La sanzione ai sensi dell’art. 15 della legge n. 1497 del 1939

Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 12 febbraio 2020, n. 1090.

La massima estrapolata:

Il potere di irrogare la sanzione ai sensi dell’art. 15 della legge n. 1497 del 1939 è un autonomo potere sanzionatorio che prescinde quindi dall’esito favorevole della sanatoria paesaggistica ed edilizia. Ne deriva la irrilevanza del tempo trascorso dalla chiusura del provvedimento di sanatoria edilizia e dal rilascio della autorizzazione paesaggistica (in sanatoria), in quanto il potere sanzionatorio di cui all’art. 15 è esclusivamente soggetto al termine di prescrizione quinquennale, previsto in generale per le sanzioni amministrative dall’art. 28 della L. n. 689 del 1981 che, inoltre, decorre non dalla data di realizzazione del manufatto abusivo o dalla presentazione della domanda di condono, ma dal momento in cui viene a cessare la situazione di illiceità, e cioè dal giorno del conseguimento delle necessarie autorizzazioni, anche in via di sanatoria.

Sentenza 12 febbraio 2020, n. 1090

Data udienza 10 dicembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6345 del 2009, proposto dal signor Gi. De., rappresentato e difeso dagli avvocati Lu. Fi., Pa. Gh. e Gi. Pe., con domicilio eletto presso l’avv. Lu. Fi. in Roma, viale (…),
contro
la Provincia di Belluno, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Mi. Co. e Sa. De Ve., con domicilio eletto presso l’avv. Mi. Co. in Roma, via (…),
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto Sezione Seconda n. 3624/2008, resa tra le parti, concernente l’impugnativa del provvedimento del 25 febbraio 1995 di irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi della legge n. 1497 del 1939.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Provincia di Belluno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 10 dicembre 2019, il Cons. Cecilia Altavista e uditi per le parti l’avvocato An. Bu. su delega dell’avv. Lu. Fi. e l’avv. Ma. Mo. su delega dell’avv. Sa. De Ve.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

L’odierno appellante presentava domanda di concessione in sanatoria, ai sensi dell’art. 13 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, per opere eseguite su immobile ubicato in (omissis), via (omissis) angolo via (omissis), in difformità dalla concessione edilizia n. 39 del 29 luglio 1991 per opere di ristrutturazione.
L’immobile era stato originariamente edificato in forza della concessione edilizia rilasciata nel 1960 ma era rimasto incompiuto.
Trattandosi di zona soggetta a vincolo paesaggistico, ai sensi della legge n. 1497 del 1939, la sanatoria veniva rilasciata dal Comune con provvedimento del 16 giugno 1993, a seguito del parere favorevole del Presidente della Giunta provinciale del 13 febbraio 1993.
Successivamente, con provvedimento del 25 febbraio 1995, il Presidente della Giunta provinciale ingiungeva il pagamento della somma di lire 130 milioni quale sanzione per interventi eseguiti senza autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell’art. 15 della legge n. 1497 del 1939.
Tale somma è stata quantificata in relazione alla stima del profitto conseguito, calcolato in relazione all’aumento di valore venale acquisito dal manufatto a seguito delle opere intraprese ed oggetto di sanatoria, in particolare individuate con la copertura del terrazzo e la trasformazione in vano uso ufficio per 24 metri quadri (con un valore di mercato calcolato in 5 milioni di lire al metro quadro).
Avverso tale provvedimento è stato proposto ricorso davanti al Tribunale amministrativo regionale del Veneto deducendo di non essere il proprietario del bene, nonché travisamento ed erronea valutazione dei fatti contestando la quantificazione della sanzione, anche in relazione alla individuazione delle opere abusive; la violazione degli articoli 7 e 5 della legge n. 1497 del 1939, dell’art. 26 della legge n. 47 del 1985, dell’art. 1 della legge n. 431 del 1985, la incompetenza per materia, lamentando che si trattava di opere interne non soggette al regime autorizzatorio di cui all’art. 7 della legge n. 1497 del 1939; la mancanza di danno ambientale; il decorso del tempo dal rilascio della concessione in sanatoria.
La sentenza di primo grado ha respinto tutte le censure.
Con l’appello sono stati formulati i seguenti motivi:
– omessa ed errata valutazione dei fatti, con cui riproduce il motivo di ricorso di primo grado relativo alla natura di opere interne oggetto della sanatoria, prive quindi di rilevanza paesaggistica, ai sensi dell’art. 82, comma 12, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, inserito dal d.l. 27 giugno 1985, n. 312, conv. nella legge 8 agosto 1985, n. 431; contesta, quindi, la qualificazione delle opere abusive rispetto alla chiusura del terrazzo con realizzazione di una superficie ad uso ufficio di 24 metri quadri, deducendo che la chiusura del terrazzo fosse già prevista nel progetto assentito nel 1960;
– omesso esame del motivo relativo alla violazione degli artt. 13 e 15 della legge n. 1497 del 1939, avendo l’Amministrazione provinciale adottato il provvedimento impugnato due anni dopo il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Si è costituita in giudizio la Provincia di Belluno che, nella memoria presentata per l’udienza pubblica, ha eccepito la inammissibilità della impugnazione per la genericità dei motivi, avendo la parte appellante meramente riproposto alcune censure del ricorso di primo grado, e ha comunque contestato la fondatezza dell’appello.
Anche la parte appellante ha depositato memoria ed entrambe le difese hanno presentato memorie di replica, insistendo nella rispettive argomentazioni.
All’udienza pubblica del 10 dicembre 2019 l’appello è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

