La massima
1. Anche alla luce del nuovo codice del processo amministrativo deve escludersi l’applicabilità della norma di cui all’art. 51, n. 4, c.p.c. – richiamata dalla norma di rinvio di cui all’art. 17 c.p.a. – che prevede l’obbligo del giudice di astenersi quando abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, allorquando sia lo “stesso ufficio giudiziario” che ha reso la pronuncia oggetto di revocazione, competente a decidere nuovamente; ne consegue che, ad eccezione dell’ipotesi del dolo del giudice o, comunque, dell’ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, i magistrati che hanno pronunciato la sentenza impugnata per revocazione possono legittimamente far parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio.
2. L’illegittima composizione dell’organo giudicante è ravvisabile solo ed esclusivamente nelle diverse ipotesi di alterazioni strutturali dell’organo medesimo per vizi di numero o qualità dei suoi membri, che ne precludono l’identificazione con quello delineato dalla legge.
3. E’ ammissibile un ricorso per revocazione avente per oggetto l’impugnativa di un’ordinanza cautelare, in quanto detto istituto è suscettibile di applicazione anche all’ordinanza che pronuncia sulla domanda di sospensione dell’atto impugnato, essendo assimilabile, quanto ad efficacia decisoria, alla sentenza che definisce il merito.
4. L’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi delle citate disposizioni normative deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa. L’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche.
5. L’errore di fatto revocatorio si sostanzia in una svista o abbaglio dei sensi che ha provocato l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l’ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi.
6. Mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale (senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento), esso non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione.
CONSIGLIO DI STATO
ADUNANZA PLENARIA
SENTENZA 24 gennaio 2014, n. 5
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 30 di A.P. del 2013, proposto da: Ministero dell’Economia e delle Finanze – Comando Generale Guardia Di Finanza, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui Uffici, ope legis, domicilia in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Felice Grieco, rappresentato e difeso dall’avv. Valeria Pellegrino, con domicilio eletto presso Valeria Pellegrino in Roma, Corso Rinascimento, 11; Biagio Magaudda;
per la revocazione
dell’ordinanza cautelare della IV Sezione del Consiglio di Stato n. 855 del 2013, depositata in data 13 marzo 2013, resa tra le parti, concernente esclusione dal concorso per il reclutamento di 16 tenenti in servizio permanente effettivo del ruolo tecnico logistico amministrativo del corpo della guardia di finanza.
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Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Felice Grieco;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 ottobre 2013 il Cons. Nicola Russo e uditi per le parti gli avvocati dello Stato Greco, e Gianluigi Pellegrino per delega di Valeria Pellegrino.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
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FATTO
Il sig. Felice Grieco ha partecipato al concorso per il reclutamento di 16 tenenti in servizio permanente effettivo del ruolo tecnico – logistico – amministrativo del Corpo della Guardia di Finanza, posizionandosi al 14° posto della graduatoria unica di merito ed al 2° posto della specialità motorizzazione di cui all’art. 1 comma 1 lett. b) del bando di concorso. Il primo in graduatoria e, quindi, il vincitore del posto specialità motorizzazione è risultato il sig. Biagio Magaudda, con una differenza rispetto al ricorrente di soli 0,55 punti.
Con ricorso proposto innanzi al T.A.R. del Lazio il sig. Felice Grieco ha chiesto l’annullamento della graduatoria di merito e di tutti i verbali delle operazioni compiute della Commissione con specifico riferimento alla “specialità motorizzazione” e ha contestualmente impugnato, ex art. 116, comma 2, c.p.a., il parziale diniego di accesso agli atti di cui alla nota 10.10.2012 prot. n. 0168707 chiedendo al giudice di “ordinare alla P.A. l’esibizione dei documenti richiesti con istanza 13.09.2012 e 14.09.2012”.
Con ordinanza n. 4673 del 20.12.2012, il TAR, pronunciandosi limitatamente all’impugnazione contro il diniego di accesso agli atti, ha accolto l’istanza, ordinando all’amministrazione resistente di esibire copia di tutta la documentazione relativa alla partecipazione del controinteressato Biagio Magaudda.
Con ricorso notificato in data 01.02.2013, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha appellato la suddetta ordinanza in quanto erronea ed ingiusta, dal momento che, da un lato, il T.A.R. avrebbe dovuto dichiarare irricevibile per tardività il ricorso di primo grado e, dall’altro, perché non vi sarebbero i presupposti giuridici per ordinare l’esibizione dei documenti riguardanti il sig. Biagio Magaudda.
