Corte di Cassazione, sezione VI penale, sentenza  27 gennaio 2017, n. 4123

In tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra un unico reato, e non una pluralità di reati avvinti dalla continuazione, la violenza o la minaccia posta in essere nel medesimo contesto fattuale per opporsi al compimento di uno stesso atto di ufficio o di servizio, anche se nei confronti di più pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio

Perché si abbia concorso formale di reati è necessario che l’azione unica sia accompagnata e sorretta dall’elemento soggettivo tipico proprio di ciascuna fattispecie criminosa. Ciò significa che non potendosi la pluralità di violazioni farsi puramente e semplicemente derivare dalla pluralità delle persone offese è necessario, quando si verifica tale condizione, un “quid pluris”, consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, di dette persone. Ne deriva che se l’azione è unica ed unico è l’atteggiamento psicologico che sorregge il comportamento del colpevole, unico è il reato che egli commette

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI penale

sentenza  27 gennaio 2017, n. 4123

Ritenuto in fatto

1. Il difensore di fiducia di M. M. ricorre per cassazione avverso la sentenza in data 14.10.2015, con cui la Corte d’appello di Trieste ha confermato la decisione del locale Tribunale, di condanna del prevenuto alla pena di mesi otto di reclusione, in relazione ai reati, unificati per continuazione, di cui agli artt. 337, 341-bis e 651 cod. pen. – ritenuta altresì, quanto al più grave reato di resistenza, la “continuazione interna” – per aver opposto resistenza, “divincolandosi e spingendo con forza gli operatori”, nei confronti degli agenti della , Polizia di Stato che stavano procedendo alla sua identificazione, cui rivolgeva altresì, “in luogo pubblico ed in presenza di più persone”, le frasi offensive riportate nel capo b) della rubrica, sputando inoltre all’indirizzo dell’Ass. B..
Deduce in proposito il legale ricorrente:
A) assenza di motivazione, avendo la Corte territoriale asseritamente eluso lo specifico motivo di doglianza, con cui si argomentava aver l’imputato posto in essere una mera resistenza passiva, al di fuori di qualsiasi connotazione di violenza della sua condotta;
B) erronea applicazione della legge penale, avendo il giudice d’appello (al pari di quello di primo grado) ritenuto sussistente la violazione continuata dell’art. 337 cod. pen. unicamente per via della pluralità dei pubblici ufficiali presenti, malgrado non risulti che il comportamento del M. si sia realizzato con modalità differenziate a seconda dei soggetti passivi, vale a dire “con atti … specificamente rivolti nei confronti di uno o dell’altro pubblico ufficiale”, così come invece richiesto dal più recente insegnamento di questa Suprema Corte.