In via preliminare ritiene il Collegio di prescindere dall’esame della ammissibilità dell’appello per la genericità dei motivi, in relazione alla evidente infondatezza degli stessi.
Con il primo motivo di appello si sostiene l’errore del giudice di primo grado e il vizio del provvedimento sanzionatorio impugnato, in quanto sarebbe stato erroneamente calcolato l’aumento di valore del bene con riferimento alla chiusura del terrazzo per una superficie di 24 metri quadri, mentre – secondo la ricostruzione difensiva – tale volume era comunque preesistente, in quanto già nel progetto assentito nel 1960 era previsto il terrazzo chiuso su tre lati con una struttura in legno. La modifica sarebbe quindi stata integrata solo dalla successiva chiusura in vetro e dal mutamento di destinazione d’uso ad ufficio, irrilevanti sotto il profilo paesaggistico, in quanto, ai sensi dell’art. 82, comma 12, del d.P.R. n. 616 del 1977, aggiunto dal d.l. 27 giugno 1985, n. 312, conv. nella legge 8 agosto 1985, n. 431, non sarebbe richiesta l’autorizzazione per le opere interne.
Tale ricostruzione non può essere condivisa.
Ai sensi dell’art. 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, vigente all’epoca di adozione del provvedimento impugnato in primo grado, “i proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, dell’immobile, il quale sia stato oggetto nei pubblicati elenchi delle località, non possono distruggerlo né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio a quel suo esteriore aspetto che è protetto dalla presente legge.
Essi, pertanto, debbono presentare i progetti dei lavori che vogliano intraprendere alla competente regia Soprintendenza e astenersi dal mettervi mano sino a tanto che non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione.
È fatto obbligo al (regio) Soprintendente, di pronunciarsi sui detti progetti nel termine massimo di tre mesi dalla loro presentazione”.
Da tale disciplina deriva che qualsiasi modifica dello stato dei luoghi è comunque soggetta ad autorizzazione paesaggistica.
La giurisprudenza ha, infatti, anche affermato che hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere realizzate sull’area sottoposta a vincolo, anche se non vi è un volume da computare sotto il profilo edilizio, poiché le esigenze di tutela dell’area sottoposta a vincolo paesaggistico possono anche esigere l’immodificabilità dello stato dei luoghi (Cons. St., Sez. VI, 20 giugno 2012, n. 3578).
Ai sensi dell’art. 82, comma 12, del d.P.R. n. 616 del 1977, aggiunto dal d.l. 27 giugno 1985, n. 312, conv. nella legge 8 agosto 1985, n. 431, “non è richiesta l’autorizzazione di cui all’articolo 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
Nel caso di specie, in primo luogo, la rilevanza paesaggistica degli interventi effettuati in difformità dalla concessione edilizia n. 39 del 1991 risulta già dal procedimento di sanatoria che si è concluso con il provvedimento comunale del 16 giugno 1993 di rilascio della concessione in sanatoria, previo il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica su cui si è espressa la Provincia con atto del 13 febbraio 1993.
Ne deriva la infondatezza delle argomentazioni relative alla irrilevanza paesaggistica delle opere oggetto della sanatoria, essendo questa già esclusa dall’autorizzazione rilasciata il 13 febbraio 1993.
Quanto alla ricostruzione in fatto prospettata dall’appellante con riferimento alla preesistenza della chiusura del balcone già nel del 1960, si deve evidenziare che il parere favorevole alla sanatoria del 13 febbraio 1993 faceva già riferimento al nuovo locale ad uso ufficio di 24 metri quadri; in caso di contestazione su tale punto, la detta autorizzazione avrebbe dovuto essere tempestivamente impugnata.
