’obbligo, gravante sul Giudice, di «corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato». Donde la necessità, ad avviso della Sezione remittente, di stabilire in via pregiudiziale se il vizio di mancata totale pronuncia sulla domanda rientri, o no, tra quelli che, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., comportino la regressione del giudizio dal grado d’appello al primo grado, in caso contrario e per l’effetto devolutivo dell’appello dovendo questo Consiglio trattenere la causa e deciderla nel merito.
L’ordinanza di rimessione passa quindi in rassegna l’evoluzione normativa dell’istituto a partire dall’art. 35 della l. 6 dicembre 1971 n. 1034, nonché le varie ipotesi formulate dalle altre Sezioni remittenti per le vicende esaminate all’udienza di questa Adunanza plenaria in data 13 giugno 2018. Si sofferma poi, per quel che qui più rileva, sulla nozione di «lesione del diritto di difesa» (riconnettendola al principio del doppio grado di giudizio). In particolare, essa rammenta come l’ordinamento della giustizia amministrativa s’incentri sul principio del doppio grado di giurisdizione, sancito dall’art. 125 Cost. ed attuato con l’istituzione dei TAR nel 1971. Ma rammenta altresì come la regola costituzionale non imponga affatto che la legge processuale debba garantire sempre alle parti il diritto d’un doppio esame di ogni questione di rito o di merito proposta nel corso del giudizio, all’uopo essendo necessario e sufficiente che ciascuna domanda od eccezione sia potenzialmente esaminabile in due diversi gradi di giudizio, tenuto conto per vero del rapporto di pregiudizialità logica tra le diverse questioni. Dal che l’avvenuto contemperamento, nel c.p.a., tra le regole costituzionali sul doppio grado e sulla ragionevole durata del processo, grazie alla precisa e rigorosa delimitazione dei casi di rinvio al primo giudice, che si pone come eccezione rispetto alla regola dell’effetto devolutivo dell’appello.
La Sezione remittente afferma di non aver motivo di discostarsi dall’orientamento tradizionale, più fedele alla lettera dell’art. 105 c.p.a. ed all’evidente sua finalità d’accelerazione del giudizio, nel rispetto delle prerogative tipicamente processuali in cui si sostanzia il diritto di difesa; reputa, tuttavia, peculiare la vicenda di cui oggi si discute, ossia la totale omissione di pronuncia su una intera domanda (quella risarcitoria), a suo dire direttamente lesiva del diritto di difesa (a differenza dell’erronea declaratoria d’inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità), perché ha provocato, nei confronti della parte ricorrente, effetti equivalenti a quelli della c.d. “pronuncia a sorpresa” di cui all’art. 73 c. p.a. Già quando il Giudice pone a base della propria decisione una questione rilevata d’ufficio, senza prospettarla preventivamente alla dialettica tra le parti, arreca un sicuro pregiudizio al diritto di difesa dell’interessato, impedendogli di manifestare in contraddittorio la propria posizione. A più forte ragione si deve concludere per la totale omessa ed immotivata pronuncia del Giudice sull’azione proposta dal ricorrente, ove si verifica in modo ancora più vistoso la lesione del diritto di difesa, poiché la parte si vede privata d’ogni possibilità di difesa in ordine ad una pronuncia sfavorevole, adottata al di fuori del prescritto contraddittorio.
5. – Tutto ciò premesso, la Sezione remittente chiede dunque a questa Adunanza se, «… qualora il giudice di primo grado abbia omesso del tutto la pronuncia su una delle domande del ricorrente (nella specie l’azione di risarcimento del danno, conseguente all’annullamento dei provvedimenti impugnati), la controversia debba essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado, in coerenza con l’effetto devolutivo dell’appello e con la regola della tassatività delle ipotesi di rinvio al primo giudice, oppure, in alternativa, la causa debba essere rimessa al TAR, valorizzando la portata anche sostanziale della nozione di “violazione del diritto di difesa” e il principio costituzionale del doppio grado, anche alla luce della circostanza che la radicale e immotivata omissione di pronuncia avrebbe effetti equivalenti a quelli di una decisione adottata d’ufficio, in violazione del contraddittorio con le parti, stabilito dall’art. 73, comma 3, del CPA…».