Si è costituito in giudizio il sig. Felice Grieco, eccependo preliminarmente l’irricevibilità per tardività dell’appello, nonché la sua inammissibilità e l’infondatezza nel merito.
Con ordinanza n. 855/2013 questo Consiglio ha accolto l’eccezione di tardività dichiarando irricevibile l’appello proposto dal Ministero “considerato che nella fattispecie sussistono profili che appaiono ostativi ad un esito favorevole del ricorso in appello, con riferimento al mancato rispetto del termine dimidiato ai sensi dell’art. 106 del c.p.a., in materia di procedimenti giurisdizionali inerenti l’accesso documentale”.
Con ricorso notificato in data 25.03.2013, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha chiesto la revocazione della predetta ordinanza 13.03.2013 n. 855.
Si è costituito in giudizio il sig. Felice Grieco, eccependo l’inammissibilità e, gradatamente, l’infondatezza del ricorso per revocazione.
Con nota prot. n. 3005/I in data 16 maggio 2013, il Presidente della IV Sezione, ha fatto presente che “esaminando la composizione dei collegi sino a dicembre riesce difficile comporre un collegio che, in base a quanto stabilito nell’Adunanza Plenaria n. 2 del 2009 escluda tutti i precedenti componenti che, sempre in base alla predetta decisione, sarebbero da ritenere incompatibili” e, pertanto, trattandosi di questione di massima riguardante la composizione dei Collegi, ha ritenuto di rimettere l’affare al Presidente del Consiglio di Stato per la valutazione circa l’opportunità di investire l’Adunanza Plenaria.
Il Presidente del Consiglio di Stato in data 17 maggio 2013 ha, quindi, deferito la controversia all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 2, c.p.a.
DIRITTO
Com’è noto, con decisione 25 marzo 2009, n. 2, questa Adunanza plenaria, modificando l’indirizzo già prevalente nella giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. St., sez. VI, 4 aprile 2005, n. 1477; sez. V, 30 luglio 1082, n. 622) e allineandosi all’indirizzo accolto dalla sentenza della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite, 27 febbraio 2008, n. n. 5087, ha riconosciuto che il dovere di astensione previsto dall’art. 51, n. 4, c.p.c., sussiste anche nei confronti del giudice chiamato a partecipare alla decisione della causa su cui si sia già pronunciato nello stesso grado di giudizio, e non solo nel caso in cui la seconda pronuncia intervenga in un nuovo e diverso grado di giudizio, in quanto le ragioni di garanzia della imparzialità e della terzietà del giudice valgono, allo stesso modo, in entrambi i casi (cfr. Corte Cost., 3 luglio 2002, n. 305).
Pertanto, mentre in passato, nel caso di regressione del processo al giudice di primo grado, si escludeva che il componente del collegio che avesse partecipato alla prima decisione versasse in posizione di incompatibilità per la nuova causa, successivamente, in adesione agli argomenti sviluppati dalle citate Sezioni Unite del 2008, questa Adunanza plenaria ha configurato l’obbligo di astensione nel caso di annullamento con rinvio.
L’Adunanza plenaria ha, dunque, aderito alla (nuova) linea interpretativa, secondo la quale l’alterità del giudice in sede di rinvio prosecutorio costituisce applicazione del principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, che ha “pieno valore costituzionale in relazione a qualunque tipo di processo” (cfr.: Corte 21 marzo 2002 n. 78; Corte Cost. 3 luglio 2002 n. 305; Corte Cost. 22 luglio 2003 n. 262 cit.).
In questa direzione, ha, pertanto, affermato che l’esigenza di proteggere l’imparzialità del giudice impedisce che quest’ultimo possa pronunciarsi due volte sulla medesima res iudicanda, in quanto dal primo giudizio potrebbero derivare convinzioni precostituite sulla materia controversa, determinandosi così, propriamente, un “pregiudizio” contrastante con l’esigenza costituzionale che la funzione del giudicare sia svolta da un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto, ma anche sgombro da convinzioni formatesi in occasione dell’esercizio di funzioni giudicanti in altre fasi del giudizio (Corte Cost., 12 luglio 2002, n. 335; Corte Cost., 22 luglio 2003, n. 262, cit.).
Inoltre, ha pure osservato che negli ordinamenti processuali è avvertita l’esigenza di evitare la cd. forza della prevenzione, attraverso la predisposizione di meccanismi processuali capaci di garantire che il giudice non subisca condizionamenti psicologici tali da rendere probabile il venir meno della sua serenità di giudizio.