In ogni caso, nel progetto presentato con la domanda di sanatoria risulta la chiusura della terrazza rispetto allo stato di fatto indicato come approvato.
Peraltro, per le difformità realizzate nel corso della ristrutturazione assentita con la concessione edilizia n. 39 del 1991 si deve far riferimento a quanto indicato nel progetto per questa presentato e non certo a quello autorizzato nel 1960.
Infatti, il progetto del 1960 non era mai stato effettivamente realizzato, non essendo stato completato l’edificio ivi previsto.
Peraltro, anche facendo riferimento al progetto assentito nel 1960, è la stessa parte appellante a confermare, in fatto, la successiva chiusura del terrazzo anche rispetto a tale progetto, in quanto la stessa si riferisce alla preesistenza di una copertura su tre lati in legno.
Ne deriva che non poteva che trattarsi, come del resto emerge dallo stesso progetto del 1960 depositato agli atti del giudizio, di una mera copertura tipo tettoia con funzione ornamentale e di copertura della superficie pertinenziale del terrazzo e non di un volume dell’edificio.
Ne deriva l’infondatezza del motivo di appello.
Con il secondo motivo di appello si deduce l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio, in quanto adottato due anni dopo il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica e comunque essendo ampiamente concluso il procedimento relativo alla sanatoria, con la violazione dei principi di correttezza e buona fede e dell’affidamento, avendo ritenuto la parte che il procedimento fosse concluso con l’autorizzazione in sanatoria.
Anche tale motivo di appello è infondato.
In base all’art. 15 della legge n. 1497 del 1939, all’epoca vigente, “indipendentemente dalle sanzioni comminate dal codice penale, chi non ottempera agli obblighi e agli ordini di cui alla presente legge è tenuto, secondo che il Ministero dell’educazione nazionale ritenga più opportuno, nell’interesse della protezione delle bellezze naturali e panoramiche, alla demolizione a proprie spese delle opere abusivamente eseguite o al pagamento di una indennità equivalente alla maggiore somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la commessa trasgressione”.
La sanzione prevista dall’art. 15 viene quindi comminata per la inosservanza degli obblighi previsti dalla legge n. 1497 del 1939 per i beni sottoposti a vincolo paesaggistico, tra cui deve comprendersi anche l’inosservanza degli obblighi di cui all’art. 7 ovvero la richiesta di autorizzazione per qualsiasi modifica e effettuazione di lavori che riguardino gli immobili sottoposti a vincolo.
Il comportamento sanzionato nel caso di specie è, quindi, costituito dalla mancata richiesta dell’autorizzazione per le modifiche al bene vincolato realizzate in difformità dalla concessione edilizia n. 39 del 1991.
Rispetto a tale comportamento è, dunque, irrilevante che la Provincia di Belluno abbia già dato parere favorevole alla sanatoria, essendo questa solo “l’autorizzazione postuma” necessario presupposto al fine di ottenere il titolo edilizio in sanatoria. Tale “autorizzazione postuma” così come il successivo completamento del procedimento di sanatoria edilizia con il rilascio della concessione il 16 giugno 1993 non hanno alcun effetto sanante rispetto all’illecito paesaggistico ormai compiuto e rilevante, ai sensi dell’art. 15 della legge n. 1497 del 1939.
Per la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, infatti, l’autorizzazione “postuma”, pur inibendo il ricorso alla misura ripristinatoria, non può considerarsi un equipollente perfetto dell’autorizzazione tempestiva, lasciando fermo in capo alla competente Amministrazione, il potere-dovere di procedere all’applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 15, L. n. 1497 del 1939 (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 2013, n. 6113; id., 13 luglio 2006, n. 4420; sez. VI, 4 dicembre 2000, n. 6469).