6. – Fin d’ora, l’Adunanza ben può rispondere al quesito così posto, ritenendone corretta, anche alla luce d’una consolidata lettura del medesimo art. 105, co. 1, c.p.a., la prima alternativa prospettata con l’ordinanza di rimessione e ciò pur a fronte della singolarità della lite all’esame della Sezione stessa.
Quanto alle questioni sulla portata applicativa dell’art. 105, poste da altre Sezioni, cui l’ordinanza in esame fa riferimento o cenno, esse sono state esaminate con altra pronuncia ispirata a una rigorosa delimitazione dell’ambito oggettivo della menzionata disposizione, con riferimento, peraltro, a quesiti e vicende differenti dalla questione oggi in esame.
Al riguardo, è appena da rammentare, anche alla luce dell’art. 44, co. 1 della l. 18 giugno 2009 n. 69, come l’art. 105 c.p.a. sia sostanzialmente omeomorfo agli artt. 353 e 354 c.p.c., non solo per ragioni semantiche, ma soprattutto perché la riforma del processo amministrativo ha provveduto ad “… adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori” ed a “coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di princìpi generali…”.
Ecco, la struttura ed il significato dell’art. 105 esprimono, fatte le debite differenze, concetti e valori propri dell’ordinamento generale, nella tendenziale unitarietà del processo, pur nelle sue definite e differenti declinazioni. Questi valori e concetti provvedono a delineare un sistema tendenzialmente comune ed unitario del processo, specie oggi che (cfr. i principi delineati da Cons. St., ad. plen., 29 luglio 2011 n. 15) il c.p.a., nel dar attuazione armonica ai principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale previsti nella delega legislativa di cui alla l. 69/2009, supera la tradizionale limitazione della tutela dell’interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo la esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.
Si ha così un’unitaria regolazione per principi, nella specie quello per cui la sentenza d’appello si sostituisce alla sentenza di primo grado ed il giudice di appello decide nel merito, anche quando rileva un vizio del procedimento o della sentenza di primo grado, qualora, sia pur errando, il Giudice di prime cure abbia esaurito la sua potestà decisoria.
La rigidezza dei casi di rimessione al primo giudice serve, in tutti i giudizi a duplice grado, a limitare la discrezionalità dell’interprete nell'”invenzione”, nel senso proprio di rinvenimento, di fattispecie ulteriori (cioè, diverse e distinte da tutti i casi implicati) di regressione dall’appello al primo grado, la tassatività delle categorie esistenti essendo indubbia pure per la remittente.
Sicché la pronuncia che dichiara erroneamente l’irricevibilità, l’inammissibilità o l’improcedibilità di un ricorso giurisdizionale, consuma il potere decisorio da parte del primo Giudice e, stante l’effetto devolutivo dell’appello, impone al secondo Giudice, una volta riscontrato tale error in iudicando, di pronunciarsi nel merito. È, questo, un orientamento consolidato, certo a partire dalla sentenza che l’Adunanza plenaria resa nel 1978 (cfr. Cons. St., ad. plen., 30 giugno 1978 n. 18): già quarant’anni fa, essa aveva precisato che, quando il Giudice abbia erroneamente definito il giudizio dichiarando inammissibile o improcedibile il ricorso, «…in tale ipotesi il vizio fatto valere investe soltanto il contenuto della pronunzia impugnata e non il processo che ha condotto alla sua emanazione…». Si tratta d’un principio che non v’è ragione di rimettere in discussione nel suo impianto, nemmeno, anzi proprio alla luce del dato normativo dell’art. 105 c.p.a., ben più preciso e compiuto rispetto alla formulazione dell’art. 35 dell’abrogata l. 1034/1971.
Esiste, peraltro, un orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale tali erronee pronunce sul rito potrebbero essere considerate nel contenuto e nell’effetto, a guisa di pronunce declinatorie della giurisdizione.
Tale modo di pensare non coglie, peraltro, le implicazioni dirette della questione, ossia la ricorribilità per cassazione di tali pronunce ed una non appropriata considerazione del principio del doppio grado. Quanto al primo aspetto, pare sufficiente considerare che, anche nella pacifica giurisprudenza della Corte regolatrice, non si è mai affermato che l’erronea statuizione sulla inammissibilità o improcedibilità possa dar luogo a un’errata pronuncia sulla giurisdizione ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione. In ordine al secondo aspetto, si deve osservare che il Giudice di primo grado, nel ritenere la sussistenza d’una ragione che escluda la delibazione d’una controversia nel merito, non ha abdicato alla sua potestas iudicandi, ma ha valutato, per quanto erroneamente, che ricorra una questione preliminare o pregiudiziale idonea a definire il giudizio avanti a sé.
