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1. La questione rimessa dall’ordinanza interlocutoria.
La Terza Sezione Civile – dopo aver premesso che solo la decisione in senso favorevole alla societa’ ricorrente della prima delle due questioni suindicate avrebbe dato ingresso allo scrutinio della seconda – ha chiesto alle Sezioni Unite di stabilire se “sia richiesto all’appellante di formulare l’appello con una determinata forma o di ricalcare la gravata decisione ma con un diverso contenuto, ovvero se sia sufficiente, ma almeno necessaria, un’analitica individuazione, in modo chiaro ed esauriente, del quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonche’ ai passaggi argomentativi in punto di fatto o di diritto che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice”.
2. La procedibilita’ del ricorso.
Occorre innanzitutto dare atto che la prima questione prospettata nell’ordinanza interlocutoria e’ stata nel frattempo gia’ decisa da queste Sezioni Unite con la sentenza 2 maggio 2017, n. 10648, in risposta a precedente ordinanza di rimessione della Prima Sezione Civile. In quella pronuncia e’ stato affermato il principio secondo cui nel giudizio di cassazione deve escludersi la possibilita’ di applicazione della sanzione della improcedibilita’ di cui all’articolo 369 c.p.c., comma 2, n. 2), al ricorso contro una sentenza notificata di cui il ricorrente non abbia depositato, unitamente al ricorso, la relata di notifica, ove quest’ultima risulti comunque nella disponibilita’ del giudice perche’ prodotta dalla parte controricorrente ovvero acquisita mediante l’istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio.
Poiche’ nel caso in esame la stessa ordinanza interlocutoria ha dato atto che la copia notificata della sentenza impugnata si trovava negli atti prodotti dal controricorrente, ne deriva che il principio enunciato nel richiamato precedente risolve ogni dubbio sul punto; per cui, pacifica dovendosi ritenere la procedibilita’ del ricorso, bisogna esaminare la seconda questione posta, riguardante l’interpretazione delle norme in tema di contenuto dell’atto di appello.
3. L’interpretazione delle norme sul contenuto dell’atto di appello fino alla riforma del 2012.
3.1. Ai fini della soluzione dell’indicata questione, e’ opportuno ricapitolare brevemente i principali approdi della giurisprudenza di questa Corte nella materia in esame.
Nel sistema delle impugnazioni, il giudizio di appello viene tradizionalmente individuato come un rimedio che consente, nei limiti dei motivi proposti, il riesame della vicenda processuale definita con la sentenza di primo grado, oggetto diretto della impugnazione. Si sottolinea, in dottrina, come l’appello sia un mezzo di gravame attraverso il quale si realizza il principio, sebbene privo di copertura costituzionale, del doppio grado di giurisdizione, caratterizzato dall’effetto devolutivo, non automatico e limitato dai motivi di gravame (tantum devolutum quantum appellatum) e da quello sostitutivo, nel senso che, di norma, la sentenza emessa dal giudice di appello si sostituisce a quella impugnata, sia essa confermata o riformata. A differenza di altri mezzi di impugnazione, nei quali c’e’ una predeterminazione del tipo di vizi che possono essere fatti valere, con conseguente distinzione tra giudizio rescindente e giudizio rescissorio, l’appello e’ un mezzo ordinario di impugnazione avverso la sentenza di primo grado, diretto, nella sua funzione essenziale, a provocare un riesame della causa nel merito, non limitato necessariamente al controllo di vizi specifici.
Tale funzione tipica, gia’ delineata nel vigente codice di rito fin dal suo testo originario, e’ stata rafforzata ed ulteriormente ribadita dalla riforma di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353. Dopo tale intervento, si e’ accentuato il carattere di revisio prioris instantiae del giudizio di appello piuttosto che quello di novum iudicium; si tratta, cioe’, di un’impugnativa avverso la sentenza piuttosto che di un rimedio introduttivo di un giudizio sul rapporto controverso, dal momento che in esso la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante (anche incidentale) attraverso la prospettazione e, quindi, la deduzione di specifiche censure, senza che al giudice di secondo grado possa ritenersi assegnato il compito di “ripetere” il giudizio di primo grado, rinnovando la cognizione dell’intero materiale di causa e pervenendo ad una nuova decisione che involga “tutti” i punti gia’ dibattuti in prima istanza.