Il potere di irrogare la sanzione ai sensi dell’art. 15 della legge n. 1497 del 1939 è un autonomo potere sanzionatorio che prescinde quindi dall’esito favorevole della sanatoria paesaggistica ed edilizia.
Dalla natura autonomamente sanzionatoria di tale potere deriva la irrilevanza del tempo trascorso dalla chiusura del provvedimento di sanatoria edilizia e dal rilascio della autorizzazione paesaggistica (in sanatoria), in quanto il potere sanzionatorio di cui all’art. 15 è esclusivamente soggetto al termine di prescrizione quinquennale, previsto in generale per le sanzioni amministrative dall’art. 28 della L. n. 689 del 1981 che, inoltre, decorre non dalla data di realizzazione del manufatto abusivo o dalla presentazione della domanda di condono, ma dal momento in cui viene a cessare la situazione di illiceità, e cioè dal giorno del conseguimento delle necessarie autorizzazioni, anche in via di sanatoria (Cons. Stato, Sez. V, 13 luglio 2006, n. 4420).
Trattandosi di sanzione amministrativa, e non di una forma di risarcimento del danno, inoltre, la relativa attività amministrativa si conclude tipicamente con un atto dovuto, nell’ambito del quale il rilievo della sussistenza di un effettivo danno ambientale rileva solo come eventuale parametro alternativo al “profitto conseguito” per la commisurazione del quantum.
L’indennità prevista per abusi edilizi ambientali è applicabile, infatti, sia nel caso di illeciti sostanziali (cioè nel caso di compromissione dell’integrità paesaggistica) sia nelle ipotesi di illeciti formali, come ad esempio quella concernente la violazione dell’obbligo di conseguire l’autorizzazione preventiva a fronte di un intervento compatibile con il contesto paesistico oggetto della protezione (cfr. Consiglio Stato, Sez. VI, 28 luglio 2006, n. 4690; Sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4631; Cons. Stato, Sez. V, 17 ottobre 2013, n. 5042).
Da tale inquadramento normativo e giurisprudenziale deriva che la sanzione sia stata legittimamente irrogata in presenza del presupposto costituito dalla realizzazione di opere senza la previa richiesta di autorizzazione paesaggistica; né può rilevare l’affidamento della parte circa la conclusione favorevole del procedimento di sanatoria, essendo il potere sanzionatorio espressamente previsto dalla legge anche per le violazioni formali della disciplina paesaggistica ovvero per la mancata richiesta di autorizzazione preventiva.
Quanto alla quantificazione della sanzione, peraltro non espressamente contestata nell’atto di appello, questa deriva dall’applicazione dell’art. 7 della legge n. 1497 del 1939 che fa riferimento al profitto conseguito, individuato dalla Provincia nell’aumento di valore del bene dovuto all’aumento della volumetria e al mutamento di destinazione d’uso commisurato al valore di mercato a metro quadro.
Tale quantificazione si deve dunque ritenere corretta, non essendo contestato comunque il valore di mercato di riferimento utilizzato.
L’appello è quindi infondato e deve essere respinto.
Le spese del presente grado di giudizio, liquidate in euro 4000,00 (quattromila, 00) oltre accessori di legge, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico della parte appellante.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali in favore del Comune di Trani pari a euro 4000,00 (quattromila, 00) oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 dicembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Fulvio Rocco – Consigliere
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Cecilia Altavista – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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