E un giudizio può, com’è noto, esser definito con l’accoglimento d’una questione, preliminare o pregiudiziale, che impedisce l’esame nel merito, in quanto non è vero che la parte abbia diritto sempre e comunque ad un doppio grado nel merito, ove al merito non si possa giungere (si pensi, p. es., a tutte le preclusioni o decadenze in cui s’incorre per la violazione di termini processuali).
Il doppio grado nel merito costituisce, infatti, il punto di arrivo -eventuale- del processo, non la sua premessa necessaria e indefettibile. Il bene al quale aspira la parte ed al quale tende il giudizio è il giudicato sulla sua pretesa. Il passaggio attraverso più gradi di giudizio è il veicolo, peraltro non sempre necessario (si pensi, p. es., ai casi di unico grado di giudizio avanti al Consiglio di Stato), il quale conduce a questo risultato, verso la stabilità della cosa giudicata (art. 2909 c.c.).
7. – Con l’ordinanza di rimessione oggi all’esame del Collegio, la III Sezione del Consiglio di Stato ha pertanto affermato di considerare preferibile la tradizionale interpretazione dell’art. 105 c.p.a., ritenuta più fedele alla lettera della norma ed alla sua evidente finalità di accelerazione del giudizio; ha, invece, ritenuto di sottoporre all’attenzione dell’Adunanza il quesito se la totale omissione di pronuncia su una intera domanda (nella specie, quella risarcitoria) possa comportare, a differenza dell’erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità, una diretta lesione del diritto di difesa, potendo una situazione del genere provocare, nei confronti della parte interessata, effetti equivalenti a quelli della c.d. “pronuncia a sorpresa”, che l’art. 73 c.p.a. tende, appunto, ad evitare. Poiché, infatti, il porre a base della decisione del giudice una questione rilevata d’ufficio non preventivamente sottoposta al contraddittorio delle parti costituirebbe un pregiudizio del diritto di difesa dell’interessato, potrebbe essere plausibile ritenere, secondo la Sezione, che, quando il giudice disattende del tutto, senza alcun esame, la domanda del ricorrente, si sia di fronte ad una ancor più grave lesione del diritto di difesa della parte interessata.
Non sfugge, peraltro al Collegio, lo si è già accennato, la differenza tra il caso prospettato dalla Sezione remittente e quelli di cui si occupano, in altro e diverso contesto, le altre ordinanze di rimessione. In queste ultime, in vario modo, gli interessati lamentano non che il Giudice di prime cure abbia abdicato alla propria potestas iudicandi, ma che questi abbia ritenuto il ricorso non meritevole d’esame nel merito a causa delle più svariate pregiudiziali in rito. In base a tale constatazione, l’appellante chiede al Giudice d’appello, nei limiti della devoluzione, di sostituirsi al TAR in tal esame sulla sostanza della lite. E tale sostituzione costituisce un potere/dovere del Giudice d’appello, laddove emerga l’erroneità della statuizione del TAR e si riapra interamente davanti a lui la cognizione del merito, senza che un tal risultato possa mai non solo implicare, ma proprio ipotizzare un’ipotesi di rinvio ex art. 105, co. 1, c.p.a.
A ben vedere, la vicenda adesso rimessa all’esame dell’Adunanza da parte della III Sezione non rientra affatto tra i casi cui fa riferimento il dato testuale del citato art. 73, co. 3 c.p.a., per l’evidente ragione che il Giudice di prime cure non ha impedito alle parti di difendersi in contraddittorio su tutte le questioni dedotte innanzi a lui. L’art. 73, co. 3, se impone al Giudice di provocare il contraddittorio sulla questione rilevata d’ufficio e sebbene non sanzioni in modo espresso di nullità la sentenza resa, in realtà fa un rinvio implicito al successivo art. 105, co. 1, poiché così è mancato il contraddittorio, ossia la prima nell’elenco delle ragioni che impongono il rinvio al primo Giudice. Si badi: il dovere del Giudice stabilito dall’art. 73, co. 3, non tutela affatto un inesistente “diritto” delle parti ad esser previamente informate su come questi vorrà qualificare giuridicamente i fatti portati alla sua attenzione, ma costituisce un mezzo di garanzia del contraddittorio, diretto ad evitare pronunce su profili aventi un’influenza decisiva sul giudizio quali, per esempio, la tardività, il difetto dell’interesse protetto, la perenzione del giudizio. Pertanto, il dovere ex art. 73, co. 3 risponde alla chiara finalità di contrastare, in ossequio al fondamentale principio del contraddittorio enunciato dall’art. 2, co. 1, c.p.a., il fenomeno delle c.d. decisioni a sorpresa, tant’è che la sua omissione trova la sanzione endoprocessuale nell’art. 105, co. 1 (arg. ex Cons. St., IV, 8 febbraio 2016 n. 478). D’altra parte, l’analogia (a volte prospettata della violazione dell’art. 112 c.p.c.: cfr., ad esempio, Cons. St., sez. III, ord. 24 aprile 2018, n. 2472) con l’ipotesi della “decisione a sorpresa” (adottata in violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm.), non risulta persuasiva.