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Facendo applicazione degli indicati principi, la decisione n. 2 del 2009 ha ritenuto fondato il primo motivo di appello, essendo risultato che del collegio che aveva adottato la decisione in sede di rinvio avevano fatto parte due magistrati – persone fisiche (uno dei quali nella veste di relatore in entrambe le pronunce) che avevano partecipato alla precedente sentenza e, pertanto, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio al medesimo giudice di primo grado.
Sebbene la materia del contendere vertesse solo sul giudizio a seguito di annullamento con rinvio, tuttavia la decisione n. 2 del 2009 cit. ha affermato che il dovere di astensione si estende anche all’ipotesi in cui il giudice sia chiamato a pronunciarsi nuovamente sulla vertenza in seguito a ricorso per revocazione della precedente sentenza, riconoscendo che il dovere di astensione deve valere ad assicurare anche l’“immagine” dell’imparzialità del giudice, così da evitare che egli possa sembrare condizionato dalla precedente pronuncia resa nella medesima controversia.
Conclusione diversa, invece, è stata accolta per il giudizio di opposizione di terzo, per il quale la prefata decisione, n. 2/2009 cit., ha ricavato dall’art. 405 c.p.c. la regola secondo cui il giudice che ha partecipato alla deliberazione della sentenza oggetto di opposizione potrebbe legittimamente intervenire nella pronuncia sull’opposizione.
La decisione n. 2 del 2009 cit. ha, infine, confermato l’indirizzo consolidato secondo cui non sussiste alcuna incompatibilità nella partecipazione dello stesso giudice alla pronuncia in sede cautelare e alla pronuncia in sede di merito, data la diversità dei caratteri della cognizione nell’uno e nell’altro caso.
Ciò premesso, ad avviso di questo Collegio, l’indirizzo interpretativo espresso dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 2 del 2009, nella parte in cui, sia pure con un obiter dictum – atteso che la materia del contendere verteva solo sul giudizio a seguito di annullamento con rinvio – ha affermato un principio di diritto comunque capace di orientare la futura attività dei giudici amministrativi, escludendo che del giudizio di revocazione possa conoscere la stessa persona fisica – o le stesse persone fisiche, quali componenti del Collegio – che ha pronunciato la sentenza impugnata, a parte la sua condivisibilità o meno, appare, comunque, superato dal nuovo codice del processo amministrativo (c.p.a.).
E, invero, le affermazioni dell’anzidetta decisione non sono state trasfuse negli articoli 106 e 107 c.p.a., sebbene emanato a breve distanza di tempo.
Anzi, l’art. 106, secondo comma, c.p.a. afferma, al comma 2, che “La revocazione è proponibile dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata”.
Naturalmente, dicendo “stesso giudice” la legge intende lo stesso “ufficio giudiziario”, e perciò deve ritenersi che la causa potrà essere affidata sia alla stessa e sia ad un’altra Sezione (cfr. Cass. 5 settembre 2006, n. 19041).
Nondimeno va ricordato che, a fronte della medesima espressione contenuta nell’art. 398, comma primo, c.p.c., secondo la giurisprudenza della Cassazione solo nel caso di revocazione per dolo del giudice (art. 395 n. 6 c.p.c.) non potrà far parte dell’organo giudicante la stessa persona fisica che ha emesso la sentenza revocanda, non sussistendo, negli altri casi, per il magistrato che ha pronunciato la sentenza impugnata per revocazione, alcuna incompatibilità a partecipare al giudizio di revocazione stesso (cfr. Cass., sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498).
Va altresì ricordato che nel processo civile ed amministrativo non sono applicabili le regole sulle incompatibilità soggettive del giudice fissate nel processo penale bensì soltanto le cause di astensione e ricusazione stabilite dal c.p.c..
La Corte costituzionale, con sentenza 15 ottobre 1999, n. 387, ha, infatti, ribadito che non sono applicabili al giudizio civile ed a quello amministrativo, proprio per la particolarità e le diversità dei sistemi processuali, le regole delle incompatibilità soggettive per precedente attività (tipizzata) svolta nello stesso procedimento penale, bensì le disposizioni sull’astensione e la ricusazione del codice di procedura civile, cui anche le norme proprie del processo amministrativo fanno rinvio: ciò in quanto il principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo, in relazione specifica al quale, peraltro, può e deve trovare attuazione, pur tuttavia con le peculiarità proprie di ciascun tipo di procedimento.
