Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 3 marzo 2015, n. 9245
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 1 ottobre 2013 la Corte d’Appello di Bologna, investita dell’appello proposto da E. F. avverso la sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dal Tribunale di Ferrara in esito al giudizio abbreviato, ha così disposto: ha confermato la sua responsabilità per il delitto di tentato furto delle offerte contenute nelle cassette all’interno del santuario della Beata Vergine di Pozzetto, aggravato dalla violenza sulle cose e dall’esposizione alla pubblica fede; ha escluso l’applicabilità della recidiva, degradata a specifica non reiterata; ha riconosciuto l’attenuante del danno lieve, giudicata equivalente alle aggravanti contestate e ritenute; ha rideterminato la pena in quattro mesi di reclusione ed euro 80,00 di multa, muovendo da una pena base di nove mesi ed euro 180,00, diminuita di un terzo per il tentativo e ulteriormente ridotta di un terzo per la scelta dei rito.
2. Ha proposto personalmente ricorso per cassazione l’imputato, affidandolo a sei motivi.
2.1. Col primo motivo il ricorrente impugna la disposta applicazione dell’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede, valorizzando l’attività di controllo esercitata dalle custodi del santuario.
2.2. Col secondo motivo deduce carenza e contraddittorietà della motivazione in ordine al giudizio di bilanciamento fra circostanze.
2.3. Col terzo motivo lamenta, siccome contraddittoriamente motivato, il diniego delle attenuanti generiche.
2.4. Coi quarto motivo denuncia errata applicazione della legge penale nelle modalità di computo della pena per il delitto tentato.
2.5. Col quinto motivo deduce carenza motivazionale in ordine alla determinazione della pena base.
2.6. Col sesto motivo sì duole della omessa sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, ai sensi dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è privo di fondamento e va disatteso.
2. L’aggravante di cui all’art. 625, primo comma, n. 7, cod. pen. è stata correttamente giudicata applicabile alla fattispecie. Ed invero, dalla ricostruzione in fatto scaturita dal giudizio di merito è emerso che dalla finestra dell’abitazione della custode P. R. era bensì possibile vedere l’ingresso della chiesa e, quindi, rendersi conto della presenza di quanti vi accedevano, ma non era controllabile quanto avveniva all’interno. La situazione così accertata non può dirsi caratterizzata dall’esistenza di una sorveglianza costante sul bene oggetto del furto, costituito dal denaro contenuto nella cassetta delle elemosine; onde la Corte d’Appello si è correttamente attenuta al principio giurisprudenziale a tenore dei quale l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede può essere esclusa da una sorveglianza esercitata sulla cosa solo se questa formi oggetto di una diretta e continua custodia da parte del proprietario o di persona addetta (Sez. 4, n. 12601 del 29/09/1995, Cici, Rv. 203138); ciò è a dirsi a maggior ragione in considerazione del fatto che l’azione illecita si è compiuta in un luogo di culto aperto ai fedeli, per cui si rende applicabile alla fattispecie anche l’ulteriore regula iuris, secondo cui la menzionata aggravante è configurabile anche in caso di sorveglianza saltuaria quando la cosa si trovi in luoghi privati ma aperti al pubblico, posto che la ragione dell’aggravamento consiste nella volontà di apprestare una più energica tutela a quelle cose mobili che sono lasciate dal possessore, in modo permanente o temporaneo, senza custodia continua (Sez. 2, n. 561 del 09/12/2008 – dep. 09/01/2009, Bacconi e altri, Rv. 242716).
3. La pena inflitta al F., così come rideterminata dalla Corte d’Appello, è senz’altro conforme a legge, sebbene nel dare contezza delle modalità di computo sia stato seguito l’anomalo procedimento di fissazione della pena base secondo il trattamento edittale del furto consumato, per poi apportare una riduzione per il tentativo, come se si fosse trattato di applicare una circostanza attenuante. In realtà si sarebbe dovuto considerare che l’applicazione dell’art. 56 cod. pen. comporta la rideterminazione ex lege dei limiti edittali, per cui nel caso del furto semplice tentato la pena va modulata ab initio entro l’arco segnato dal minimo di due mesi di reclusione ed euro 51,00 di multa, e dal massimo di due anni di reclusione ed euro 344,00 di multa. Non può, peraltro, negarsi che il risultato cui la Corte d’Appello è pervenuta (sei mesi di reclusione ed euro 120,00 di multa, poi ridotti di un terzo per la scelta dei rito) sia rispettoso dei limiti suindicati: donde l’infondatezza della denuncia di violazione di legge.
4. Inammissibili sono le censure indirizzate a impugnare la concreta modulazione della pena base, il diniego delle attenuanti generiche e il giudizio di bilanciamento fra circostanze (attestatosi sull’equivalenza, anziché sulla richiesta prevalenza dell’attenuante ex art. 62, primo comma, n. 4 cod. pen.). Trattasi, invero, di statuizioni che l’ordinamento rimette alla discrezionalità del giudice di merito, per cui non vi è margine per il sindacato di legittimità quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge e ai canoni della logica. Nel caso di specie la Corte d’Appello non ha mancato di motivare la propria decisione sui punti in questione: sia col rilevare l’insussistenza di elementi positivi atti ad indurre alla concessione di un trattamento di benevolenza nei confronti dell’imputato, non potendosi riconoscere tale efficacia alla condotta post factum del F., limitatosi a riconoscere quanto già accertato a suo carico, senza peraltro consegnare gli oggetti pertinenti al reato occultati sotto la sella del ciclomotore; sia con l’evidenziare l’elemento di segno contrario costituito dai precedenti penali, anche specifici, a carico dell’imputato. Siffatta linea argomentatíva non presta il fianco a censura, rendendo adeguatamente conto delle ragioni della decisione adottata; d’altra parte non è necessario, a soddisfare l’obbligo della motivazione, che il giudice prenda singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen., essendo invece sufficiente l’indicazione di quegli elementi che, nel discrezionale giudizio complessivo, assumono eminente rilievo (v. Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013 – dep. 2014, Waychey, Rv. 258410; Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998, Urrata, Rv. 211582).
5. Da disattendere, infine, è la doglianza inerente alla mancata sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, ai sensi dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689. Richiamandosi a un’enunciazione giurisprudenziale in senso conforme (Sez. 6, n. 41283 del 30/09/2004, Mehdij, Rv. 230116), il ricorrente sostiene che la Corte d’Appello avrebbe potuto provvedere in tal senso anche in mancanza di uno specifico motivo di gravame, dato che la pena detentiva applicata in primo grado era ostativa alla concessione del beneficio. A confutazione corre l’obbligo di osservare che, pur nella giustificata assenza di un apposito motivo d’impugnazione, la difesa dell’imputato appellante avrebbe potuto ottenere la sostituzione della pena soltanto avanzando la relativa richiesta, quanto meno nel proporre le conclusioni in sede dibattimentale, come era di fatto accaduto nel processo cui si riferisce il precedente giurisprudenziale citato; ed invero, pur nell’ipotesi in cui l’applicazione del beneficio si renda possibile solo a seguito dei ridimensionamento della pena in secondo grado, rimane fermo il divieto per il giudice di appello di emettere motu proprio la relativa statuizione quando manchi, come nel caso di specie, qualsiasi richiesta di parte.
6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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