Nel caso dell’art. 73, comma 3, infatti, il giudice ha deciso la domanda e la parte lamenta che l’abbia fatto ritenendo dirimente una questione, di rito o di merito, non sottoposta al contraddittorio processuale: il vizio attiene, quindi, al procedimento (la questione non è stata previamente sottoposta al contraddittorio nel corso del processo) non al contenuto della sentenza (che potrebbe essere anche “giusta” nella sua portata decisoria).
Nel caso di omesso esame, invece, il vizio risiede esclusivamente nel contenuto (incompleto) della decisione, mentre nel giudizio-procedimento non risulta violata alcuna specifica regola diretta a tutelare il diritto di difesa delle parti.
D’altro canto, la violazione del diritto di difesa presuppone che una pronuncia sia stata resa senza che siano state rispettate le garanzie difensive previste a favore di una delle parti (e la decisione, pertanto, è invalida per il solo fatto che è stata resa). La violazione del diritto di difesa si traduce, infatti, in un vizio del procedimento che porta alla decisione e presuppone che, alla fine, una decisione vi sia. Nel caso di omesso esame di una domanda la situazione è diametralmente opposta: la parte lamenta che il giudizio-procedimento (di per sé non viziato) si è concluso senza una decisione (su una delle domande), che, invece, avrebbe dovuto essere resa.
La tassatività dei casi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 esclude, pertanto, la possibilità di equiparare situazioni processuali diverse sul presupposto della pari o maggiore gravità che caratterizzerebbe l’omessa decisione rispetto alla “decisione a sorpresa” adottata in violazione dell’art. 73, comma 3, Cod. proc. amm.
8. – Ma, pur a seguire la tesi dell’ordinanza, una cosa è la decisione “a sorpresa”, ben altra è l’assenza di pronuncia, nel qual caso il TAR avrebbe violato un altro non sovrapponibile precetto, ossia quello ex art. 112 c.p.c., stante la mancata statuizione su tutte le domande poste, con conseguente violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Ora, la violazione dell’art. 112 c.p.c., di per sé sola, non costituisce una causa normale (predefinita ex lege) di rinvio al primo Giudice. Ciò vale certamente per l’esame di alcuni motivi dell’originario ricorso, come s’evince dall’onere di parte ex art. 101, co. 2, c.p.a. di riproposizione in forma espressa dei motivi assorbiti o non esaminati in primo grado, che dà luogo ad una decadenza o, se si vuole, ad una presunzione assoluta di rinuncia. Dal che è ben possibile evincere come, in generale, l’omesso esame di taluni motivi non determini la regressione della causa al primo Giudice. Anzi, se non v’è un impulso della parte pretermessa a volerli far constare dal Giudice d’appello, i motivi s’intendono rinunciati sic et simpliciter.
Del pari, non si può mai configurare tal rinvio, quando, pur a fronte d’un materiale omesso esame di alcune delle domande, dalla lettura della motivazione si comprenda comunqueperché il Giudice non abbia pronunciato espressamente su queste ultime.