In tale circostanza, si è sottolineato che l’esigenza generale di assicurare che sempre il giudice rimanga, ed anche appaia, del tutto estraneo agli interessi oggetto del processo, viene assicurata nel processo civile solo attraverso gli istituti dell’astensione e ricusazione, che rinvengono il proprio supporto normativo nella previsione dell’art. 51, n. 4, cod. proc. civ.
Infatti, sul piano generale, esigenza imprescindibile, rispetto ad ogni tipo di processo, è solo quella di evitare che lo stesso giudice, nel decidere, abbia a ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguito; sicché condizione necessaria per dover ritenere una incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda.
Senonché, come anche ripetutamente osservato dalla Corte di Cassazione, salva ovviamente l’ipotesi di dolo del giudice, non sussiste per i magistrati che avevano pronunciato la sentenza revocanda alcuna incompatibilità a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione, atteso che essa non predica, per sua natura, un errore di giudizio (Cass. nn. 2342/1962, 1624/1965, 2222/1987 e, da ultimo, Sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498).
Il principio trae giustificazione dalla circostanza che la decisione impugnata è dovuta ad un errore involontario del giudice, o talmente grossolano da risolversi in una svista; pertanto, il fatto che non sia possibile imputare al giudice un errore di giudizio comporta che allo stesso non sia addebitabile un pregiudizio tale da impedirgli, allorchè chiamato nuovamente a giudicare della materia controversa, di assumere una decisione senza essere condizionato da quella precedentemente resa (cfr. Cass., n. 19498/06 cit.).
Tale principio non trova – ripetesi – ovviamente applicazione nell’ipotesi di dolo del giudice (cfr. Cass. Sez. Un., n. 733 del 2005, in tema di revocazione delle sentenze del Consiglio di Stato; nonché Corte Conti, sez. I giur. centr. app., 24.3.2004, n. 120/A); detto caso rappresenta, invero, l’unica ipotesi di incompatibilità del magistrato a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione.
E, invero, in difetto di tempestiva ricusazione la violazione da parte del giudice dell’obbligo di astenersi nell’ipotesi prevista dall’art. 51 n. 4 c.p.c. (a cui rinvia espressamente l’art. 17 c.p.a.), non comporta la nullità della sentenza ex art. 158 c.p.c., al di fuori del caso in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, in modo da porlo nella posizione sostanziale di parte (cfr. Cass., Sez. Un., 28.1.2002, n. 1007; Cass., 18.1.2002, n. 528; Cass., 22.6.2005, n. 13370; Cass., 29.3.2007, n. 7702).
Tale principio è perfettamente condivisibile, in quanto l’art. 111 Cost., nel fissare i principi fondamentali del giusto processo, ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina anche attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione, sancendo, come ha affermato la Corte Costituzionale (sent. 15.10.1999, n. 387 cit.), che, in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato – come quello amministrativo – sull’impulso paritario delle parti – non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire l’imparzialità-terzietà del giudice solo attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione.
Ritiene, pertanto, questa Adunanza plenaria che, anche alla luce del nuovo codice del processo amministrativo, debba escludersi l’applicabilità della norma di cui all’art. 51 n. 4 c.p.c. – richiamata dalla norma di rinvio di cui all’art. 17 c.p.a. – che prevede l’obbligo del giudice di astenersi quando abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, allorquando sia lo “stesso ufficio giudiziario” che ha reso la pronuncia oggetto di revocazione, competente a decidere nuovamente; ne consegue che, ad eccezione dell’ipotesi del dolo del giudice o, comunque, dell’ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, i magistrati che hanno pronunciato la sentenza impugnata per revocazione possono legittimamente far parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio.
Del resto, l’illegittima composizione dell’organo giudicante è ravvisabile solo ed esclusivamente nelle diverse ipotesi di alterazioni strutturali dell’organo medesimo per vizi di numero o qualità dei suoi membri, che ne precludono l’identificazione con quello delineato dalla legge (cfr. Cass., Sez. Un., 1.6.2006, n. 13034; analogamente è a dirsi con riguardo alla pronuncia del giudice contabile: Cass., Sez. Un., 13.7.2006, n. 15900).
Tanto premesso in ordine alla questione di massima rimessa a questa Adunanza plenaria, relativa alla valida costituzione dei Collegi chiamati a pronunciarsi nei giudizi di revocazione, può ora passarsi ad esaminare il merito del presente giudizio.