Successivamente alla L. n. 353 del 1990, il giudizio di appello e’ stato interessato da ulteriori e piu’ limitate modifiche (si ricordano, tra le altre, quella dell’articolo 339 c.p.c., introdotta dal Decreto Legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, quella dell’articolo 345 c.p.c., di cui alla L. 18 giugno 2009, n. 69, e quelle di cui alla L. 12 novembre 2011, n. 183, articolo 27).
Piu’ di recente, con il Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il giudizio di appello e’ stato ancora riformato, in particolare con la modificazione degli articoli 342 e 434 c.p.c., e con l’introduzione della possibilita’ di pervenire ad una preliminare pronuncia di inammissibilita’ nei casi e nei modi di cui agli interpolati articoli 348 bis e 348 ter c.p.c..
3.2. Tanto premesso, si rileva che il problema dell’esatta interpretazione dei contenuti minimi dell’atto di appello e’ stato oggetto di piu’ di una pronuncia di queste Sezioni Unite.
Gia’ la sentenza 6 giugno 1987, n. 4991, affermo’ che quell’atto, tanto nel rito ordinario quanto nel rito del lavoro, introduce un procedimento d’impugnazione nel quale i poteri cognitori del giudice, all’infuori delle questioni rilevabili d’ufficio, sono circoscritti dall’iniziativa della parte istante, spettando ad essa di attivarsi per la riforma delle decisioni sfavorevoli contenute nella sentenza di primo grado. Pertanto, l’onere di specificazione dei motivi d’appello esige che la manifestazione volitiva dell’appellante, indirizzata a ottenere la suddetta riforma, trovi un supporto argomentativo idoneo a contrastare la motivazione in proposito della sentenza impugnata, con la conseguenza che i motivi stessi devono essere piu’ o meno articolati a seconda della maggiore o minore specificita’, nel caso concreto, di quella motivazione. La pronuncia, peraltro, aggiunse che l’inosservanza di tale onere determinava la nullita’ dell’appello e non la sua inammissibilita’, “che nessuna norma prevede”; ed interpreto’ il richiamo all’articolo 163 c.p.c., contenuto nel testo dell’articolo 342 c.p.c., allora vigente come possibilita’ che la costituzione del convenuto appellato potesse sanare quella nullita’, “con salvezza dei diritti anteriormente acquisiti”.
Le conclusioni raggiunte da tale pronuncia furono in sostanza confermate da queste Sezioni Unite nella successiva sentenza 20 settembre 1993, n. 9628. Essa, dopo aver rilevato che l’appello non e’ un novum iudicium “con effetto devolutivo generale ed illimitato”, ribadi’ la necessita’ che le ragioni su cui esso si fonda fossero esposte “con sufficiente grado di specificita’, da correlare peraltro con la motivazione della sentenza impugnata: il che, se da un lato consente di affermare che il grado di specificita’ dei motivi non puo’ essere stabilito in via generale e assoluto, esige pur sempre che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte a incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime”.
Si giunse, cosi’, alla sentenza 29 gennaio 2000, n. 16, nella quale queste Sezioni Unite, componendo ulteriori contrasti insorti in argomento, in qualche modo rivisitarono l’orientamento di cui alla precedente decisione n. 4991 del 1987, pervenendo alla conclusione per cui la violazione dell’articolo 342 c.p.c., “determina un vizio dell’atto da qualificare, in prima approssimazione, come invalidita’”. Indi, classificata l’invalidita’ in termini di irregolarita’, ovvero di nullita’, ovvero di inesistenza, la sentenza in esame rilevo’ che l’articolo 164 c.p.c., non puo’ trovare applicazione in tema di appello. Mentre in primo grado la costituzione del convenuto “sana i vizi dell’atto di citazione, perche’ consente il raggiungimento dello scopo dell’atto”, la costituzione dell’appellato nel giudizio di secondo grado non consente il raggiungimento dello scopo “di evitare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, attraverso la denuncia della sua pretesa ingiustizia”. Di qui la conclusione per cui l’inapplicabilita’ dell’articolo 164 cit. “non esclude che si sia in presenza di un atto nullo”, nullita’ pero’ non sanabile dalla costituzione dell’appellato “e rilevabile d’ufficio dal giudice, trattandosi di accertare la formazione del giudicato interno”. Tale nullita’ fu ritenuta da sanzionare “con la pronuncia d’inammissibilita’ dell’appello proposto, proprio perche’ il giudice, rilevato il vizio dell’atto, inducente il passaggio in giudicato della sentenza, non puo’ non rilevare che il giudizio d’impugnazione non puo’ giungere alla sua naturale conclusione e cioe’ al giudizio sulla denunciata ingiustizia della pronuncia impugnata”.
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