9. – Ma ad analoga conclusione deve pervenirsi anche quando, a causa d’una svista o di un errore di fatto, il primo Giudice non s’è materialmente accorto, nel leggere gli atti del giudizio, della formulazione d’una o più domanda (è il classico errore revocatorio, per c.d. “abbaglio dei sensi”). In tali casi, è utile ricordare che, secondo una pacifica giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. III, 1 aprile 2014, n. 1314), l’omesso esame di una delle domande (o di uno o alcuni dei motivi proposti) integra, quando deriva da un svista del giudice nella percezione degli atti processuali, un errore di fatto idoneo a fondare il rimedio della revocazione. Ma va avvertito che l’errore di fatto revocatorio non è un error in procedendo che integra una violazione del diritto di difesa, né un’ipotesi di nullità della sentenza, bensì (semplicemente) un errore che inficia il contenuto della sentenza. E allora, la qualificazione, ai sensi dell’art. 105, di tale situazione come ipotesi di nullità (o come violazione del diritto di difesa delle parti) determinerebbe profili di incoerenza anche rispetto al citato indirizzo giurisprudenziale maturato in materia di revocazione.
Per tali ragioni, deve allora ritenersi che la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (non importa se riferita a singoli motivi o a singole domande) non determina un’ipotesi di nullità della sentenza, né un caso di violazione del diritto di difesa idoneo a giustificare l’annullamento con rinvio della sentenza appellata.
10. – Tale conclusione si impone anche alla luce dell’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm., il quale nel prevedere che «si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano espressamente riproposte nell’atto di appello», chiaramente esclude che l’omesso esame di una domanda (e a maggior ragione di un motivo) possa determinare una regressione al primo giudice.
Lo stesso articolo 101, comma 2, c.p.a. stabilisce che per le parti diverse dall’appellante principale la riproposizione delle domande non esaminate (o assorbite) può avvenire anche con semplice memoria difensiva, senza necessità di appello incidentale. Viene, in tal modo codificato, un indirizzo interpretativo che la giurisprudenza amministrativa aveva affermato anche prima dell’entrata in vigore del Codice, sul presupposto che in caso di omessa pronuncia su una specifica ed autonoma domanda (che implica la violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato) l’appellato -risultato vittorioso in ordine ad una domanda- non è costretto a cominciare ex novo un giudizio di primo grado e non è tenuto a proporre una formale impugnazione incidentale, perché manca il presupposto della soccombenza, e può, quindi, riproporre in grado di appello la domanda non esaminata, mediante uno scritto difensivo che la richiami esplicitamente e superi la presunzione di rinuncia (in questi termini cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 20 dicembre 2002, n. 8, che aveva già ritenuto applicabile l’art. 346 Cod. proc. civ., contenente una previsione analoga a quella ora inserita nell’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm.).
La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non è, quindi, equiparabile ad una ipotesi di violazione del diritto di difesa: in questo caso, infatti, la parte non lamenta di non essersi potuta difendere nel corso del procedimento, ma lamenta un vizio che attiene al contenuto della decisione, che risulta incompleto rispetto ai motivi o alle domande proposte.
Diverso può essere il caso -la cui individuazione determinerebbe la regressione della causa al primo giudice- in cui manchi del tutto la pronuncia sulla domanda o il giudice pronunci su diversa domanda, ovvero sulla domanda fatta valere in giudizio il giudice di primo grado abbia pronunciato con motivazione inesistente o apparente.
In questi casi -i cui termini sono stati chiariti da questa Adunanza plenaria con le decisioni n. 10 e n. 11/2018, assunta all’esito della medesima udienza pubblica in cui è stata decisa la presente causa-, la rimessione al primo giudice si riscontra in ragione del ricorrere della fattispecie della nullità della sentenza, perché priva degli elementi minimi idonei a qualificare la pronuncia come tale.