Occorre, però, preliminarmente precisare che il presente ricorso per revocazione, avente per oggetto l’impugnativa di un’ordinanza cautelare, deve ritenersi ammissibile, in quanto l’istituto della revocazione è suscettibile di applicazione anche all’ordinanza che pronuncia sulla domanda di sospensione dell’atto impugnato, essendo assimilabile, quanto ad efficacia decisoria, alla sentenza che definisce il merito (cfr. Cons. St., A.P., 20 gennaio 1978, n. 1 e 24 febbraio 1978, n. 6; Cons. St., sez. VI, ord. 23 settembre 2004, n. 4289).
Venendo dunque ad esaminare il merito della proposta revocazione, con essa il Ministero istante sostiene che l’ordinanza n. 855/2013 sarebbe frutto di un errore di fatto ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., affermando che “il termine di trenta giorni di cui all’art. 116 co. 1 c.p.a. si riferisce all’impugnazione dei provvedimenti della p.a. in materia di accesso … e non sembra che nella nozione di determinazioni possano ricomprendersi anche i provvedimenti giurisdizionali … Il dimezzamento per il rito dell’accesso … comporta che la sentenza … vada impugnata entro tre mesi, se non notificata, ovvero entro trenta giorni se notificata”.
Da quanto precede si evince chiaramente che l’Amministrazione non denuncia un errore di fatto, ma di giudizio e, quindi, di diritto (cfr. Cons. St., sez. III, 04/05/2012, n. 2558), con conseguente inammissibilità della istanza di revocazione proposta.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato e quella della Corte di Cassazione, invero, hanno pressoché univocamente individuato le caratteristiche dell’errore di fatto revocatorio, che, ai sensi rispettivamente dell’art. 81 n. 4 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, ora dell’art. 106 c.p.a., e dell’art. 395, comma 4, c.p.c., può consentire di rimettere in discussione il contenuto di una sentenza, e ciò per evitare che il distorto utilizzo di tale rimedio straordinario dia luogo ad un inammissibile ulteriore grado di giudizio di merito, non previsto e non ammesso dall’ordinamento.
E’ stato, infatti, più volte ribadito che l’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi delle citate disposizioni normative deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (Cons. St., A.P., n. 1 del 2013 e n. 2 del 2010; sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; 24 maggio 2012, n. 3053; sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 503, 23 settembre 2008, n. 4607; 16 settembre 2008, n. 4361; 20 luglio 2007, n. 4097; e meno recentemente, 25 agosto 2003, n. 4814; 25 luglio 2003, n. 4246; 21 giugno 2001, n. 3327; 15 luglio 1999 n. 1243; C.G.A., 29 dicembre 2000 n. 530; sez. VI, 9 febbraio 2009, n, 708; 17 dicembre 2008, n. 6279; C.G.A., 29 dicembre 2000, n. 530; Cass. Civ., sez. I, 24 luglio 2012, n. 12962; 5 marzo 2012, n. 3379; sez. III, 27 gennaio 2012, n. 1197); l’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (C.d.S., sez. VI 25 maggio 2012, n. 2781; 5 marzo 2012, n. 1235)
L’errore di fatto revocatorio si sostanzia quindi in una svista o abbaglio dei sensi che ha provocato l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l’ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi (Cons. St., sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 1 dicembre 2010, n. 8385).
Pertanto, mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale (senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento), esso non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione (che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall’ordinamento, Cons. St., sez. III, 8 ottobre 2012, n. 5212; sez. V, 26 marzo 2012, n. 1725; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 15 maggio 2012, n. 2781; 16 settembre 2011, n. 5162; Cass. Civ., sez. I, 23 gennaio 2012, n. 836; sez. II, 31 marzo 2011, n. 7488).
Inoltre, l’articolo 395 n. 4 c.p.c. prevede che sussiste errore di fatto se ‘il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare’.
Nel caso di specie, tuttavia, il fatto sul quale si pretende di fondare l’errore revocatorio è stato proprio il punto decisivo sul quale il Collegio ha fondato la propria decisione di tardività dell’appello, accogliendo la specifica eccezione sollevata dalla parte appellata.
In base alle suesposte considerazioni, la presente istanza di revocazione è, pertanto, inammissibile.
Sussistono, tuttavia, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese, competenze ed onorari del presente giudizio di revocazione.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
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