Considerato in diritto

1. Si premette che il ricorso proposto, alla stregua della sintesi che precede, è incentrato unicamente su questioni inerenti al reato di resistenza a pubblico ufficiale, che esauriscono quindi l’ambito del devolutum, con conseguente definitività delle statuizioni inerenti agli altri reati.
2. Palesemente inconsistente è il primo motivo di ricorso: contrariamente all’assunto difensivo, la Corte territoriale ha puntualmente preso in esame la censura prospettata con l’appello a suo tempo proposto, escludendo recisamente l’ipotesi della resistenza passiva, alla stregua della condotta posta in essere dall’imputato, il quale – si legge nella sentenza impugnata, sui punto non contrastata, se non in termini meramente assertivi – “ha, infatti, aggredito gli agenti ripetutamente con spintoni e gomitate, continuando con tale comportamento anche durante il tragitto verso la Questura”.
3. Fondato è il secondo ed ultimo motivo di ricorso, alla luce delle considerazioni che seguono.
4. Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, “In tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra un unico reato, e non una pluralità di reati avvinti dalla continuazione, la violenza o la minaccia posta in essere nel medesimo contesto fattuale per opporsi al compimento di uno stesso atto di ufficio o di servizio, anche se nei confronti di più pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio” (così Sez. 6, sent. n. 37727 del 09.05.2014, Rv. 260374).
Ebbene, tale principio di diritto – al di là dell’opzione esercitata in sede di massimazione, nel senso del riferimento alla continuazione, latamente intesa, anziché al concorso formale, come puntualizzato nella citata pronuncia – si attaglia pienamente alla vicenda processuale sottoposta al vaglio del Collegio.
5. Occorre in proposito ribadire che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 337 cod. pen. – giusta il chiaro dettato del precetto contenuto in detta norma – sanziona la condotta di colui che, con le modalità descritte dalla norma, si oppone al compimento, per quanto qui interessa, di un atto dell’ufficio da parte del pubblico ufficiale.
Dunque, l’unicità o la pluralità di reati sono in diretto rapporto con l’unicità o pluralità di atti posti in essere nell’interesse dell’Amministrazione, indipendentemente dal numero di persone (pubblici ufficiali) che ad essi attendono. Del che si trae sintomatico riscontro attraverso gli esempi riportati nella citata sentenza n. 37727/14, tratti dal ricorso proposto nell’interesse della Giustizia dai P.G. territorialmente competente: ossia dal caso della sassaiola contro i reparti antisommossa, come pure dall’ipotesi della fuga pericolosa, susseguente all’inosservanza della segnalazione di ALT, nei quali non vi è discussione in ordine alla singolarità del reato ex art. 337 cod. pen. in tal modo consumato, in pieno accordo con l’unicità dell’interesse leso facente capo alla P.A.
5.1 Quanto precede comporta l’ovvio superamento della difforme tesi, in effetti sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità e reiterata anche in epoca non remota, secondo cui “la resistenza, nel medesimo contesto, a più pubblici ufficiali non configura un delitto unico di resistenza, ma altrettanti reati quanti sono i pubblici ufficiali, giacché ia resistenza, pur ledendo unitariamente il pubblico interesse alla tutela del normale funzionamento della pubblica funzione, si risolve in altrettante e distinte offese al libero espletamento dell’attività funzionale di ciascun pubblico ufficiale” (così Cass. Sez. 6, sent. n. 35376 del 22.06.2006, Rv. 234831; conf. Sez. 6, sent. n. 38182 del 26.09.2011, Rv. 250792 e sent. n. 26173 del 17.05.2012, Rv. 253111).
E’ di tutta evidenza che l’impostazione che qui si contesta focalizza la propria attenzione non già sulla condotta tipica delineata dalla norma incriminatrice, bensì sul numero di pubblici ufficiali coinvolti, sui quale si sofferma e che valorizza, così perdendo di vista il bene indiscutibilmente oggetto della salvaguardia apprestata dall’art. 337 cod. pen., che è rappresentato dal regolare svolgimento dell’attività della P.A., per effetto della sanzione apprestata avverso l’opposizione ad un atto d’ufficio (o di servizio) che sia connotato da modalità violente o minatorie. Laddove l’offesa al pubblico ufficiale riveste carattere meramente strumentale rispetto all’interesse tutelato, senza peraltro che detta offesa rimanga priva di risposta da parte dell’ordinamento, posto che, nel momento in cui essa supera lo stadio minimale delle percosse o della minaccia semplice – che vale ad integrare l’elemento costitutivo della “violenza o minaccia” di cui ai più volte citato art. 337 cod. pen., essendo pertanto ivi assorbita – entrano in gioco (anche) le norme poste a presidio dell’integrità fisica dell’individuo.
5.2 D’altro canto, la giurisprudenza di legittimità che ha affrontato il tema del concorso formale cd. omogeneo, ha posto l’accento, al fine di differenziare il caso dell’unicità da quello della pluralità di violazioni, sul diverso atteggiarsi del dolo in capo al soggetto agente, a tal fine significando che “Perché si abbia concorso formale di reati è necessario che l’azione unica sia accompagnata e sorretta dall’elemento soggettivo tipico proprio di ciascuna fattispecie criminosa. Ciò significa che non potendosi la pluralità di violazioni farsi puramente e semplicemente derivare dalla pluralità delle persone offese è necessario, quando si verifica tale condizione, un “quid pluris”, consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, di dette persone. Ne deriva che se l’azione è unica ed unico è l’atteggiamento psicologico che sorregge il comportamento del colpevole, unico è il reato che egli commette” (così Cass. Sez. 2, sent. n. 12027 del 23.09.1997, Rv. 210458; conf. Sez. 1, sent. n. 5016 del 07.12.1987 – dep. 23.04.1988, Rv. 178225).
Con l’ulteriore puntualizzazione che anche l’autorevole dottrina che non ha lesinato critiche a siffatta impostazione – sia per la maggiore opinabilità dell’accertamento che essa richiede, sia perché il criterio della direzione finalistica degli atti non è estensibile al reati colposi – perviene alle medesime conclusioni, sia pur attraverso un diverso percorso ermeneutico. Percorso legato alla valorizzazione, in caso di presenza di più soggetti passivi, del tipo di bene protetto, avendosi pluralità di reati, e quindi concorso formale, ove si sia in presenza di fattispecie che tutelano “beni altamente personali” e, dunque, di alto valore costituzionale (è, tipicamente, il caso dell’omicidio plurimo, ma anche della violazione degli obblighi di assistenza in danno, ad esempio, dei figli minori), e, viceversa, reato unico, qualora detto bene sia di diversa natura, così occupando un gradino più basso nella scala dei valori costituzionalmente tutelati (si pensi al furto di res appartenente a più persone).
6. Ciò premesso, dalla concorde ricostruzione compiuta, in punto di fatto, dalle due conformi sentenze di merito, si ha che il M. ebbe “a dimenarsi, sgomitando e spintonando gli agenti” (cfr. pag. 1 sent. Trib.), e che tanto fece allo scopo di opporsi alla identificazione da parte degli operanti.
Pertanto, facendo applicazione degli enunciati criteri alla vicenda in esame, ne discende:
– la contestualità dell’azione, posto che la condotta dell’imputato si svolse senza soluzione di continuità, in un ristretto arco di tempo;
– l’unicità dell’atto d’ufficio, costituito dalla identificazione dell’odierno ricorrente, avvicinatosi gratuitamente e provocatoriamente agli agenti, intervenuti al fine di verificare un assembramento in orario serale presso un centro commerciale di Trieste;
– il carattere indistinto dell’azione di resistenza posta in essere dal M. e, per l’effetto, l’assenza di elementi accertati in atti, alla stregua dei quali poter fondatamente sostenere la “esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice” nei confronti di ciascun operante, secondo lo schema di cui alla richiamata sentenza n. 12027/97;
– l’estraneità del bene tutelato dalla norma incriminatrice a quelli “altamente personali”.
Tanto a significare come la conclusione della unicità del reato ex art. 337 cod. pen., posto in essere dal ricorrente, costituisca la necessitata risultante sia in forza del criterio patrocinato da questa Corte, che attinge direttamente alla struttura propria della fattispecie incriminatrice, sia alla luce dei criteri in tema di concorso formale elaborati dalla giurisprudenza di legittimità e, alternativamente, dalla dottrina.
7. In definitiva, s’impone quindi l’eliminazione dell’aumento di pena apportato a titolo di continuazione – rectius: concorso formale – già quantificato dai giudici di merito in gg. 15 di reclusione, per il resto dovendosi rigettare il proposto ricorso.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente all’aumento di pena in applicazione dell’art. 81 cod. pen. e, per l’effetto, elimina la pena di 15 giorni di reclusione. Rigetta nei resto il ricorso

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