E così, per esempio, Cons. St., IV, 31 luglio 2017, n. 3809, ha ritenuto che, ai sensi degli artt. 99 e 112 c.p.c., sia nel processo civile che in quello amministrativo, il principio della domanda e quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato hanno dignità di clausole generali e comportano il divieto di attribuire un bene della vita non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda. Sicché va annullata con rinvio la sentenza che, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi identificativi dell’azione, cioè il petitum e la causa petendi, attribuendo quindi un bene della vita diverso da quello richiesto o ponendo a fondamento della propria decisione fatti o situazioni del tutto estranei o dalle parti non considerati, salvo comunque il potere del giudice adito di fornire la qualificazione giuridica dei fatti e della domanda giudiziale. Si tratta di ipotesi, ben note alla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. St., VI, n. 4914/2013, cit.; id., IV, 12 maggio 2014 n. 2416; id., V, 28 luglio 2014, n. 4019, che cita tal quale la precedente; id., IV, n. 3809/2017, cit.), in cui si verifica la totale mancanza dell’esplicazione, neanche in minima parte o per accenni a principi di diritto, delle ragioni che hanno condotto alla decisione assunta. In tal caso, la sentenza appellata è nulla, risultando priva di uno degli elementi essenziali prescritti dall’art. 88 c.p.a. In tali ipotesi non trova applicazione il richiamato orientamento per cui l’accoglimento dell’impugnazione, per violazione dell’art. 112 c.p.c., non conduce all’annullamento della statuizione gravata ma implica la risoluzione della controversia nel merito da parte del Giudice d’appello (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 28 febbraio 2016, n. 846), in quanto, nelle su richiamate ipotesi affatto eccezionali, l’annullamento con rinvio consegue (anche alle luce dei molteplici principi di diritto enunciati da Cons. St., ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5) alla nullità della sentenza non già per una mera distonia tra quanto chiesto e quanto pronunciato dal TAR, ma perché quest’ultimo ha completamente tralasciato di affrontare la vera domanda proposta, onde vi fu il chiesto, ma non v’è mai stato alcun pronunciato.
Anche in questi casi, peraltro, è opportuno chiarire che l’omessa pronuncia o il difetto assoluto di motivazione, per poter determinare la nullità della sentenza ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 105 c.p.a., devono essere valutati e apprezzati con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso, e non in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso.
Anche sotto tale profilo da ultimo evidenziato, deve osservarsi che l’ordinanza di rimessione, nel prospettare come causa di rinvio ex art. 105 l’omesso esame della domanda risarcitoria, non considera l’impossibilità di frazionare il presupposto e gli effetti del rinvio.
In altre parole, si prospetta una nullità della sentenza, ma solo in parte qua, ossia per l’omesso esame o il totale difetto di motivazione su una domanda risarcitoria non autonoma, ma strettamente dipendente da quella, poi accolta, d’annullamento. Ha ragione la Sezione remittente ad inferire la grave patologia della sentenza che non ha esaminato tale domanda pur a fronte della statuita illegittimità dell’atto; l’ordinanza, tuttavia, non può esser seguita quando, in base a tal inferenza, concludeper il rinvio di quest’ultima parte dell’azione nel complesso spiegata dal sig. Ch. al TAR stesso. Infatti, se l’integrale violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato può rientrare nei casi in cui il principio devolutivo cede il passo al principio del doppio grado di giudizio, ciò può avvenire solo se il profilo di nullità nei termini sopra chiariti -omesso totale esame della domanda azionata o motivazione inesistente- coinvolga la sentenza nella sua interezza; mentre sarebbe davvero incongruo ipotizzare, sul piano dell’economia del giudizio e della sua ragionevole durata, un rinvio limitato alla parte di giudizio relativo all’azione su cui non vi è stata pronuncia (nella specie, la domanda risarcitoria connessa all’azione di annullamento) con contestuale sospensione della parte di giudizio su cui si è esplicato appieno il doppio grado.
11. – Deve in conclusione il Collegio enunciare, rispondendo all’ordinanza di rimessione, i seguenti principi di diritto, che possono esser in tal modo riassunti:
a) In coerenza con il generale principio dell’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 Cod. proc. amm. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive.
b) La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un’ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell’effetto sostitutivo dell’appello, anche in questo caso, ravvisato l’errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado.
Ai sensi dell’art. 99, co. 4, c.p.c. la decisione definitiva del ricorso è rimessa alla Sezione, alla luce dei princìpi di diritto testè enunciati e in relazione alle peculiarità del caso concreto.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), enuncia i principi di diritto di cui ai punti 11.a), 11.b) della motivazione e restituisce per il resto l’affare alla III Sezione, che definirà il giudizio nel merito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio dell’11 luglio 2018, con l’intervento dei sigg. Magistrati:
Alessandro Pajno – Presidente
Filippo Patroni Griffi – Presidente
Sergio Santoro – Presidente
Franco Frattini – Presidente
Giuseppe Severini – Presidente
Roberto Giovagnoli – Consigliere
Claudio Contessa – Consigliere
Fabio Taormina – Consigliere
Bernhard Lageder – Consigliere
Umberto Realfonzo – Consigliere
Silvestro Maria Russo – Consigliere, Estensore
Oberdan Forlenza – Consigliere
Massimiliano Noccelli – Consigliere
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